L'aproibizionismo, un'alternativa possibile?

Dott. Andrea Michelazzi

Prima di esplicare ciò che intendo per aproibizionismo, è opportuno fare alcune considerazioni che rendano possibile una più precisa comprensione della questione.

Innanzitutto è importante rilevare che la questione droga ha progressivamente coinvolto la società occidentale e quella occidentalizzata, a partire dalla fine del XVI inizio XVII secolo.

Medesimo periodo in cui si sviluppava dalla società mercantile quella più propriamente capitalistica. Allo sviluppo della società capitalistica è corrisposta progressivamente la diffusione dell'uso ed abuso di droghe, diverse per il loro effetto, per la loro potenziale tossicità e per la capacità di indurre dipendenza. Attualmente si possono stimare milioni di consumatori e dipendenti dalle varie droghe: cannabis, tabacco, cocaina, alcool, anfetamine, estasy. Altre sostanze, non propriamente considerate droghe, come alcuni psicofarmaci o gli alimenti stessi non raramente acquisiscono qualità per cui possono essere considerate quasi alla stessa stregua. La videodipendenza, la pornofilia, forse anche alcune pratiche sessuali sono comportamenti in cui parimenti si possono individuare caratteristiche più propriamente specifiche del comportamento tossicomanico. Tutto ciò non può essere un caso.

L'Illuminismo, l'esaltazione della Ragione, la mercificazione degli scambi, la divisione e la meccanizzazione del lavoro evidentemente hanno prodotto una società che oltre ad essere dipendente dal denaro e dal consumo è sempre più dipendente in un senso decisamente più ampio. Una sorta di controvalore di Sragione che espulso a forza da una violenza economico-intelletuale, ritorna subdolo, in una sorta di consustanziazione strutturale al sistema sociale che lo aveva appunto escluso. Il sistema capitalistico si evolve e con esso si modifica la tipologia d'abuso. L'economia politica non è più pensabile nei termini classici perchè il valore referenziale - o d'uso - di una merce non fa più testo, aumenta il disorientamento accanto all'esaltazione del valore strutturale - o di scambio - delle merci e l'abuso si sposta sulle sostanze

eccitanti, che danno "sicurezza". La divisione del lavoro si è specificata nella meccanizzazione del lavoro, l'alienazione si è specificata nell'espropriazione. L'aspetto feticistico del denaro, inteso nel senso di sottendere rapporti di produzione affatto diversi dalla loro immediata connotazione, si è evoluto, nell'attuale fase della mercificazione degli scambi, in quell'oscenità che supera la seduzione della merce per dar vita invero alla fascinazione ed all'assoggettamento proprie dei rapporti di riproduzione.

Dalla religione come oppio dei popoli, all'oppio come

religione in un primo tempo, all'estasi chimica dei tempi attuali.

Se il disagio psichiatrico ha rappresentato lo scacco alla produzione fondata sulla divisione del lavoro il disagio connesso alle dipendenze rappresenta lo scacco alla riproduzione fondata sulla meccanizzazione dello stesso.

Alla criminalizzazione del bisogno psichico, alla violenza delle pratiche escogitate per la sua gestione fanno riscontro sul piano delle dipendenze le medesime istanze repressive con i medesimi strumenti operativi: il carcere per la componente illecita, la comunità per la componente pedagogico-rieducativa, il servizio pubblico per l'aspetto sanitario.

Anche l'intento soggiacente è lo stesso, quello cioè di gestire e reprimere ogni forma di devianza che, in quanto devianza, non può essere riconosciuta come parte integrante dei valori dominanti di una determinata società in un particolare momento storico. Nella fattispecie della società del capitale ogni forma di scacco alla produttività fondata sulla divisione del lavoro era riconosciuta "anormale" e "malata". La forma data alla "malattia" ed i suoi "strumenti terapeutici" erano, e sono ancora in parte, funzionali alla conservazione del sistema dominante. I manicomi, l'elettroshock, gli shock malarici ed insulinici, i manicomi criminali, l'uso eccessivo di psicofarmaci sono solo alcuni esempi. Lo scacco alla riproduzione, rappresentato dalle dipendenze, si configura diversamente ed è collegato all'appagamento al di fuori dei beni di consumo così come alla modificazione dello stato di coscienza. Non è a caso che le droghe penalizzate sono proprio quelle che producono un'alterazione dello stato di coscienza o ancor di più, un accesso al piacere. Non importa il grado di dipendenza o la tossicità, il tabacco e l'alcool come alimento sono esempi emblematici in questo senso.

La nozione giuridica di pericolosità sociale, un tempo automaticamente attribuita alla follia, sopravvive nel caso delle dipendenze e condiziona ad esempio la cosiddetta politica di riduzione del danno. Infatti questa si propone appunto di ridurre gli effetti di una pericolosità implicita nel tossicodipendente rispetto i danni che potenzialmente potrebbe provocare a se stesso o alla società "sana".

Tale nozione condiziona ancora di più, evidentemente, l'ambigua politica sanitaria-assistenziale propria della legge Jervolino-Vassalli grazie alla quale le dipendenze sono palleggiate tra carceri, comunità e Servizi Pubblici organizzati come dei "tossicomi". Solamente il Referendum Popolare del 1994 ha reso possibile una assistenza sanitaria un po' più differenziata, ma già è attivo un tentativo per neutralizzarne gli effetti.

E' del resto evidente che le attuali politiche non sono sufficienti a risolvere il problema, gli abusi sono in costante aumento, le morti per droga continuano ad essere molto numerose, le infezioni virali gravi anche, le carceri sono affollate da tossicodipendenti, la stessa Magistratura è intasata da procedimenti penali e civili in materia di droga, pur intaccando minimamente il grosso spaccio, la criminalità organizzata continua ad arrichirsi ed a riciclare i profitti, la circolazione della droga continua ad essere abbondantissima, i reati collegati al traffico di droga non diminuiscono, la spesa pubblica in merito a tutto ciò è di dimensioni notevoli ed i risultati sono scarsi.

E' indispensabile prendere atto che esiste una realtà di bisogni o comunque una realtà di domande la cui repressione non ha funzionato e non funziona. Quindi credo sia un dovere sociale cominciare a pensare a dei percorsi alternativi.

Sul fronte politico si affrontano il proibizionismo e l'antiproibizionismo.

Voglio fare alcuni parallelismi che forse possono aiutare a comprendere il punto di vista aproibizionista.

L'antiproibizionismo rappresenta nei confronti del proibizionismo ciò che in campo economico la politica liberista rappresenta nei confronti del protezionismo.

La libertà di impresa intesa come libertà di profitto si può pensare come controfigura sul mercato della libertà di drogarsi come la può intendere la visione libertaria nelle sue espressioni più estreme.

Così come l'anarchia può essere intesa una forma di liberismo senza lo stato di polizia, l'antiproibizionismo estremizzato coduce alla logica del "tutto è lecito".

Il grado di protezionismo sul mercato procede più o meno parallelamente alla gradazione del proibizionismo fino a giungere alla concezione assolutistica dello stato etico in cui protezionismo e proibizionismo raggiungono la loro espressione più forte.

A seconda se l'accento viene posto sulla libertà individuale di seguire i propri "bisogni", di appagare i propri desideri, di avere una risposta alle proprie domande, oppure sulla necessità etica e morale di esercitare un controllo più o meno forte affinchè la civiltà abbia uno sviluppo ecco che si costituiscono il fronte antiproibizionista e quello proibizionista.

E' un'impasse. L'antagonismo delle due prospettive è tale che ciascuna posizione può autorizzarsi o sconfessare l'altra con una molteplicità di motivazioni altrettanto leggittime.

Sul piano pratico abbiamo visto che il fronte proibizionista ha fallito.

L'antiproibizionismo è un percorso percorribile ma credo non sia l'unico e forse nemmeno quello più propriamente vincente

Anzi potrebbe anche essere pericoloso. Inserire sul mercato una libera commercializzazione di una merce significa automaticamente inserirla in una logica di profitto, di vendita, di incentivazione della domanda e quindi con tutta probabilità significa diffondere il consumo di droghe e magari spostare il profitto dall'impreditoria clandestina a quella autorizzata.

Sappiamo bene quanto sfumata può essere la differenza in una logica di mercato globale come quello attuale.

Ma l'antiproibizionismo non è l'unico percorso alternativo rispetto quello proibizionista, ne rappresenta la controfigura, la necessaria opposizione.

Potrebbe essere presa in considerazione, in una prospettiva dialettica, una sintesi che faccia mediazione tra i due, ma neppure questa credo sia la soluzione vincente così come il pensiero critico oramai non è più sufficiente all'elaborazione dello stato attuale.

E' necessario un salto qualitativo che vada oltre la contrapposizione , un aldilà dall'antiproibizionismo come dal proibizionismo.

Ciò che intendo è una prospettiva che più propriamente si ponga altrove rispetto questi punti di vista, che ne prenda la distanza, che si allontani e che ne privi la ragione d'essere o di contrapposizione.

In questo senso preferisco parlare di aproibizionismo dove la privazione, la presa di distanza è già operativa a livello del significante.

Sul piano pratico questo significa pensare modalità di superamento che siano alternative alla logica più propriamente proibizionista ma anche a quella antiproibizionista.

Significa pensare una modalità che non legalizza per fare merce nel mercato. Significa pensare una modalità che renda possibile una gestione delle domande al di là della loro repressione o medicalizzazione forzata, ma anche al di là della possibile implementazione dell'offerta. Significa pensare un potenziale consumo, e quindi un valore d'uso, che non faccia parte del mercato dello scambio. Significa togliere ad una merce ciò che la rende tale, purificarla, per così dire, rendendo possibile sia la liceità di ciò che rimane al di fuori della logica della produzione e riproduzione, sia la presa di distanza da un atto che evidentemente non può essere rinforzato nella sua potenziale diffusione.

A questo titolo mi sembra indispensabile differenziare le sostanze in base alla loro diversa nocività sia per quanto riguarda il grado di dipendenza che inducono, sia per la loro tossicità diretta, sia per il grado di alterazione dello stato di coscienza che inducono.

La cannabis in questo senso apparterebbe alle sostanze per cui si potrebbe prevedere, a mio avviso, per gli adulti, la libertà della coltivazione ad uso personale, oltre che l' uso terapeutico su prescrizione medica e\o una qualche forma di monopolio di stato mentre la somministrazione terapeutica d'eroina controllata sarebbe più opportuna per la dipendenza da eroina (solo per soggetti che non riescono a seguire altri trattamenti ecc.). La depenalizzazione dell'uso appartiene alla prospettiva aproibizionista in senso generale mentre sarebbero da pensare strategie di distribuzione "ludica" controllata per sostanze la cui nocività è più che evidente, ad esempio alcool, tabacco, estasy, cocaina. Distribuzione da organizzare evidentemente , in regime di monopolio di stato o comunque "non profit" ed accompagnata da un adeguato dispositivo informativo di prevenzione ed educazione.

Tutte queste sono naturalmente proposte per una riflessione più approfondita, ma spero di essere riuscito a comunicare in un certo senso, l'essenza di ciò che intendo per aproibizionismo che forse non è applicabile solamente alla questione droga.

 

Trieste 10/12/98