"Inquinamenti da guerra": Bari, 2 Dicembre ’43,

conseguenze di un disastro ambientale mai sufficientemente analizzate

Il 2 dicembre 1943 rappresenta per il tratto costiero a nord della città di Bari, il giorno più infausto della storia del proprio territorio.

Un bombardamento tedesco nel porto di Bari causò la morte di oltre un migliaio di persone, tra civili e militari. Quella notte diciassette navi ancorate nel porto della città pugliese cariche di circa 38.000 tonnellate di materiale bellico furono annientate dalla "Luftwaffe"; altre otto rimasero seriamente danneggiate.

Tra le navi affondate in quel tragico raid, vi era il mercantile americano "John Harvey", il cui carico composto da un centinaio di tonnellate di bombe principalmente all’iprite, era sconosciuto alla maggior parte degli "addetti ai lavori" presenti nella zona portuale.

Le fiamme generate inizialmente sul mercantile americano, provocarono la fuoriuscita, dai contenitori delle bombe, dell’iprite. Questa frammista alla nafta, in fiamme sull’acqua, generò ben presto un’enorme nuvola di fumo che investì l’intero porto e la città vecchia, rendendo micidiale l’aria che i pochi superstiti respirarono inconsciamente. Da lì a breve la "John Harvey" saltò in aria disseminando il suo venefico carico composto da iprite di tipo "Levinstein H" e distillato di iprite in una vasta area marina prospiciente il porto.

Le conseguenze, in termini umani ed ambientali, furono tali da provocare il più grave disastro di guerra chimica del secondo conflitto mondiale.

Quasi 60 anni dopo, il numero di ordigni all’iprite che giacciono nei fondali antistanti la costa a nord di Bari è sconosciuto, si pensa siano migliaia. D’altronde in questi ultimi anni non è mai stato fatto un vero censimento. Nei vari progetti di studio realizzati finora, le informazioni richieste agli organi militari competenti non hanno mai trovato sufficiente risposta.

Vi è l’impressione, comunque che il problema non sia mai stato considerato con particolare attenzione; del resto di quella vicenda oggi si trovano poche tracce emotive tra la popolazione, anzi molti giovani ignorano del tutto l’accaduto.

Intanto in questi decenni trascorsi sono stati segnalati molti casi di pescatori che hanno subito tipiche contaminazioni di gas velenosi durante la loro attività. Questi infatti rinvenivano nelle reti bombe cariche dei suddetti agenti chimici con cui facilmente venivano a contatto. I casi di contaminazione accertati finora superano i 250, di cui qualcuno mortale.

Negli anni del dopoguerra la Marina Militare italiana provvide alla "bonifica" del porto, recuperando gli ordigni presenti nella zona di mare antistante per poi ributtarli in mare più a largo, oltre i mille metri di profondità. Consuetudine questa molto praticata in tutto il mondo, fino a trenta anni fa, in situazioni analoghe accadute nel mare del Nord, lungo le coste degli Stati Uniti e del Giappone.

A Bari tale attività di recupero delle bombe sommerse, fu intrapresa anche da privati cittadini al fine di recuperare la costosa polvere da sparo in esse contenuta. Spesso però si "pescavano" tra l’altro, gli ordigni carichi di iprite sostanza praticamente di scarso valore economico. Queste di conseguenza venivano puntualmente ributtate in mare senza alcun controllo delle autorità militari.

Per tale motivo molti di questi pericolosi ordigni chimici si trovano attualmente a basse profondità e per giunta non si conosce la loro localizzazione.

L’iprite rappresentava nei tempi del conflitto un mezzo estremo di guerra, nonostante il suo utilizzo fosse messo definitivamente al bando dalla convenzione di Ginevra già nel 1925, all’indomani del primo conflitto mondiale dove era stata usata e "con successo" dai tedeschi (il nome iprite deriva infatti dal villaggio belga di Ypres dove tale composto venne usato per la prima volta).

Malgrado la convenzione di Ginevra questa micidiale sostanza, unitamente ad altre più pericolose e moderne (Sarin e VX come armi chimiche letali; DM, BZ, CN, CS come armi chimiche inabilitanti; agente arancione, bianco, blu e acido calcolitico come armi chimiche antipiante tristemente note, quest’ultime per il loro utilizzo in Vietnam) in questi ultimi anni è stata utilizzata segretamente, per scopi bellici, in varie parti del mondo.

Allo stato grezzo l’iprite (solfuro di etile biclorurato S(CH2-CH2Cl)2), è un gas di colore senape (da cui il nominativo di "gas mostarda"); a temperatura ambiente è stabile ma se fatta esplodere sprigiona un gas venefico dal caratteristico odore di aglio. Tale gas è attualmente considerato un’arma chimica irritante a causa della sua azione sull’organismo umano. Appartiene alla categoria degli "agenti vescicanti", infatti provoca sulle mucose dolorose ulcerazioni e vesciche; ha anche azione tossica e soffocante provocando irritazioni polmonari. Una volta penetrata nell'organismo attraverso la pelle l'iprite può fissarsi nei tessuti e intossicare l'intero organismo in 24 ore. Se inspirata, uccide quasi all’istante (si pensi che per uccidere una persona ne occorrono dieci milligrammi).

Agli inizi degli anni ’40 Auerbach scoprì che alcune sostanze adoperate per scopi bellici, ed in particolare quelle appartenenti al gruppo dell’iprite, presentavano azione mutagenica.

Gli effetti ambientali di tali armi chimiche sui vari ecosistemi, sono poco noti. A causa anche della scarsità di ricerca scientifica da sempre ostacolata da segreti militari.

L’impatto che le bombe di iprite hanno avuto e continuano ad avere su una parte di costa pugliese è dunque attualmente sconosciuto. Pertanto di recente il Ministero dell'Ambiente ha avviato una campagna per localizzare i micidiali ordigni, studiarne le conseguenze sull’ecosistema marino e successivamente bonificare l’area.

Il progetto, denominato "Acab" (Armi chimiche affondate e benthos) è stato affidato all’ICRAM l'Istituto centrale per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare in collaborazione con le Università di Bari e Siena.

La prima parte del progetto, nonostante la scarsità di informazioni ottenute, ha permesso di individuare alcuni punti "caldi". Tra questi la zona di mare antistante Molfetta, a circa 35 miglia dalla costa, tra i 200 e i 400 metri di profondità. Sono state individuate anche diverse sostanze di cui però si ignorano del tutto gli impatti sull’habitat marino.

 

Antonio Aprigliano (anno 1999)

 

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