Le cave nel paesaggio pugliese:

lo sfruttamento di una risorsa,

un potenziale problema urbanistico ambientale

La geologia della Puglia caratterizzata dalla presenza di una piattaforma carbonatica formatasi durante l’era secondaria, giustifica l’assenza di una ben definita idrografia superficiale. Le falde sottostanti, costituiscono un gran serbatoio d’acqua tanto prezioso quanto vulnerabile a tutte quelle forme d’inquinamento antropico derivanti da rilasci di corpi inquinanti.

Volando a bassa quota sul territorio pugliese non passa inosservata la presenza di tante aperture del suolo che caratterizzano varie zone della regione.

Le formazioni geomorfologiche naturali superficiali più tipiche del paesaggio carsico sono le doline (es. il "Pulo" di Molfetta, di Altamura, di Andria), depressioni del territorio che raccolgono l’acqua superficiale e la convogliano nelle falde sottostanti. A queste forme si aggiungono quelle antropiche che in misura maggiore caratterizzano il paesaggio: le cave a "fossa", tipiche degli ambienti pianeggianti.

Sin dai tempi antichi, i nostri progenitori estraevano materiale dal sottosuolo per scopi ornamentali e per le costruzioni, basti pensare a Castel del Monte, ai trulli di Alberobello o alle tipiche masserie del XV e XVI sec.

Ai nostri giorni le cave rappresentano giacimenti di materiale naturale imprescindibili per l’industria edile (produzione di cemento, calce, ecc.). La "coltivazione" di questi materiali ha sempre condizionato buona parte dell’economia pugliese; l’alabastro, il tufo, i c.d. marmi estratti, hanno sempre trovato vasti apprezzamenti in tutto il mondo. La pietra calcarea inoltre, trova impiego nella cosmesi e nell’industria dell’acciaio, infatti, una delle più grosse cave europee si trova all’interno del siderurgico tarantino.

La coltivazione di tali materiali presenta tuttavia alcuni lati negativi, dovuti soprattutto alle variazioni indotte sulla configurazione del paesaggio e, più in generale, nelle condizioni naturali dell’ambiente.

L’attività di cava in Puglia, è anche legata all’estrazione della bentonite (pochi siti di scarso impatto paesaggistico) e della "terra rossa", materiale residuale limoso argilloso, utilizzato come suolo idoneo a coltivazioni agricole. Frequente quasi ovunque, la terra rossa si rinviene in superficie come riempimento delle formazioni carsiche naturali suddette. Le cave di terra rossa, spesso in esercizio saltuario, presentano uno scavo di notevole dimensioni e profondità di una decina di metri. Spesso le cave in disuso diventano sede di ristagni d’acqua che perdurano per tempi anche lunghi con inevitabili ripercussioni igienico ambientali.

L’attività di estrazione non è diffusa in maniera omogenea in tutto il territorio pugliese; se si considerano le cave attive s’individuano, per ogni provincia, zone ad alta distribuzione ognuna con tipiche coltivazioni:

- Trani per la provincia di Bari (calcare, "Pietra di Trani" e "marmi" utilizzati a scopo ornamentale, rivestimenti interni ed esterni, pavimentazioni);

- Cursi e Melpignano per la provincia di Lecce (calcarenite nota come "Pietra Leccese", utilizzata per lavori artistici e di restauro);

- Ginosa per Taranto (sabbie e ghiaie per l’industria edile);

- Poggio Imperiale e Apricena per Foggia (calcare utilizzato a scopo ornamentale).

In Puglia come in quasi tutte le regioni del Sud, manca un preciso censimento delle cave; lavoro che richiede professionalità, personale adeguato e conoscenza del territorio. Da una stima superficiale si rileva che le cave in disuso sono in numero maggiore di quelle in attività. Nella sola provincia di Bari si contano più di 600 cave abbandonate, nella provincia di Lecce vi sono all’incirca 20 cave abbandonate per ogni 100 Km2, Taranto ne conta 13 per ogni 100 Km2, Foggia e Brindisi meno di 10; la maggior parte di questi siti risulta non avere specifici utilizzi.

La disciplina delle cave è tuttora regolata dall'articolo 45 del regio decreto 29/07/’27, n. 1443 ("legge mineraria"), modificato dall'articolo 7 del DPR 28/06/’55, n. 620 e dalle successive modificazioni. In base a tali disposizioni e salvo particolari leggi regionali, le cave sono lasciate al libero arbitrio del proprietario del suolo.

È opinione diffusa che nel territorio nazionale, tale normativa ha aumentato i contrasti fra tutela paesaggistico ambientale e "pretese" produttive. La libertà con la quale fino ad oggi le cave sono state aperte ed abbandonate, nonché il mancato ripristino delle stesse, rappresenta una delle cause principale dello scempio paesaggistico ambientale, con gravi ripercussioni nei territori collinari, negli alvei dei fiumi ed in pianura.

In Puglia la scelta del sito di estrazione ha spesso prevalso sulla salvaguardia paesaggistica alterando o distruggendo importanti forme carsiche epigee (lame). Al termine della coltivazione, spesso, facendo affidamento sulle buone caratteristiche meccaniche dei materiali, i fronti di cava vengono lasciati in assetto verticale, senza l’adozione di misure atte ad attenuare la scarpata. Inoltre molte di queste attività sono spesso poste in aree di particolare valore naturalistico, pertanto rumore e polvere inducono modificazioni sulla vita animale e vegetale. Un altro fenomeno di degrado ambientale avveniva negli anni addietro, quando era pratica comune riversare i fanghi calcarei provenienti dalla lavorazione della pietra direttamente in mare. Questo creava lungo la costa, seri problemi d’inquinamento marino; oggigiorno è pratica riversare tale materiale all’interno della stessa cava.

Dalle indagini condotte dagli organi competenti, emerge un rapporto assai stretto fra l'incontrollato sviluppo dell'attività estrattiva e il successivo uso del sito ai fini dello smaltimento abusivo di ogni sorta di rifiuti. Molti luoghi adibiti a discariche abusive sono vecchie cave in disuso. In tali siti s’ignorano completamente tutte le misure di tutela ambientale. Pertanto la pratica di utilizzare il suolo come ricettacolo finale di ogni tipo di rifiuto solido o liquido, in una regione carsica come la Puglia, determina un potenziale pericolo d’inquinamento delle falde acquifere sottostanti per filtrazione di percolato. Con questo si giustifica la presenza massiccia di colibatteri, cloruri, fosforo, nitriti, ammoniaca, ecc., nell’analisi dell’acqua del sottosuolo di alcune zone della Puglia.

Recentemente si assiste ad un timido ripristino dei vecchi siti per usi prevalentemente agricoli (meno del 20 %) o in alternativa come discariche controllate per RSU, previo valutazione ambientale. Nell’ambito di queste ultime prevalgono le discariche di materiale inerte.

Appare dunque imprescindibile che l’attività di cava sia regolamentata al fine di individuare siti di scarso valore paesaggistico naturale. Inoltre la scelta del luogo deve annullare completamente gli eventuali rischi d’inquinamento idrogeologico. Pertanto se l’area presenta una vocazione agricola sarebbe auspicabile restituire a tale area il sito sottratto. La destinazione a discarica deve essere preceduta dalle necessarie indagini preliminari per mitigare il forte impatto ambientale che determina una tale destinazione.

Il proprietario della cava è obbligato alla risistemazione ambientale del sito una volta cessata l’attività di estrazione. Pertanto la domanda di apertura di una cava deve essere accompagnata dal piano di recupero del sito ad attività esaurita.

Quanto affermato è in genere già previsto dalle leggi vigenti, ma difficilmente se ne vedono gli effetti.

 

Antonio Aprigliano

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