Procedimento disciplinare e destituzione

 Di Roberto Gurini

Sentenza TAR Campania, sez. prima, Pres. Coraggio, De Maio, Carpentieri. n. 908/ 1999

In materia disciplinare, rientra nella valutazione discrezionale dell'Amministrazione la qualificazione dei fatti commessi dal dipendente ai fini della loro rilevanza disciplinare e della valutazione della sanzione da irrogare, che è censurabile in sede di legittimità, solo in caso di evidente sproporzione tra i fatti addebitati al ricorrente e la sanzione inflitta.(1)

Ai sensi del combinato disposto degli artt. 405 comma 1 e 60 comma 1 del c.p.p., la sottoposizione a procedimento penale ha luogo allorché il soggetto assume la qualità di imputato, con l'esercizio dell'azione penale da parte del pubblico ministero mediante la formulazione dell'imputazione nei casi previsti, ovvero con la richiesta di rinvio a giudizio. Pertanto la mera trasmissione della denuncia, da parte dei Carabinieri all'Autorità Giudiziaria, non rileva ai fini della sospensione del procedimento disciplinare, fino a quando non è inviato l'avviso di garanzia.

 

La sentenza in commento, si pronuncia su un istanza di annullamento del provvedimento disciplinare di destituzione di un agente di P.S., a firma del Capo della Polizia, in applicazione dell'art. 7 del d.P.R. 737/1981, per il compimento di atti in contrasto con i doveri assunti con il giuramento, che arrecano grave pregiudizio all'Amministrazione della Pubblica Sicurezza, e che dimostrano mancanza del senso dell'onore e del senso morale.

Il ricorrente propone quattro motivi di gravame con i quali denuncia: a) violazione dell'art. 11 del d.P.R. 737/1981, per il fatto che il procedimento disciplinare doveva essere sospeso, essendo stato, il ricorrente, sottoposto al procedimento penale; b) eccesso di potere per carenza di istruttoria; illogicità, contraddittorietà ed insufficienza della motivazione in relazione alle risultanze dell'istruttoria; c) sviamento del potere per applicazione della sanzione più grave in relazione ai fatti addebitati; d) sviamento di potere per carenza di istruttoria e di motivazione e per violazione dell'art. 13 d.P.R. 737/1981, per mancata valutazione delle circostanze attenuanti e di precedenti disciplinari,

Il T.A.R. Campania rigetta il ricorso, affermando la legittimità del provvedimento disciplinare, espressione del potere discrezionale della P.A..

 

Discrezionalità e principio di legalità in tema di procedimento disciplinare.

Premessa

La destituzione è la più grave sanzione disciplinare, che determina una interruzione del rapporto di lavoro con la Pubblica Amministrazione, e consiste nella cancellazione dai ruoli di quel dipendente che, con la sua condotta, abbia reso incompatibile la sua permanenza in servizio, essendo stato compromesso in modo irreparabile il rapporto di fiducia nei suoi confronti.

La sanzione disciplinare è espressione del potere sanzionatorio dell'Amministrazione che trova fondamento nella legge e limite invalicabile nella Costituzione. Il referente normativo principale in materia è dato dall'art. 84 e ss. del T.U. del 10 gennaio 1957, n. 3, che prevede la destituzione del pubblico dipendente in seguito a procedimento disciplinare (art. 84), e la destituzione automatica in seguito a sentenza di condanna passata in giudicato. Ciò che caratterizza tale istituto nella sua formulazione originaria è la possibilità di infliggere in modo automatico tale sanzione, e ciò segna di conseguenza la riflessione della dottrina e della giurisprudenza del tempo, che si interrogano sulla legittimità di tale norma (art.85 lett. a d.P.R.) in rapporto agli artt. 3, 5, 35, 36,, 97, della Costituzione. Per molto tempo il Giudice delle leggi ha ritenuto compatibile l'art. 84 legge cit. con gli articoli su indicati, affermando la legittimità della destituzione automatica, non solo per i reati commessi ma anche per le correlative figure di tentativo, le quali costituiscono un grado di quel medesimo processo criminoso che considerato nella sua totalità, è il delitto consumato e perfetto, sicché la nota di indegnità colpisce ugualmente tanto chi viene a portare a compimento la sua attività illecita, quanto colui la cui azione si esaurisce nel tentativo. Parimenti, in una successiva pronuncia, forse riconoscendo implicitamente la serietà e gravità del problema sottoposto alla sua attenzione, dichiara ancora una volta inammissibile la questione di legittimità, "richiedendosi alla Corte una scelta discrezionale riservata al legislatore" invitando, in tal modo, il Parlamento ad un ravvedimento sul punto.

Le critiche incalzanti della dottrina, da un lato, e la sorda inerzia del legislatore, dall'altro, spinsero la Corte costituzionale ad un revirements, dichiarando la illegittimità costituzionale dell'art. 84 legge cit., nella parte in cui non prevede in luogo della destituzione di diritto dei dipendenti dello Stato condannati per i reati ivi elencati, l'apertura e lo svolgimento del procedimento disciplinare a garanzia del principio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto criminoso commesso, e a tutela del diritto di difesa del pubblico dipendente.

La sentenza che ha decretato la illegittimità della destituzione di diritto così come disciplinato dall'art. 84 T.U. n.3 del 1957 ha determinato di conseguenza la disapplicazione di quelle norme che avevano introdotto la medesima sanzione in particolari settori della Pubblica Amministrazione, come ad esempio l'articolo 8 della legge 737/1981 in tema di procedimento disciplinare per i dipendenti dell'amministrazione di Pubblica Sicurezza.

L'applicazione automatica della destituzione in seguito a sentenza passata in giudicato è destinata, tuttavia, a scomparire del tutto con l'entrata in vigore della legge n. 19 del 1990, che all'articolo 9 testualmente dispone: "Il pubblico dipendente non può essere destituito di diritto a seguito di condanna penale. E' abrogata ogni contraria disposizione di legge".

Nuovi profili del procedimento disciplinare.

La sentenza della Corte costituzionale prima, e la legge del 1990 dopo, hanno precluso all'amministrazione di infliggere in via automatica la sanzione della destituzione e hanno indicato quale unica via per l'applicazione del provvedimento disciplinare un autonomo procedimento amministrativo, che garantisca la terzietà dell'organo giudicante, obbiettività e serenità di giudizio, il principio del contraddittorio, la tutela del diritto di difesa, la proporzionalità della sanzione applicata.

La conseguenza più rilevante che emerge dalla riforma introdotta dalla legge del 1990 è la sostanziale autonomia del procedimento disciplinare dal processo penale, benché l'articolo 11 legge cit. disponga la sospensione del primo fino alla definizione del secondo con sentenza passata in giudicato. Tale indipendenza si traduce di fatto nel potere della P.A. di qualificare e valutare autonomamente i fatti addebitati all'imputato e già accertati nel corso del processo penale.

Mentre prima della sentenza della Corte costituzionale, la legge limitava fortemente la scelta discrezionale dell'amministrazione attribuendole scelte nell'an ma non nel quantum della sanzione di destituzione che poteva seguire automaticamente alla sentenza di condanna passata in giudicato, dopo l'intervento della Consulta e la riforma normativa, la situazione appare capovolta dal momento che l'Amministrazione procedente, ha piena discrezionalità, nella qualificazione del fatto e nella applicazione delle sanzioni disciplinari, salvo particolari limiti di legge. Tale orientamento è confermato da una giurisprudenza ormai consolidata: così in diverse sentenze, si afferma che nel procedimento disciplinare, (a differenza di quanto avveniva nel 1988, vedi sopra) la P.A. deve tenere conto degli elementi oggettivi e soggettivi del reato, per cui assume immediata rilevanza se il fatto criminoso sia stato compiuto o solo tentato. La indipendenza dei due procedimenti è inoltre affermata, da quella giurisprudenza che dichiara la legittimità del provvedimento disciplinare, adottato nei confronti di un dipendente pubblico a cui carico vi è un processo penale non ancora concluso.

L'autonomia del procedimento disciplinare si manifesta soprattutto in un terzo modo, traducendosi in discrezionalità amministrativa insindacabile dal giudice di legittimità, se non in casi particolari: tale orientamento inaugurato indirettamente proprio dalla sentenza della Corte costituzionale nel 1988 ha trovato conferma nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, secondo cui non è consentito al giudice amministrativo di valutare autonomamente il fatto imputato al pubblico dipendente, (e giudicato dall'Amministrazione tale da legittimare l'irrogazione della sanzione disciplinare), poiché la valutazione sulla punibilità del comportamento rientra nella sfera discrezionale della P.A., e non può essere sindacato se non per eventuali ragioni di contraddittorietà, illogicità e travisamento dei fatti.

Se tale sentenza ha il merito di circoscrivere il sindacato del giudice di legittimità, la sentenza del Consiglio di Stato 25 Marzo 1996 sez. IV (in Foro Amministrativo 1996, pag.863) ha il pregio ulteriore di giustificare e fondare scientificamente tale scelta, affermando che il giudicato amministrativo, non può estendersi al giudizio sulla gravità del fatto, perché il provvedimento sanzionatorio è espressione di un potere autoritativo che si basa su una valutazione di merito, per tanto riservata esclusivamente alla P.A..

Tuttavia, con l'introduzione del vizio dell'eccesso di potere, indirettamente il G.A. valuta e giudica tutti quei provvedimenti amministrativi, anche discrezionali nel merito, che per vari motivi (travisamento dei fatti, abuso di potere, ed altro) sono illegittimamente posti in essere, ed in materia disciplinare tale prassi è finita col giungere a valutare anche la severità della sanzione applicata: per questa strada, numerose sentenze affermano la illegittimità del provvedimento di destituzione dell'impiegato, qualora l'amministrazione, nella applicazione del provvedimento disciplinare, non abbia rispettato il principio di proporzionalità, risultando la sanzione applicata eccessivamente severa rispetto al fatto addebitato: è da aggiungere che, la sproporzione tra illecito disciplinare e sanzione integra anche il vizio di illegittimità per violazione di legge dal momento che lo stesso principio di proporzionalità è positivamente previsto dagli articolo 1 e 13 della legge 737/1981, e non può non avere applicazione al di fuori dei casi espressamente previsti, pena la illegittimità costituzionale della norma.

Conclusioni

La giurisprudenza ha ormai chiarito che a norma dei d.P.R. 737/1981(procedimenti disciplinari per i dipendenti delle Amministrazioni di P.S.) e 19/1990 il procedimento disciplinare è essenzialmente autonomo dal processo penale, sia nella valutazione della gravità del fatto sia nella applicazione della sanzione, ed ha altresì affermato che la scelta della Autorità procedente in quanto discrezionale nel merito è del tutto insindacabile, fatti salvi i casi in cui il provvedimento sia viziato da eccesso di potere o violazione di legge, quando sia violato il principio di proporzionalità (art. 1 e 13 della l 737/1981). E' bene aver dipanato ogni dubbio sulla natura e sul contenuto della discrezionalità (cfr. Consiglio di Stato 25 Marzo 1996 sez. IV in Foro Amm. 1996 pag. 863) sottolineando che si tratta di valutazione nel merito ed eliminando cosi ogni tentativo di "rivalutazione" in sede giurisdizionale di quei criteri che guidano, secondo indici di opportunità, l'azione amministrativa, ma come conciliare la discrezionalità amministrativa con il principio di legalità ?

Generalmente l'azione amministrativa è prevista e disciplinata da fonti normative a livello primario e secondario, con leggi e regolamenti che pur individuando gli scopi ed i limiti imposti alla sua discrezionalità, lasciano un certo margine di scelta, per consentire alla stessa una azione efficace ed allo stesso tempo compatibile con il principio di legalità.

Ma tale garanzia sembra del tutto insufficiente quando la scelta discrezionale è volta a valutare ex se la gravità dell'illecito disciplinare ai fini dell'applicazione della sanzione. Certo si potrebbe a ragione replicare che la legge, anche in materia penale, finisce con il riconoscere al giudice un certo margine di scelta nella valutazione dei fatti (cfr. art. 133 c.p.), ma tuttavia si può facilmente osservare che, il principio di tassatività e determinatezza, limita la valutazione del giudice nella qualificazione del fatto rimesso alla sua cognizione, individuando in modo dettagliato la fattispecie criminosa, cui è subordinata una pena edittale che peraltro è fissata dalla legge nel minimo e nel massimo.

E' fuor di dubbio che il generico riferimento ad "atti che rilevano mancanza del senso dell'onore e del senso morale" ex articolo 7 della d.P.R. 737/1981, viola il principio di tassatività e determinatezza, ma il vero problema è se in materia disciplinare tale principio viga come in materia penale. Il principio di tassatività è comunemente considerato come una conseguenza logico giuridica del principio di legalità senza il quale, riservando ampia discrezionalità al giudice di merito nella sussunzione del fatto alla norma incriminatrice si violerebbe sostanzialmente il primo. Tali argomentazioni non possono non trovare anche applicazione nel procedimento disciplinare: se infatti, la P.A. nella cura dell'interesse pubblico trova un limite nella legge e nei regolamenti volte a vincolare le scelte discrezionali a tutela dell'interesse pubblico superiore e del cittadino, e sempre a tutela della rapidità, snellezza e adattabilità della attività dell'Amministrazione all'interesse concreto, non si vede perché non si possa individuare più dettagliatamente le ipotesi cui sono subordinate le sanzioni disciplinari più gravi evitando in questo modo un abuso del potere sanzionatorio da un lato, e motivi di dispendiosi e defaticanti ricorsi giurisdizionali dall'altro, proprio lì dove l'interesse del singolo ha bisogno di maggiori garanzie ed una più intensa tutela.

 Roberto Gurini