-LXVI-



Feci i primi concerti di dicembre, con fatica. Le mie condizioni peggioravano velocemente, nonostante le medicine che mi avevano prescritto, o forse proprio grazie a quelle.
Rientrai a Torino il 24 dicembre, per il gran pranzo di Natale in casa di Silvano e Rossana. La città era in festa per l'ultimo Natale del secondo Millennio; c'era la possibilità di spendere una vera fortuna per passare il Capodanno del duemila nel posto giusto.
Alle undici del mattino del 25 ero in casa loro, festeggiato dai loro genitori e dalla sorella minore di Rossana. Mi sforzavo di mostrarmi allegro e gioviale, ma i forti dolori mi rendevano poco convincente. Silvano, dopo pranzo, mi offrì la sua stanza da letto per dormire un po', dato che nelle altre si erano già addormentati i "vecchi". Accettai, ma finimmo per rimanere lì, io e lui soli, a chiacchierare.
«C'è una cosa che voglio assolutamente riuscire a capire, Silvano: certamente il tuo programma di elaborazione del suono è eccezionale, ma come in tutte le cose di quell'elettrodomestico evoluto che è il computer, se non sai cosa farci, lui fa cose senz'anima. Tu, invece, hai fatto molto di più che un intervento tecnicamente avanzato e intelligente: non so come, ma tu hai ricreato il mio suono più autentico, la mia voce ideale... Ora, tu non hai mai sentito un mio concerto, né soprattutto questo particolare violoncello che uso nei miei dischi. Quando mi ascoltavi far musica in quelle nostre serate fra amici, io usavo un buon vecchio violoncello francese, ma niente di speciale. Quando ho cominciato a suonare sul mio Guadagnini, già abitavo fuori casa dei miei, e i miei concerti erano in giro per tutta l'Europa, e non a Torino...»
«Tu dimentichi il concerto per la morte di tuo padre! Che violoncello suonavi, in quell'occasione?»
«...Davvero tu eri là?...»
«Certo che ero là! Perché avrei dovuto mancare? Sono o non sono tuo amico?»
«Sì, però quello era il funerale di mio padre... comunque hai ragione: suonavo proprio il Guadagnini.»
«E io ero là ad ascoltare... e in fondo, se ci penso, io sono ancora là ad ascoltare...»
«Dio! ...Avevo completamente dimenticato che c'eri anche tu...»
«C'erano tutti i tuoi amici; ed eravamo parecchi... solo che tu eri... eri un tipo superbo, quasi non ti si poteva avvicinare. Ma tutti avevano una sconfinata ammirazione per te.»
«Ero io? Io non avevo amici! Giusto te, che mi prestavi quella tua specie di carretto a motore...»
«Ma allora ti sei dimenticato di Marco, Giovanni e Luca?»
«...Già, hai ragione... gli "evangelisti"...»
«Appunto loro; e per di più erano tre ebrei, per quel che ricordo...»
«Sì, è vero: con Luca andavo sempre al Tempio. Marco e Giovanni, invece, non ne volevano sapere... Sai che era stato proprio Giovanni a farmi conoscere Sophia?»
«...Sophia?»
«...Forse lui sa dov'è... o forse saprebbe rintracciarla!»
«...Temo di no, purtroppo... Giovanni è morto due anni fa in un incidente d'auto, poveretto, andando a Milano d'inverno, con la solita nebbia...»
«...E gli altri sono ancora vivi?»
«Per ora sì... se vuoi te li faccio fuori con l'aiuto di qualche mio collega!»
«Lascia perdere, lo farai dopo. Ora dimmi: che cosa hai provato lavorando sul suono dei miei dischi?»
«Ho avuto l'impressione di... correggere la morte.»
«E cioè?»
«Anni fa avevo un libro sull'invenzione del grammofono, e c'erano alcune cose che trovavo straordinariamente appassionanti; in particolare alcuni aneddoti sulle prime apparizioni di quegli strumenti. Sai, pare che ancora intorno al 1910, soprattutto nelle fiere americane, girassero dei polistrumentisti con la tromba, il violino, il clarinetto, il tamburo, la fisarmonica, il flauto... di regola la gente pagava per vederli suonare pezzi di bravura con tutti quegli strumenti, ma l'interesse per quel tipo di spettacolo andava diminuendo di mese in mese, così se ne inventarono uno nuovo, decisamente più moderno: la gara dell'uomo con la macchina. Il virtuoso suonava il tamburo di fronte al gigantesco cono del fonografo, e subito dopo quella macchina formidabile, quel prodigio dell'intelligenza moderna, ripeteva perfettamente tutti i complicati ritmi che lui aveva suonato! Il virtuoso provava a vincere quella nuova invenzione con la tromba, e poi col clarinetto, ma il geniale fonografo non aveva paura neppure di quelli: ripeteva tutto perfettamente. L'uomo allora si asciugava il sudore dalla fronte, poi l'affrontava col violino, e perfino con la fisarmonica; ma il fonografo, senza sudare, sempre rilassato, sicuro, sorridente, sapeva ripetere tutto, proprio tutto quello per cui veniva sfidato, e per di più con una sua certa voce magica, incantevole, che sembrava venire da un altro mondo, anzi: da un mondo superiore, sicché tutti rimanevano affascinati... Ormai quel povero musicista aveva finito il suo repertorio di prodezze, era vinto... allora il fonografo, con modi di autentica nobiltà, non mostrava neppure uno sguardo di disprezzo per lo sconfitto, o di superbia per la sua evidente superiorità... semplicemente stava lì, a dire la sua musica da un punto preciso del suo corpo, con una sicura, riconoscibilissima direzione, che era precisamente quella delle orecchie del pubblico. Il virtuoso, a quel punto, si ricomponeva, si rassettava i capelli arruffati dallo sforzo di eseguire tutti quei passaggi di bravura; lanciava l'ultimo sguardo di sfida alla macchina, e poi riafferrava il tamburo cominciando con un furioso, formidabile rullo in crescendo, per continuare con dei ritmi così complicati, così difficili che nessuno sarebbe mai riuscito a ripeterli senza studiarli attentamente e a lungo... Ecco allora che il fonografo, rinunciando all'atteggiamento pacato e un po' sornione tenuto fino a quel momento, senza più alcuna umiltà, o pietà per quell'uomo, sollevava una delle sue trombe verso il pubblico e un'altra verso il musicista, cominciando così a ripetergli tutti i suoi ritmi più coinvolgenti, le sue variazioni più fantasiose, le sue inimitabili acrobazie, e le moltiplicava, infilandoci in mezzo prima il flauto e poi il clarinetto, e poi il violino, la fisarmonica e pure il trombone e il basso tuba, tutti insieme trionfalmente, mentre il povero musicista definitivamente sconfitto si lasciava andare prima a un gesto di sconforto, e infine, scendendo anche lui fra il pubblico, esplodeva in un lungo, entusiastico, sportivo applauso alla vittoria della tecnica moderna e della moderna intelligenza scientifica...»
«È straordinario... è la versione novecentesca del mito di Apollo e Marsia! Il polistrumentista, poi, veniva scorticato?»
«Probabilmente dall'agente delle tasse sì... dal fonografo non in maniera così visibilmente dolorosa ma... se ci pensi bene, se la pelle è quella cosa che trattiene insieme e compatto un individuo, fuori e anche dentro, che convoglia in diverse direzioni e modi ciò che da quel corpo deve uscire ed entrare, dividendo il prodotto sublime dallo scarto... in un certo senso ciò che quella macchina aveva compiuto sull'uomo, -di fronte agli occhi dell'ignoranza di cui s'approfittava per profitto-, era il far sì che quell'uomo aprisse tutti i suoi orifizi, con l'uso dei suoi vari, vecchi strumenti, e facendo scaturir fuori tutto ciò che aveva, in un certo senso si umiliasse da solo, cavando fuori dal suo corpo tutti i suoi "umori"...»
«È straordinario... mi è sembrato per un istante di veder vivere questa scena nell'Inferno musicale di Bosch, con il fonografo in forma di ghironda... in fondo anche lì gira una ruota, o un rullo... è la stessa cosa...»
«A sì?... E perché no? Comunque questo aneddoto mi serviva solo per ricordare e rimeditare quanto poco la gente comune capiva -ancora intorno al 1910!- di una macchina così semplice come il fonografo. Ciò che riguarda più direttamente il mio lavoro sul tuo disco, è quel che si racconta della prima volta che il famosissimo cantante russo Feodor Scialiapin venne invitato a vedere e scoprire la nuova invenzione di Edison; pare che Scialiapin fosse un vero gigante: era alto e possente, con un volto da impavido guerriero, da eroe invincibile, dagli occhi penetranti che incutevano rispetto e persino paura nel pubblico, quando lui era in scena, per esempio, nella parte di Boris Godunov, o del Principe Igor. Edison gli spiegò che la sua invenzione serviva a raccogliere, conservare e ripetere i suoni, e Feodor fu invitato a cantare qualcosa per quella dimostrazione. Al riascolto della sua voce registrata, si racconta che il gigante crollasse svenuto per l'emozione...»
«Affascinante... e a che cosa attribuisci un'emozione così potente?»
«Oh, certo a molte cose possibili, nella realtà; ma a me interessa considerare che la prima idea che mi venne in mente leggendo quella storia, fu che Scialiapin venne preso dal panico e dallo sgomento nell'assistere al manifestarsi del miracolo della sua voce musicale in un "tempo" spostato, fuori dall'ordine naturale delle cose... quel fonografo per lui, in un certo senso, era una "macchina del tempo" che lo portava virtualmente altrove, senza più la sua coscienza; la sua voce avrebbe cantato anche dopo la sua morte, e quindi già cantava "oltre" la sua morte...»
«Santo cielo... anch'io provavo esattamente questa sensazione, mentre incidevo... anche se non credo di essere arrivato al punto di svenire...»
«Probabilmente registrando i propri suoni è impossibile sottrarsi a questa sensazione, anche se potrà essere più o meno palese, più o meno nascosta alla coscienza. Di fatto, se già la fotografia, al suo inizio, "rubava" l'anima terrena delle cose imprimendone l'immagine su un supporto metallico, quasi alchemico... pensa un po' all'effetto che si poteva ottenere con il suono, visto che non aveva a disposizione alcun tipo di similitudine preliminare...»
«Vuoi dire come la pittura prima della fotografia?»
«Sì, certo: se pensi agli automi che suonavano qualche pezzo di musica, o i Carillon, o perfino quelle grosse macchine che facevano suonare tutti insieme i diversi strumenti dell'orchestra, devi accorgerti che tutte quelle invenzioni continuavano a produrre suoni nell'ordine del tempo, cioè prodotti nell'istante immediatamente prima della loro percezione auditiva, inteso come il presente. Se a quel punto in cui il fonografo appare sulla scena del mondo l'arte del cantante -l'istante "magico" del generarsi della sua arte, attraverso il suono e la "grana" della sua voce- poteva ripetersi senza il cantante stesso, senza la sua ritualità, allora la cerimonia che doveva esaltare la sua sacralità - o superiorità, o divinità, prima ancora di giungere a ridurre tutta l'arte a un mero fatto di tecnica, era ancora -cosa forse ben più terribile- qualcosa di simile al "furto" della sua anima...»
«Sicuro! L'anima è invisibile, come il suono! Niente poteva rappresentarla meglio! Chissà quanto quest'Apocalisse ha potuto cambiare l'arte della musica... Mi fai tornare in mente un amico che osservava come l'invenzione del treno avesse trasformato il modo di pensare e ascoltare la musica, mostrandomi come nell'Opera del Settecento la narrazione dell'intrigo si sviluppava attraverso l'alternanza di Recitativi secchi e Arie, in un continuo fermarsi e riprendere il cammino, proprio come nei lenti viaggi in carrozza a cavalli, mentre nel Melodramma dell'Ottocento, dove la successione dei fatti rappresentati scorreva fluida sull'inseguirsi e trasformarsi delle melodie, tutte espresse in uno stesso tempo lineare, quella fluidità era simile allo spostarsi in treno, attraverso un'Europa diventata un unico paese perfettamente percorribile in ogni direzione... guerre permettendo...»
«Interessante... nell'Opera barocca io avevo sempre considerato, piuttosto, lo straordinario, particolarissimo incanto dell'interrompersi del tempo lineare della narrazione attraverso i Recitativi, all'arrivo di ogni Aria, chiusa, sospesa, elevata nella circolarità della sua forma col "Da capo", come un'assenza di tempo, un "buco" che permetteva di gettare uno sguardo sull'eternità...»
«...Santo cielo... sì, era esattamente questo ciò che consideravo anch'io... e pensavo anche che il saxofono nel Jazz è un perfetto esempio di musica che si conduce a essere puro gesto del corpo che si espande o si ritrae... e che solo la narrazione, l'arte della narrazione, nobilita la musica, la eleva... me n'ero completamente dimenticato... ma che mi succede?»
«Ancora con queste paure per la tua memoria! Calmati, rilassati! Sarai solo troppo stressato dall'uso eccessivo che ne fai! Ti impari pagine e pagine di note, ore e ore di musica... che cosa pretendi dal tuo cervello?»
«Il cervello non è come l'hard disc di un computer! Non ha uno spazio limitato!»
«E tu che ne sai? Vuoi per forza confondere la mente e il cervello con l'anima e Dio? Cerca di pensare come Einstein: per restituire la libertà a un uccello, continuando a tenerlo chiuso in gabbia, è sufficiente dilatare la sua gabbia all'infinito...»
«...Vorresti convincermi ad accettare la mia prigionia nel senso e nel tempo del mondo, ma per questo è necessario un ordine fondato sulla verità... e io mi sento vittima dei troppi inganni di questo mio cervello... anche adesso, vedi, ho la precisa sensazione che tutto quello che mi hai detto e che io dico, fosse già successo, già stato detto... ho l'angosciosa, continua percezione del dejà vu... è mortifera, spaventosa, terrificante!!...»
«Calmati! Dormi un po', riposa! Ho fatto malissimo a star qui con te a parlare! Stenditi qui nel letto... ti porto un calmante. Hai dolori?»
«No! Niente! Non voglio niente! Basta con le pillole e le iniezioni! Voglio solo la verità!»
«Quella non ce l'ho... calmati... chiudi i tuoi occhi... scendi dentro di te... calmati... rilascia le palpebre... calmati... lasciati andare... calmati... dormi... ascolta il silenzio... calmati... dormi... calmati... dormi...»
Mi risvegliai a tarda sera.
Tutti gli invitati erano già partiti, Silvano e Rossana avevano già cenato, e per me era pronto un brodo delicato di pollo e verdura.
Loro restavano lì a guardarmi mangiare, con sguardo dolce e compassionevole. Io mi sentivo vecchio, terribilmente stanco, già morto.