-LXIX-


 
  Mi svegliai in preda a tremori incontrollabili, brividi violenti. Era buio, faceva un freddo intensissimo, e nella stanza c'erano solo i pochi riflessi dei neon della strada. Faticavo a capire dov'ero, in che posizione ero messo. Sentivo rimbombarmi nella testa il segnale di "occupato" del telefono; in effetti, c'era la cornetta caduta per terra, eppure anche dopo averla messa a posto continuavo a sentirne il suono nell'aria: continuo, ossessivo, penetrante... sentivo la nausea, il terrore della pazzia... sconvolto da un'angosciosa agitazione elettrica tutt'intorno a me, gettai le mani a cercare l'interruttore della mia lampada da letto ma, appena accesa, la lampadina si fulminò scagliando ovunque un turbinare furibondo di fantasmi fischianti, stridenti, spettri fatti di schegge velocissime di pensiero... poi riuscii a calmarmi.
Chiamai il numero dell'orologio telefonico. Capii d'un colpo che di lì a due ore avrei dovuto prendere il treno per Parigi. Corsi alla valigia; il violoncello era già pronto in custodia. Non so come, ma arrivai in tempo alla stazione. Il mattino dopo ero alla Gare de Lyon, dopo una notte di sonno profondo e ristoratore.
Ma angosciato da dubbi e domande... andai all'appartamento che mi avevano riservato: quarto piano del numero 10, in Avenue Ledru Rollin, a due passi dalla "Gare"; lo raggiunsi camminando in un freddo incredibile; era impossibile trovare un posto libero in albergo a qualsiasi condizione e in qualsiasi parte di Parigi, e questo mini appartamento molto grazioso, pieno di ninnoli e libri di ogni tipo, era di proprietà di uno degli organizzatori del mio concerto: l'ultimo concerto del millennio; avrei abitato il suo pied à terre parigino, per le sue serate mondane o le sue "festicciole", disponibile solo perché lui avrebbe dormito da una sua nuova amica.
Disfai la valigia; il frac era in uno stato indecente, e mi sentivo vergognoso del mio disordine: probabilmente non sarei riuscito a trovare nessuno per farmelo lavare e stirare in tempo per la mia serata. ...E le mie musiche non c'erano! Le avevo dimenticate!!
Dio! gli orecchi mi esplodevano! Com'era possibile? Dovevo suonare le prime tre Sonate di Alfredo Piatti!... le eseguivo a memoria, è vero, ma dovevo rileggerle prima, sapere che lo spartito era là a mia disposizione, e la memoria è una cosa che bisogna poter ingannare con delle sicurezze artificiose, altrimenti non funziona, non risponde agli appelli, si nasconde, scompare, ti abbandona!
Aprii subito la busta che avevo ritirato in portineria con le chiavi: il biglietto mi informava che la prima prova era fissata per quel giorno, alle ore quindici, in una casa privata. Chiamai immediatamente quel numero di telefono, e rispose il mio pianista.
«Sì, è una cosa antipatica, ma càpita... non ti basta il fatto che io possa fotocopiarti la partitura del pianoforte?»
«Fallo subito, trovami della carta da musica, molta, prendimi dieci, quindici quinterni di fogli a quattordici pentagrammi, e io vengo adesso, immediatamente: prendo un taxi!»
Arrivai dopo mezz'ora, e tutto era lì, pronto; cominciai a copiare una parte separata del violoncello, per potermela mettere sul leggio; alle tre del pomeriggio ancora non avevo mangiato, ed ero verso la conclusione della Prima Sonata. Misi nello stomaco una mela e cominciammo le prove.
Sforzavo la mia mente alla tranquillità, per usare al meglio la mia memoria, e le note uscivano dalle mie mani con serenità, danzando tutta la loro bellezza... mi sembrava guarissero, togliessero ogni malattia dal mio corpo, dalla mia anima, cancellassero ogni ricordo sgradito, mi raggiungessero col perdono, con la pace, con la vittoria definitiva sul male.
Dopo un'ora, il pianista mi chiese se "veramente" volevo provare ancora.
«Claudio, è tutto perfetto. Perché dovremmo andare avanti a provare? Vuoi cambiare qualche cosa? Rischiamo solo che ci venga a noia questa musica, a furia di ripeterla e ripeterla... per adesso ha ancora una sua freschezza, un non so che di inaspettato nelle sue frasi, che la rende bellissima; ma se continuiamo a farla e rifarla... diventerà un'ossessione insopportabile!»
«È un rischio da corrersi sempre, in musica come in qualsiasi altro rituale... Mezz'ora di pausa e poi ricominciamo, grazie.»
E tornai a copiare: per tre giorni copiai e ricopiai e provai col quel povero pianista, che voleva solo andare a spasso per la Parigi di fine millennio... quando non copiavo o provavo, studiavo da solo al violoncello, e quando non studiavo, dormivo, o mangiavo silenziosamente in un ristorante lì sotto, oppure davanti alla Gare de Lyon; sempre le stesse cose: sogliola al burro e insalata verde, bevendo una bottiglia di acqua minerale e il caffé amaro alla fine.
La sera del trenta dicembre eseguii le tre Sonate a memoria, con un discreto successo, di fronte a un pubblico che pensava solo al divertimento sommo di quelle ultime giornate del millenovecento. Finalmente, dopo le stupidaggini del dopo-concerto, i saluti, i complimenti, la busta con i soldi, gli abbracci commossi, i vari «ma cosa fai a Capodanno?», tornai all'appartamento, e mi preparai all'incontro con Ahasvero.


 
 

-LXX-



 
 
 
 

 
   Avevo dimenticato gli spartiti di Piatti, ma non "Il Rabbi di Bacherach" di Heine, che avevo infilato in valigia come prima cosa. Il fatto di averne sognato delle parti, e quella sua poesia, da "Briefe", che era entrata nel mio delirio, m'indicava delle rivelazioni in quel libro che proprio Ahasvero mi aveva suggerito, parlandomi di Liszt, Popper e dei loro rapporti col poeta "ebreo e tedesco".
Restai tutto il giorno in casa, a meditare, a cercare nella mia memoria dettagli e significati, a prepararli, ordinarli, disporli al confronto. Alle nove in punto suonavo il campanello di Jean Sværhaus, in Rue de la Clé, 46; avevo attraversato il ponte di Austerlitz, sulla Senna, ammirando la schiena di Notre Dame alla mia destra, poi avevo risalito tutto il Jardin des Plantes fino alla Moschea e alla graziosa piazzetta lì davanti, dove mi ero riposato di fronte alla fontanella in stile islamico, che mi ricordava un'incantata, magica Siviglia, piombata nel gelo glaciale del nord.
Avevo con me il violoncello: mi pesava sulla spalla nella sua robusta custodia, ma dovevo far sentire ad Ahasvero quella sua voce: era necessario che l'ascoltasse per la prima volta! Volevo che la sentisse fino in fondo, in tutta la sua tragedia: i gemiti di Auschwitz, le grida di disperazione, di infinito dolore, di vera, profondissima, universale sofferenza!
Pensavo di poterlo uccidere con quel suono: penetrare le sue carni, distruggerlo, dissolverlo, vederlo scomparire prima del nuovo mattino! Demone orrendo!! Doveva chiudere la sua maledetta esistenza qui, in questo squallido millennio di paura! Doveva essere fermato! bloccato alla porta chiusa dei miei nuovi suoni di sapienza, speranza e civiltà! Doveva morire ucciso, bruciato, incenerito dalle schiere degli angeli comandati dall'ordine dell'Armonia sublime!
Forse non era in casa? Impossibile! Impensabile!
Ma avevo paura... paura di essere vinto... ingannato ancora...
No, l'avrei trovato, l'avrei ucciso!
Certo, io non gli avevo più scritto nulla, io non avevo preso alcun appuntamento con lui! Ma solo sull'agenda delle ovvietà... nel suo segreto, lui non poteva ignorare proprio quel nostro incontro: sapeva certamente benissimo che quella sarebbe stata una notte alchemica... Egli era là ad attendermi: ne ero certissimo...
Mi aprì il portone un uomo arabo, o mediorientale; tornava a casa per i fatti suoi, e digitava il codice elettronico di sicurezza, che da agosto era stato cambiato... erano le nove precise... gli angeli di Ismael erano con me.
All'ultimo piano, su quel pianerottolo stile anni Quaranta, lui mi apparve e mi aprì la porta: era piccolo di statura, grassottello, col viso rotondo e un sorriso appena accennato, che gli faceva una simpatica fossetta sulla guancia destra.