-LXXIII-

  Ma non andò così.
Né negli altri mille modi che immaginai, aspettando il momento di trovarmi di fronte a lui, definendo tutti i minimi dettagli del nostro incontro, sognandolo e risognandolo, in tutte le possibili variazioni, ossessivamente, maniacalmente... in treno, in casa, nel Metrò, persino durante il mio concerto...
Suonai alla sua porta, e lui mi aprì: piccolo e grassottello, col viso aperto e luminoso, un paio di occhiali rotondi e un sorriso teso che gli faceva una simpatica fossetta sulla guancia destra... con un sorriso e due libri, che mise fra le mie mani prima ancora che potessi aprir bocca.
«Ti ho visto arrivare: stavo davanti alla finestra a guardare il mondo che si prepara al gran salto del Millennio! Prendi, questi sono per te; ho faticato non poco a trovarli, ma alla fine ce l'ho fatta. Volevo che tu ne possedessi copia, per poterli leggere con comodo, e con molta attenzione... ma vieni, entra... ora ti preparo qualcosa... un caffé?»
Erano due saggi di György Lukács, il filosofo ungherese: "Filosofia dell'arte, primi scritti sull'Estetica" e "L'anima e le forme", nell'edizione italiana della Casa Sugar dei primi anni '70, piuttosto ingialliti, senza dubbio di seconda mano.
«...Perché?» chiesi.
«Lukács era un grande amico e ammiratore di Leo Popper, il figlio di David, morto prematuramente nel novembre del 1911... "L'anima e le forme" è dedicato a Leo, gli scritti sull'Estetica sono inediti, pubblicati nel '71, dopo la morte dell'autore, ma formulati fra il dodici e il diciotto; carichi, impregnati della riflessione estetica di Leo...»
«Ma Leo Popper non era un pittore?»
«Sì, anche. Ma soprattutto un geniale critico d'arte. Scrivevano ambedue in tedesco, lui e Lukács, ma tu il tedesco lo puoi leggere?»
«Non più in là delle indicazioni dei treni...»
«Appunto. E io non ho trovato scritti di Leo tradotti in lingue che tu possa leggere. Il violoncello è lì dentro?», continuò indicando la custodia.
«Sì... è lì per te...»
«È gentile da parte tua... caffé o tè?»
«Di cosa è morto Leo?»
«Debolezza costituzionale, seguita poi dalla tisi... credo. Era una morte prematura, ma annunciata: per anni è stato costretto a una vita imprigionata fra sanatori e sofferenza. Il padre gli era immensamente affezionato... e fiero di lui...»
«E tu perché vuoi che io mi legga questi libri?»
«Tu hai letto Adorno e Benjamin; bene: loro hanno conosciuto e letto il Lukács di questi scritti. Tè o caffé?»
«Caffé...»
«Apri "La filosofia dell'arte" a pagina 45...»
«...Millesettecento quarantacinque?»
«No, no, bastano solo le ultime due cifre... leggi qui...»
A un terzo della pagina appariva il nome di Leo: « "Va attribuito a Leo Popper il grande merito di avere riconosciuto questa modalità fondamentale dell'arte, benché la sua breve vita tormentata dalla malattia non gli abbia concesso di portare avanti questo pensiero nel suo stile tipico, altamente artistico e insieme squisitamente saggistico;"... quale "modalità fondamentale"?», chiesi.
«Lo vedrai poi; leggi, leggi!»
Ricominciai con voce monotona: «..."a questo proposito però va detto che non si addiceva alla sua natura, portata più alla creazione artistica che non alla speculazione sistematico-filosofica, prender le mosse da un tale riconoscimento per costruire un'estetica. Comunque il suo sguardo acutissimo ha riconosciuto chiaramente la vita autonoma dell'opera e con identica chiarezza ha visto il legame necessario tra i due comportamenti opposti, di chi crea e di chi recepisce, nei confronti dell'opera. In questa visione vengono superati tutti gli atteggiamenti unilaterali. Per Leo Popper la teoria della tecnica e del materiale hanno rappresentato il primo vero gradino per una metafisica dell'arte. Infatti, volontà tecnica e legge del materiale erano per lui i tramiti metasoggettivi della volontà che è sottesa all'opera ma che è costretta a realizzarsi indipendentemente dalla volontà e disponibilità dei soggetti e si distanzia nell'opera allo scopo di edificare quel paradiso terreno che gli uomini desiderano e creano ma che non possono mai conquistare alla loro volontà ed esperienza."...»; interruppi la lettura guardandolo fisso negli occhi.
«Va' avanti, finisci il capitolo!», mi esortò con l'aria di non capire.
Ripresi con tono sempre più svogliato: « "...Riconoscendo questa singolare e insieme paradossale peculiarità dell'opera, si raggiunge il concetto, divenuto in sé chiaro, della sua datità. È stato indispensabile che arrivassimo ad esso, perché solo partendo dalla sua datità possiamo vedere e capire, veramente e senza sovrapposizioni, la vera essenza dell'opera."... non ci capisco nulla...», interruppi, «forse neanch'io ho una mente sistematico-filosofica, e la parola "datità" mi sembra orrenda...»
«Intende la possibilità di dare opera d'arte, e l'intuizione di Leo...»
«...Non mi interessa!», lo interruppi brutalmente, infilando il libro nella tasca del cappotto che ancora indossavo.
«Oh, che sbadato! Dammi il cappotto, e mettiti comodo...»
«...E non ho letto Adorno e Benjamin,» continuai, «li ho solo sfogliati, mangiucchiati, messi a raccogliere polvere nella mia libreria...»
«Anch'io...», rispose inaspettatamente.
«...E allora?»
«Leo era diverso. E Lukács ne aveva colto l'intuizione fondamentale. Leggi ancora come conclude la sua prefazione il curatore dell'edizione italiana, quel Tito...»
«...Tito Perlini. Dove leggo?»
«Pagina quarantunesima; non ho resistito alla tentazione di sottolineare a matita...»
«...Cosa facevi, tu, nel '41?»
«...Stavo attento a non far ribollire il caffé. Leggi!»
«Ti leggo quello che tu hai sottolineato: "In un momento degradato come questo in cui stiamo vivendo..." »
«Era il '72...»
«Milleottocento o millesettecento?...»
«No, sciocco: millenovecento! Leggi!»
« "...immersi come siamo nella barbarie tardo-capitalistica e nella falsa razionalità che con essa fa tutt'uno, è bene risulti chiaro da quale appassionato slancio utopico, stimolato dall'amore per il «bello», abbia tratto forza in seguito l'impegno rivoluzionario di Lukács."... Questo signore era un marxista di quelli duri e puri, vero?»
«Sì. Continua!»
« "...In tale slancio vibra la speranza in una trasformazione radicale, in una svolta decisiva del corso storico, nell'avvento dell'integrität des Menschen attraverso la vittoria su ogni forma possibile di alienazione. Si svela in ciò la più esigente, la maggiore delle speranze. Di fronte alla prospettiva della rovina della civiltà umana che si profila all'orizzonte nello sciagurato momento storico in cui ci troviamo l'intransigenza utopica del giovane Lukács torna preziosa. Solo alla massima fra le speranze, forse, sarà concesso nel prossimo futuro di non soccombere al cospetto di quell'orrore, ancora difficilmente immaginabile, la cui sgomentante prospettiva si sta aprendo davanti a noi. TITO PERLINI"... ma perché mi fai leggere questa roba?»
«"Roba"? Non lasciarti spaventare dal linguaggio da comizio rosso anni sessanta: quelle sono parole vere, d'un esasperato pessimismo, ma profondamente sentito e meditato!»
«Ti ricordo a protestare un mio leggero abuso di "ineffabile", quasi ignorando tutto quel che ci avevo scritto intorno...»
«Era solo questione di date: tu non avevi scritto quelle cose negli anni Settanta. Eccoti il caffé; io preferisco un bicchier di vino rosso... Mi suonerai qualcosa per questa magica mezzanotte?»
«...Sono qui per questo...»
«Magnifico! Siediti, vuoi lo zucchero?»
«No. La mia vita è abbastanza amara da riuscire a render dolce anche questo caffé.»
«Capisco... Leo Popper non fece in tempo a...»
«Lascialo perdere!»
«...Perché?»
«Non è abbastanza tutto quel che so di suo padre? Che altro vuoi infilare nel mio cervello?»
«Voglio solo aiutarti a capire cosa si stava sviluppando intorno a quel violoncello... qualcosa che è rimasto incompiuto, una rivoluzione non avvenuta, eppure ancora possibile...»
«Già... non "soccombere a quell'orrore ancora difficilmente immaginabile"... chissà che età aveva a quell'epoca quel... quel "PETO TIRLINI"? Chissà che età aveva negli anni di A... Aush... Au...» Tutt'a un tratto balbettavo... «Ausch... Au...», la mia voce era fuori dal mio controllo, mi sfuggiva, si ribellava a me. Non potevo pronunciare quel nome!
Improvvisamente la mia gola si stringeva fino a farmi mancare il fiato, un dolore terribile si faceva strada intorno alle mie orecchie... «...Au... Auschw...»
«Che ti succede?» mi chiese agitandosi. Ma io non riuscivo a rispondere: mi difendevo disperatamente dalla gola che continuava a stringersi, mentre io soffocavo, privo d'aria, come annegando.
«Sei paonazzo! ...Dio, che posso fare? Vuoi dell'acqua?»
Lo caccio via con la mano, lo calmo subito dopo con cenni rassicuranti, lui si scusa, poi si ritrae, poi torna a fissarmi con apprensione, e il tempo si ferma...

Passarono diversi minuti in un silenzio greve: Ahasvero mi fissava senza battere ciglio. Infine mi sembrò di aver ritrovato la voce, la provai con qualche suono, strano, inaspettatamente nuovo, sconosciuto. Non potevo trattenermi oltre: dovevo fare ciò per cui credevo di essere venuto. Gli dissi: «sono venuto fin qui per suonarti qualcosa...»
«È una cosa gentile, grazie,» mi rispose, calmo; poi mi fissò con aria paterna: «ma ti senti veramente meglio? Posso fare qualcosa?»
«Nulla; solo ascoltare...»
Aprii la custodia del violoncello sul tavolo della sala; mi apparve nella luce forte del lampadario, proiettata nelle trasparenze ambrate e straordinarie della vernice: ogni vena di quel legno un mondo di bellezza, d'infinite sfumature dal rosso sangue all'oro... quello strumento perfetto mi rapì ancora: più della prima volta, mi entrò nell'anima fino a lacerarla, come fosse un sacco rigonfio, l'aria in una cornamusa, qualcosa che si voleva espandere... oppure esplodere!
Sollevai il violoncello ancora una volta verso la luce, mentre gli occhi mi lagrimavano, tremando fra singhiozzi incontrollabili... non capivo cosa mi stava succedendo: tutto sembrava mutare intorno a me, e poi ruotare, in vortici, intorno a quell'oggetto sublime che reggevo alto sopra la mia testa, e un fischio acutissimo mi trapassava, mi terrorizzava...
Scagliai con tutta la mia forza quella massa cristallina e fragile: volò nello spazio breve di quella stanza... esplose sul marmo quasi sferico di quella pesante scultura che odiavo fin dalla prima volta che l'avevo guardata: essa scomparve un'istante, e poi riapparve... intatta... mentre tutto intorno non cessava il rimbombo terribile...
«...No!! ...Pazzo!!!...»
Era chino sul pavimento, le mani allungate verso le schegge, i frammenti, il caos di legni rossastri e opachi, che si rivelavano fra il luccicare della vernice...
«Pazzo!!! ...Che hai fatto?... vattene!! Guarda che hai fatto!! Vattene via!!!»
Salì per tutto il mio corpo una scossa violenta, un serpente che mi attraversava, velocissimo, la spina dorsale. Camminai verso l'uscita, restai un istante immobile, nell'orrore, poi mi gettai fuori, di corsa, giù per le scale, fino in strada.
Dietro di me la porta sbatté così forte... il gelo era così orribile, là fuori...