Il castello.
 

-LII-

 

      Entrare in quell'esperienza fu, in effetti, immediatamente totalizzante: quella sera ebbi un incontro lunghissimo e intenso con la pittrice, in presenza della violoncellista che sarebbe stata la mia accompagnatrice. Così furono pure i giorni successivi, nei quali, quasi senza più dormire, continuavo a suonare, a scrivere, comporre, provare, cercare il massimo del controllo nell'esecuzione con il duo di violoncelli, per giungere alle condizioni di poter improvvisare una maniera o un'espressione diversa ad ogni possibile reazione di quell'imprevedibile pubblico.
Dovetti interrompere la preparazione il 14 agosto, per il mio concerto del 16 al castello di Pouy sur Vannes, organizzato da Paul. Il giorno prima, di pomeriggio, nella chiesa medioevale in cui era programmata la mia presenza avrei ascoltato l'altro concerto che veniva proposto al pubblico di quel piccolo Festival: «Arie d'Opera e Arie Sacre per Castrati»; cantava un sopranista di origine araba, accompagnato all'Organo e alla Glassharmonica da un musicista tedesco, virtuoso di quel rarissimo strumento inventato dalla mente eclettica di Benjamin Franklin. Il primo giorno al castello fui a pranzo con i due solisti, a cui venni introdotto fra parole entusiastiche.
Halil, il cantante, era una sorta di "ermafrodito" di straordinaria bellezza: curatissimo nel vestire, alto e magro, con un che di felino nei movimenti elastici, sensuali; mostrava una pelle bronzea e finissima, lunghi capelli neri e occhi ipnotizzanti, di rapace.
Bruno, l'organista, era invece il tipico professore tedesco, cinquantenne imbolsito, dai colori pressoché omogenei e bianchicci, gli spessi occhiali che nascondevano lo sguardo di un volto inespressivo, l'abbigliamento attentamente conformista, l'aspetto, in qualche modo, di un camaleonte.
Simpatizzammo, comunque, in una lunga serata di piacevoli dissertazioni leggere e libere su musica e musicisti; io avevo bisogno, in effetti, di scherzare un po', e ritrovare una dimensione più accettabile della vita.
Il castello, inoltre, era di una bellezza magicamente incantevole: quattro torri rotonde, intorno a un corpo a due piani di bellissime proporzioni, su pianta quadrata; era il "donjon", la fortezza difensiva di un maniero del dodicesimo secolo, ma ingentilito, o addolcito nei primi del Settecento da un immenso tetto coperto d'ardesia, in forma perfetta di piramide, e da bellissime, ampie finestre. Nel fossato intorno pascolavano delle vecchie carpe, enormi e quasi solenni nei loro movimenti, e sul ponte in muratura due statue di cani da caccia ricordavano l'uso di quell'edificio ai tempi degli ultimi nobili proprietari.
Di fronte a quella facciata sorridente c'era un vasto prato, e al fondo di quello iniziava la foresta della proprietà. Ci andai poco prima del tramonto, da solo, entrando nell'ampio viale centrale, tagliato molti secoli prima in modo perfettamente prospettico al castello, per offrire una passeggiata di alcuni chilometri in linea retta, nell'ombra assoluta dei grandi alberi. L'impressione era quella di esser penetrati in una meravigliosa, immensa Cattedrale gotica, con gli archi a sesto acuto, alti quanto un cielo lontano e superbo, fatto di perfetti, simmetrici intrecci di rami, e coperto di foglie verdissime, luminose, quasi trasparenti come preziosi smeraldi.
Sulla sinistra, a metà del lungo viale, c'era un passaggio nel fitto degli alberi. Mi venne voglia di penetrarlo, di seguirlo, e dopo pochi passi trovai uno spiazzo in cui un tumulo coperto d'erba ed edera mi rivelò la presenza di una tomba. Appena nascosta, un'apertura scurissima aveva dei gradini in pietra per discendere a quelle silenziose sepolture. Rimasi là davanti un tempo lunghissimo, come ad ascoltare il lieve canto di pace che tutte quelle cose erano là a raccontare.
Più tardi, a cena, mi spiegarono che quella era la tomba degli antichi castellani, poiché avevano scelto di non essere sepolti nella Cappella, ma nella loro foresta, nella terra consacrata solo dal loro amore, nella Cattedrale fantastica e cangiante degli alberi vivi e del canto degli uccelli nel segreto della natura.
Dormii in una stanza rotonda, all'interno della torre dell'Est. Dal balconcino vedevo il nero della foresta, e la bellezza immensa ed eterna del cielo di stelle. Dritto, di fronte allo sguardo di quella finestra, era il grandissimo semicerchio del prato, come un ampio anfiteatro rivolto al castello, e alle spalle il bosco dov'era quella tomba protetta dallíamore degli alberi; questi mi parevano più vivi nel buio, come esseri gentili, infinitamente saggi, o angeli, messaggeri di pace.
Sentivo quel luogo come un dono prezioso, qualcosa che mi sembrava di ricevere in premio, per riposarmi dal viaggio, o dalla battaglia, per curare le mie ferite. Restavo sul mio balconcino, immobile nell'aria fresca della notte, a farmi amare dalla brezza, mentre tutto di me sembrava trovare la calma.
Poi, d'un tratto, dalla foresta venne un grido acutissimo, disperato; continuava, gemendo, poi eccitandosi, a singhiozzi strozzati e poi con lugubre piattezza, in fiati lunghissimi: era la morte lunga e crudele di un piccolo animale, forse un roditore, forse nella morsa di un uccello rapace.
Quasi sentivo il suono del becco terribile, impietoso, tuffarsi nelle carni vive, strapparle, e gli artigli penetrare, possedere quell'essere e la sua vita, attraverso l'amplificazione del suo grido. Crudele legge di natura, morte troppo lunga e dolorosa, richiamo disperante, a un'anima forse negata, o forse legata a quei lacci suadenti del ciclo vitale, uguale a se stesso nel non conoscere il tempo, nell'ignorare la morte, eppure temerla, fine di un ciclo, fra la trama e l'ordito di rami e foglie intessute da Dio.
Quella notte, quel luogo, mi rivelavano verità che non volevo conoscere, e le ricacciavo nel buio, le allontanavo con odio dalla mia coscienza. Dentro di me volevo l'oppio denso dell'illusione di quella serenità, i profumi della notte, la carezza del vento sulla mia fronte, la percezione dell'eternità di un istante di piacere perfetto.
Forse la mia anima è ancora là, a quel balconcino; e là io tornerò in eterno, discreto visitatore solitario di quella tomba d'innamorati, a godere col sogno delle loro unioni, a sperare senza fine in un nuovo inizio, in un'altra possibilità...
 
  


 

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