-LVIII-





       L'esperienza fu molto più forte, più travolgente di quel che già Ahasvero mi aveva promesso.
Per giorni, dopo l'ultimo concerto, non feci altro che scrivere, sviluppando l'enorme mole di appunti che avevo riversato qui, dentro al computer, durante lunghe serate o notti in solitudine, negli alberghi a basso costo che dovevamo scegliere a causa del bassissimo budget della tournée.
Sono solo un sogno incompiuto, un libro impossibile, forse solo una lunga follia. Ma devo renderli parte di questo mio racconto, e così li estrarrò dalla memoria dell'hard-disc e li sposterò in questo file.
Là, in quelle pagine, il matrimonio che ho fatto fallire, che ho distrutto prima di farlo avvenire, l'ho immaginato e raccontato in quei due figli che avrei voluto avere, chiamare con quei nomi, far crescere in serenità e saggezza, ma che sono esistiti solamente in quell'unico sogno; là ho immaginato un'allieva che non ho mai avuto, e che mi stava ad ascoltare come un discepolo di tempi lontanissimi e perduti; ho immaginato lunghe lezioni per lei, mai avvenute, e forse comunque impossibili.
Ma tutto ciò che riguarda gli edifici di detenzione, i detenuti, i fatti, i luoghi e tutto quel che non è una famiglia e un'allieva, ogni cosa che ho scritto è rigorosamente vera, reale, storica, come e quanto le frasi citate da libri antichi e moderni, presenti ovunque in queste pagine, ad ammucchiarsi nei miei pensieri, fra le mie idee, nel mio ricordare, nel mio esercitarmi a scrivere, nel cercare un modello o uno stile narrativo, nel mio tentativo di trovare un modo per raccontarmi, e per esistere, almeno, come un fatto letterario, per buono o cattivo potesse dimostrarsi.
Dopo l'ultimo concerto tornai a Torino solo per un giorno, e la mia stanchezza era tale che non aprii neppure la cassetta della posta, che pure mi sembrava straripante. Partii subito per Venezia, dove restai due settimane ospite del mio protettore americano, passando tutto il tempo a battere i tasti di questo computer, per ricordare, meditare, sognare, ogni tanto suonando il violoncello per lui o per i suoi ospiti - cosa che facevo con pena e disgusto.
In quei giorni trovavo un senso e uno scopo in tutto ciò che producevano le mie dita; così, scrivendo, credevo di comporre una memoria, una testimonianza, un trattato di musica, una grande novella di fine millennio, una poesia, una partitura musicale, un "libro sacro"... tutte queste cose sono là, ma solo nella loro reale condizione -questa sì, assolutamente autentica- di idee, pensieri e atti incompiuti, prigionieri di questo vecchio millennio, o forse emblema di questa mia prigionia... o forse, dopotutto, null'altro che la prova visibile del fallimento del mio tempo...
Quel testo è qui, nella mia memoria elettronica; chi non vorrà occuparsene lo ignori. Esso resterà, comunque, là al fondo, a dire ciò che vi ho scritto...
 
 


 
 -LIX-





   Tornai a casa, alla solitudine della mia casa e dei miei ricordi più tristi.
Ero stanco come non avrei mai creduto di poter essere; l'esperienza dei penitenziari mi aveva svuotato profondamente. Temevo che non sarei mai più stato capace di suonare per altro pubblico fuor di quello in carcere, per il loro bisogno "vitale" del mio suono, per quella riconoscenza intensissima che ricevevo ogni volta, prima di uscire.
Ma nella mia cassetta per la posta c'era un'enorme quantità di carte, e, in mezzo a quella, una lettera sconvolgente:
 

«Caro Claudio,
chissà se ti ricordi ancora di me... sono quella ragazza che ti ha amato, per strada, davanti a un cartellone pubblicitario in cui tu avresti potuto leggere tutta la storia del mondo, ma invece avevi saputo leggere la mia.
Ti ho atteso, per giorni, restando davanti al mio telefono muto. Per mesi, passando dove sapevo tu camminavi d'abitudine, senza incontrarti mai, senza che tu mi chiamassi. Ho pianto come una pazza per quel tuo abbandono, senza darmi pace.
Sapevo che non ero degna di te, non credere che fossi così superba. Quando ti ascoltavo raccontare le tue storie pensavo di essere la donna più fortunata del mondo, ma mi sentivo così stupida, così ignorante. Volevo solo riuscire ad essere degna di te, perché ti amo, e ti amo ancora, Claudio. Io non sono mai più riuscita ad amare nessun altro.
Ho atteso cercando di prepararmi a te, di camminare per giungere fino a te, per diventare quel che avrei voluto essere fin dal momento che ho capito di amarti. Ma non ci sono riuscita. Sono solo caduta in trappola, nella solita trappola della mia debolezza. Sono una tossica, Claudio, una drogata, da sei anni. Non avevo avuto il coraggio di dirtelo, anche se forse è proprio questo che tu hai capito di me, per lasciarmi.
Però adesso sto morendo, ho preso l'AIDS, e ormai sto morendo.
Non temere: non è colpa tua. Non siamo nemmeno riusciti a fare sesso, per cui non posso neppure avertelo passato in qualche modo. I baci che ci siamo dati non trasmettono l'AIDS, ma io li ho ancora tutti sulla mia bocca. Solo che non posso più nascondermi a te, attenderti: me ne sto andando via troppo in fretta, e devo farti sapere che ti amo.
Anche se ti amo come una cretina che non ha saputo far niente di buono nella vita. Gli studi li ho sprecati, le occasioni le ho tutte perse... ma non ho che il rammarico di non averti potuto dire quanto ti amo.
Fa male, Claudio. Penso sempre alla musica che mi avevi suonato quel giorno, e penso che se esiste un aldilà l'unico ascolto delle tue note mi libererà dall'incubo di quell'inferno musicale che non ha mai cessato di ossessionarmi: quella ghironda l'ho guardata mille volte con quel che mi restava dei tuoi occhi; ho provato a studiare anch'io, e ho solo scoperto che in questo maledetto ospedale in cui mi hanno messa, tutto è color azzurro, e io ho letto che è il colore che simboleggia il male, il maleficio, come il demonio che in quel trittico divora gli uomini e li caga dentro a un orribile pozzo, o come quel tamburo sotto la ghironda, con quell'orribile mostro insetto, o topo rinsecchito che batte, e quella finestrella quadrata da cui spunta una faccia disperata. Ecco come mi sento io: chiusa dentro a un tamburo maledetto su cui tutti vengono a battere battere battere!
Amo solo te! Non sei entrato dentro il mio corpo, non hai battuto sopra alla mia pelle, non mi hai strappato il seno e i capezzoli mentre mi sbattevi pensando solo a quel che avevi nella tua testa, quello che ti faceva godere! Sei entrato dolcemente fino in fondo a una cosa che non sapevo di avere: la mia anima! E così me l'hai data, e adesso so di averla, posso averla!
Vorrei vederti almeno una volta, prima di morire. Adesso sono brutta, Claudio, stacci attento, sono diventata orribile, sappilo: sono uno scheletro con della brutta pelle macchiata, tirata malamente sopra. Mi faccio schifo da sola, ma pazienza... devo morire. Ma se puoi, fammi morire con la tua musica: fammela portar via con me, è l'unica cosa che ti chiedo!
Se è troppo per te, pensami almeno una volta suonando. Se qualcosa esiste, la porterà fin da me, ovunque io sia...


Sono all'Ospedale che vedi sulla busta.»

Quest'ultima frase era cancellata malamente... poi continuava: «Scusami per tutto questo. Sono sola e disperata. Morire è brutto; con un po' d'amore è più facile, anche se solo col pensiero.
No amore, non venire ti prego!
Non cercarmi nemmeno: sono solo un cadavere maledetto, non voglio amarti così, non voglio che mi vedi, ricordati com'ero, come avrei potuto essere se non fossi stata così stupida!
Promettimi di suonare una cosa per me: SOLO QUESTO.
Io sono certa che ti ascolterò e capirò la tua musica, là dove andrò.
Là non ci saranno figure! Ci saranno solo suoni di musica! Fammi una nicchia di quelli così dolci e cari del tuo violoncello!
Abbi pietà di me. Solo questo. Suona una volta per me il violoncello della tua saggezza.
Tua stupida amante di ebrei erranti, che ti ha sempre amato, che ti ama ancora, che porterà via dalla terra solo il tuo ricordo d'amore!!!
Addio, Claudio, mio amore vero, unica verità.»


Dio! quella lettera era arrivata al mio vecchio indirizzo, tornata forse al mittente, rispedita a quello giusto... e lei dov'era? in quale ospedale? come si chiamava? Maledizione!
Forse era morta da sola... e io avevo mancato proprio quell'appuntamento... Ahasvero! Quella era la mia Sophia! Il tuo primo, tremendo, mostruoso inganno combinato, sviluppato, realizzato proprio dentro alla mia mente! La prima delle invisibili trappole che mi avevi teso!!

 
 

Puoi cliccare sull'immagine per proseguire. Se invece clicchi sulla fotografia della violoncellista Edith Rowe, potrai leggere dell'esperienza delle carceri.