LA COSCIENZA DEL MUSICISTA

Ovvero:  

 

 

Lettera di un violoncellista specializzato in prassi musicali storiche,
a colui che, amando il lavoro dello scrivente,
può riceverne l'amorevole consiglio.

 

 

 

 

«Al di là del narrativo o del descrittivo, la musica che fa appello alla voce tenta di rivelare un mistero: quello della sua origine.»
(Danielle Cohen-Lévinas, "
La voce al di là del canto", Parigi 1987.)

 

     Caro amico,

 

La Musica Antica è il Maestro che più o meno da un secolo —dai Dolmetsch, e poi da Donnington, o David Munrow, o dagli Harnoncourt— accompagna le inquietudini della musica colta post-romantica con inquietudini alternative: è in questo modo che ha messo in crisi le arroganti certezze di istituzioni accademiche ormai atrofizzate, incapaci di confrontarsi con la vastità delle proposte e dei problemi musicali del nostro secolo; ha demolito ogni troppo facile considerazione sulla "linearità" dei percorsi storici, sulle origini del nostro linguaggio artistico, sulla consequenzialità delle scuole musicali, del loro pensiero, della loro filosofia, dei loro strumenti.
È la "Musica antica" che ha saputo render popolare la filologia come un'esigenza della moderna arte dell'interpretazione musicale, ed è giunta così a far scoprire nuovi "piaceri" dell'ascolto, a far rivivere linguaggi che parevano definitivamente morti, soffocati nei limiti imposti da assurde semplificazioni moderne.
Ma, soprattutto, è la "Musica antica" che ha reso "Amatori di Musica", ovvero "Dilettanti", molti di noi professionisti, attraverso il dinamismo straordinario della ricerca delle radici e della verità storica.
Proprio questo ricostruire e cercare, infatti, ha potuto mettere a nudo la verità del nostro desiderio di musica: che cosa è, dove nasce e come si rigenera?
È il desiderio di un luogo privilegiato per l'esaltazione edonistica del nostro individualismo? o peggio della nostra mera vanità? Oppure è un'esperienza che tende a sviluppare le nostre migliori qualità di esseri sociali, un autentico esercizio di coscienza democratica?
La musica, per noi, è soltanto più un'occupazione o piacevole o retributiva? (ed esisterà e si conserverà a condizione che rimanga tale?...)
Oppure può essere ancora l'esperienza dialettica, comunitaria, costruttiva di valori etici, del Concento barocco — ovvero il prodotto di un consortium che produce armonie per esercitarci a vivere in armonia, o ancora, di un consertum, che potrebbe essere "l'intrecciare" armonicamente le cose, per produrne altre sempre più belle?
Di fatto, sembra che la nostra moderna condizione ci conceda solo più l'esperienza del Concerto (barocco o meno), e questo, al di là del suo nobile compito di far ascoltare la musica, è pure ciò che muove —lentamente, inesorabilmente, attraversando i secoli— fino a un teatro del potere, dove si è costretti a persuadere, per conquistare un pubblico che chiede solo più di esser persuaso e conquistato.
Tutto ciò, poco più o poco meno, è quel che accade nelle nostre sale, nei nostri teatri destinati all'arte dei suoni: con l'orchestra sinfonica così come con un piccolo, debole (seppur penetrante), dolcissimo flauto dolce.
E in questa impari competizione finisce col vincere solo ciò che vien meglio "veicolato" dai mezzi moderni, il che non è tanto la "potenza" del suono, quanto la semplificazione delle idee proposte, la loro velocità di trasmissione e capacità di integrarsi nella vita, nei desideri e nelle idee del ricevente; in breve: tutto ciò che un moderno pubblicitario potrebbe spiegarci essere le qualità di un prodotto ottimo per il mercato.
Così, infatti, nel commercio della musica, quella "antica" è riuscita ad imporsi benissimo (e, grazie alla sua "facilità" di fruizione e di produzione, ha già in pochi decenni saturato il mercato dei dischi, dei concerti e dell'insegnamento con le sue nuove proposte), modificando però solo il "gusto" del pubblico, e non la sua coscienza.
E allora la "Musica antica", questo sublime Maestro d'Utopia, o fatica inutilmente ripetendo i suoi antichi assunti, oppure è un Maestro che tace, immerso in un sonno profondo, fra concerti, dischi, convegni, corsi speciali o estivi.
Caro amico, nel banale, quotidiano difendere la nostra identità e individualità, è solo il chiasso dei nostri argomenti a sovrapporsi alle soavità armoniche che pure abbiamo saputo "restaurare".
Infatti, la molteplicità delle proposte non genera una dialettica, se ogni individuo può contribuire solo con ciò che filtra dalle maglie di una tale realtà, e dunque con la conferma e l'affermazione del suo adattamento a quella, o col suo dominio sul "gusto" di un pubblico sempre più incolto.
Eppure proprio la musica ci insegna che un buon Maestro, o un ottimo direttore d'orchestra, è tale perché riesce a trasferire un'idea personale in un lavoro di gruppo, dove ogni individualità può consegnare il suo miglior contributo, e ogni contributo, a sua volta, acquista una sua propria "risonanza".
Così anche in musica, come in tutte le arti e le scienze, ogni volta che qualcuno sviluppa anche una sola, piccola idea nuova, questa può manifestarsi come una realtà "risonante", una presenza virtualmente importante nel mondo; — sebbene qui, in quest'arte così difficile da definire, essa sia solo una realtà "musicale", e quindi ineffabile, effimera, sentimentale...
Ineffabile, effimero, sentimentale: tre cose buone o cattive?
L'una o l'altra, a seconda del periodo storico o della nostra formazione culturale. È come il voler pronunciare: Dottrina, Disciplina, Valori Morali; c'è —se al di fuori d'un contesto di analisi storica le si usa per parlare di nuovi progetti articolati nella complessità del mondo contemporaneo— il pericolo di venir classificati come ideologi di regimi che macchiano in modo orrendo la nostra storia recente.
Ma in musica puoi credere veramente di poter fare a meno di un sistema morale, di una disciplina severa e dottrinale, di una classificazione di valori che provenga dal passato, ossia dai Maestri del passato?
Prova a pensare come loro, e immagina la MUSICA come un'Entità assoluta, superiore a tutta la varietà delle sue espressioni, la cui essenza è però presente in ogni sua manifestazione, sia essa
CONCERTO, CONSERTO o CONCENTO, sia contemplativa rappresentazione dell Armonia delle Sfere, o del mondo, o ancora universale, oppure inquieto movimento dei tormenti dell'anima, in una circolarità che è alternanza di concordia discors con discordia concors.
Mai la sua totalità può palesarsi ai sensi, ma solo a una percezione più alta, estranea al "fatto particolare" dell'occasione d'ascolto, o dello stile, del genere, ancor più della singola composizione o del suo compositore (per grandiosi essi possano venir considerati), e di quant'altro potremmo descrivere: ESSA, in questa sua ineffabile presenza, si arricchisce anche del più piccolo contributo che solo riesca a sfiorarla; né questo potrà più essere ignorato, diventando poi parte di quel "tutto", e rigenerandosi nella sua unicità e molteplicità.
La MUSICA, insomma, che non "significa" per corrispondenze col conosciuto, o per "somiglianze" col già noto, che non serve allo scopo di "evocare" le cose visibili e invisibili alla coscienza, ma quella MUSICA che è sommo motore dell'Universo, e per conseguenza comprende tutto il noto e tutto l'ignoto; quella di cui noi non possiamo che visitare le rarefatte "presenze", ovvero ciò che abbiamo la capacità di raggiungere nelle rappresentazioni effimere della Sua Immutabile Natura.
Dunque —benché la nostra moderna musica sembri essere cosa assai più sensuale e concreta...— di cosa ho bisogno per entrare nella MUSICA e uscirne poi con dei suoni musicali di cui disporre per "sedurre" un pubblico, per convincerlo ad amare questa grande "Madre" di tutte le arti più nobili?
Per esperienza pratica, dall'esercizio della mia professione nella quotidianità del lavoro, so di aver bisogno di ordine, umiltà, amore: affermazione di imbarazzante banalità, per il professionista della musica che viaggia con il telefonino cellulare, l'agenda elettronica, l'incubo dell'agente delle tasse.
Ma Ordine, Umiltà, Amore, sono gli insegnamenti che da sempre i nostri Maestri ripetono, e che continuano ad essere la lezione finale, risolutiva, e nello stesso tempo si mantengono quanto vi è di più difficile, inappagante, tormentoso da conquistare, dichiarare, conservare.
Così la "risonanza" delle nostre idee dovrebbe cominciare proprio dall'aver conquistato -e dal conservare- almeno quelle tre cose: TRE, come le note di un accordo: «
Tibi augustissima Trinitas/ primæ, Ingenitæ, Ineffabili Harmoniæ,/ ad monadem TRIADI, ad numerum Unisonæ;/ ad tempus Æternæ, ad modos Incommutabili;...» (Gregorio Strozzi, "Elementorum Musicæ Praxis", Napoli, 1683).
Dovremmo dare alla musica la possibilità di essere "vista" come in tempi antichi si mostrava al pubblico un grande TRITTICO: chiuso come un'Arca sacra sui suoi segreti, si apriva solo nel cerimoniale dei Maestri, che solennemente dilatavano l'unica immagine in una narrazione tripartita, e dentro al tempo della cerimonia si osservava l'Arte, vivendone coll'emozione e l'intelligenza il contenuto.
Ma, caro amico, quanto mi sto allontanando dalla serena tranquillità dell'occuparsi di musica "perché ci piace", o perché è il nostro mestiere!
In effetti, ormai per vedere un Trittico non ci resta che andare al Museo, e guardarlo inevitabilmente spalancato di fronte al nostro stupore, che senza darcene avviso sensibile si dissolve in noia e in nulla, attraverso disconnesse curiosità.
Ricondurre la musica a un luogo dell'assemblea, a una casa comune dove interrogarci sul nostro vivere sociale, forse è l'urgenza principale della sua sopravvivenza, poiché ESSA sta languendo più d'ogni altra arte nella banalizzazione, o nella solitudine di ascolti rinchiusi nelle più impenetrabili intimità.
Sì, sebbene avessi iniziato questa lettera con la cosciente intenzione di consegnarti idee pesanti, mi accorgo bene di quanto metto alla prova la tua pazienza nel seguirmi in questi pensieri... tuttavia, se mi è difficile restar sereno e tranquillo in questo scritto, è perché il contributo alla musica da parte della nostra più recente generazione, è immenso, ma al tempo stesso troppo povero: immenso perché mai nella storia dell'umanità si è usata così tanta musica per riempire il mondo di suoni musicali più o meno in "sottofondo" ai nostri pensieri o alle nostre attività, e povero perché è sempre più difficile commuoversi alla musica, o anche solo condividerne la comprensione in comunione con altri.
E allora, amico gentile, se non posso fare a meno del "ripetere" la musica dei nostri avi, lascia almeno che io provi a mostrarti un suo valore edificante, non foss'altro che per sentirmi simile a un antico Maestro, e provar meno la degradante sensazione d'essere una specie di sacerdote condannato a ripetere un rito del quale s'è perso il significato, il valore e l'utilità.
Dunque lascia che io non mi conceda il diritto di "appropriarmi" di quel che ci rimane di tutta la bellezza ideata, conservata, amata dai nostri antichi Maestri: non potrei che farla a brandelli, per farne entrare e uscire da me frammenti sparsi, immagine desolata della nostra ignoranza, o della nostra intelligenza smarrita, inetta, vana.
Ricordi cosa scriveva T. S. Eliot? «These fragments I have shored against my ruins»; «Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine»; (in "The waste Land", 1922).
E le mie rovine, le nostre rovine, vorrei restaurarle con devozione, con amore appassionato, per poterle rendere il luogo dove passeggiare con te, e passeggiando conoscere il segreto della pace.
Ma non ora...
Certo, è così esaltante "fare musica" con quei suoni, quelle armonie, quelle composizioni, quegli strumenti di meraviglia che sono appartenuti ai nostri antichi Maestri! Ma se non abbiamo nulla per arricchirli, oltre al nostro ripeterli, seppellirli e riesumarli, il nostro godimento rischia di rimanere solo il frutto di un "furto" incosciente: presto ciò che abbiamo rubato sarà esaurito, spento, né ci sarà modo di rubar altro che possa soddisfarci.
Forse fu proprio quel che accadde dopo il furto dei frutti dell'albero della conoscenza dal Giardino di Dio; allora non lasciamo che la musica sia qualcosa che produciamo e consumiamo allo stesso modo delle folli, immorali industrie moderne, accecate dal profitto: conserviamo piuttosto nella musica la dignità di essere "voce" universale delle nostre coscienze.
È per questo che prima di rivolgermi a te, amico di cui ho bisogno, ho aperto la mia lettera citandoti quella frase della musicologa francese Danielle Cohen-Lévinas: «La musica che fa appello alla voce...»; sì, la "voce" che canta, o quella che parla, spiega, domanda, implora, grida, afferma, invita, insegna... e io ti parlo, scrivendoti, per poterti raggiungere anche con la "voce" del mio violoncello antico: quello strumento che mi permette di "cantare", perché secoli di Maestri e Allievi l'hanno consegnato a noi, che abbiamo i computers, gli antibiotici, l'energia e la bomba atomica, la libertà di stampa e d'informazione, ma anche —per ora...— il desiderio e il bisogno di quella "voce".
Ebbene, anch'io ho cercato di raggiungerti con quel che mi resta di quella "voce", con quel che ne ho potuto ritrovare, attraversando l'indifferenza della modernità per tutti quei "dettagli" della storia che ho voluto riconsegnare al mio strumento: le antiche corde di budello, fabbricate secondo un "rituale" piuttosto che un "metodo", una tecnica e un esercizio del suono sviluppati come un atto etico, piuttosto che razionale e congegnale a un'estetica, una lettura del testo musicale che piuttosto che imporre un senso alle note, sceglie di usarle sempre come fossero una nuova domanda.
Così anch'io, infine, con quella "voce" ho inciso dei dischi —di quelli fatti anche col computer, che taglia, cuce, manipola e traduce il suono ridotto a sequenze di numeri (formidabile invito al cabalista...)—, e ora ho bisogno della tua "complicità" di amico, ma ancor più che questo: di amante di colei che anch'io amo; per farteli ascoltare in un "rito" dell'ascolto, affinché non succeda che di questi oggetti, di questi multipli del mio atto musicale, non rimanga nulla più di quel che di fatto sono: effimeri pezzi di plastica, elettronicamente riconducibili o ai nostri Maestri, oppure al mercato incosciente delle loro idee.
Ma tutta la ricerca per quei dischi è stata la ricerca della "voce" oltre il "suono" oltre le "note" della musica: la "voce" del clavicembalo di Bach, o del pianoforte di Rossini, o di Wagner; perché il solo "suono" dei loro strumenti storici non potrebbe darci nulla più che informazioni sulla struttura di quegli oggetti, sui materiali, sulle condizioni che essi pongono a uno scritto musicale; insomma: non potrebbe che farci riconoscere i limiti entro i quali quell'oggetto può agire.
Al contrario, la "voce" si proietta al di là di qualsiasi barriera fisica o mentale, se solo può derivare da quella meravigliosa complessità che è la
Tradizione, la Scuola, ossia quell'energia che si forma nella continuità da Maestro in Allievo, di generazione in generazione.
Ecco allora i miei dischi, ad indagare elettronicamente intorno a quella "voce perduta" di Maestri che vivevano l'era conclusiva dell'ordine di Arcadia, Salvatore Lanzetti e Jean Barrière, e dell'ordine del tonalismo, Niels Wilhelm Gade, Peter Arnold Heise, Alfredo Piatti, compositori di musica il cui senso melodico ancora affondava le radici nella Retorica del Barocco, ovvero nell'idea di Sublime Bellezza collocata in luoghi accessibili solo attraverso il dominio di una "Natura" separata, seppur parallela.
Nella "ripetizione" non c'è solo commento o "rivisitazione", né soprattutto una sconfitta, un ritrarsi dal bisogno di dire o affermare cose nuove, ma piuttosto un cosciente applicarsi al "già detto" con nuove intenzioni, così da richiamare a una rinnovata attenzione: il coincidere di attenzione e intenzione altro non è che il momento magico e ineffabile dell'evento artistico.
In questo modo, amico paziente, io provo ad introdurre l'ascolto dell'integrale dei Trii con pianoforte di Niels W. Gade e Peter A. Heise, per farti entrare nella particolarità della loro poetica musicale con attenzione —e quindi con intenzione devota, umile, disponibile— scrivendo nel libretto che accompagna il disco:

«Permettetemi di farvi da guida: fate suonare il Larghetto con moto delle "Novellette" di Niels W. Gade, e lasciate che i primi due accordi del pianoforte siano come l'invito ad entrare nelle visioni di una poesia improvvisata:

 

Scende la notte sulle bambole

 già addormentate.
   Il vento lieve le carezza, ora.
 Nella luce della luna
esse sono fate che sognano di amare.

E tutto intorno il lago palpita, 
ritmato dal mio cuore calmo, 
verso le sponde serene del loro volto. 

 

Provate a credere che il pianoforte sia solo colui che vi accompagna e sostiene in questo sogno; smaterializzate il violino e il violoncello: di essi non rimanga che carezza, desiderio, corpo leggero che muove, vibra sul vostro respiro.
Se questo vi riesce, se potete percepire la visione di un lago al chiarore lunare, nel quale, come un'isola, affiora il volto addormentato di una bambola; o se solo vi sentite attratti in qualunque altro vostro percorso onirico, diverso, o inesprimibile, allora incidere questo disco immaginando una poesia per ognuna di queste composizioni è stata un'idea che è valsa la pena di sostenere, perché tutto ciò di cui ha bisogno questa musica è soltanto la nostra attenzione.
Trovate che sia musica simile a quella di Schumann? Nulla di più naturale: provengono dalla stessa scuola, sono amici. Ma nessuno trova che Andersen somigli ai fratelli Grimm: fanno solo lo stesso mestiere, vivono entrambi in paesi freddi e hanno tradizioni quasi comuni. Però in letteratura o in pittura le differenze, a volte, si notano meglio.
In musica si dipende da una materia ben più fragile della parola o del colore: ci si addentra nell'ineffabile, vi domina l'inconscio. O l'ignoto: troppo spesso si preferisce evitarlo trattenendo il suono o la frase nei limiti del conosciuto, dell'abituale. Ma è così che Gade assomiglia a Schumann, e Schumann rischia di somigliare solo a se stesso, senza contenere nulla più di ciò che ci è già noto di lui.
Ma la musica deve essere indagine ininterrotta dell'ignoto, rinnovarsi sempre nel nostro ascolto creativo, amorevole, devoto, perché nessuno può conservarla solo sulla carta o sui dischi: essa esige una tradizione, con una sua ritualità, e un esercizio costante del pensiero per educare mani e voci a proteggerne la "decomposizione", la degradazione a oggetto che rischia di restare solo un'inattuale curiosità della storia.


In ultimo, il pensiero che mi ha accompagnato nell'incidere questi dischi è stato il loro inevitabile "distaccarsi" da me, continuando, ad ogni richiamo del lettore elettronico, nel ripetere il mio gesto musicale "tecnologizzato": la tecnologia ha risposto ai criteri estetici con prodotti all'apparenza perfetti; e l'arte è sostituibile, ahimè, con il "bello" che appaga il desiderio di perfezione. Dimenticare tutto ciò permette una grave confusione di valori: il "perfetto" tecnologico non può sostituirsi al "perfetto" spirituale, poiché non ha corrispondenze che con se stesso, cioè con i mezzi con cui è stato generato, e non con il complesso della vita e del pensiero. Con questo in mente ci siamo preparati ad entrare due volte nel percorso di questo musiche: suonando con i nostri strumenti, e ricomponendo con i frammenti registrati del nostro suono un nuovo pensiero musicale e poetico, nel montaggio finale del disco.
Nel nostro tempo storico, in cui la maggioranza della gente -anche se colta- risponde ai musicisti della tradizione con un «io di musica non capisco nulla, ma se mi emoziona mi piace», quel "mi piace" è l'unico giudice che decide sulla vita o sulla morte di quello o quell'altro musicista. "Veicolare l'emozione", inoltre, è cosa che può riuscire meglio non solo alla potenza apocalittica di un concerto Rock, ma anche alla tecnologia digitale e commerciale delle nuove case discografiche, piuttosto che al meditato e silenzioso lavoro dello studioso.
Così quest'ultimo, senza la tua comprensione e il tuo aiuto, difficilmente potrà riuscire a vincere la sua battaglia per la sopravvivenza.
Cercando di nobilitare a rango di espressione artistica anche e proprio il montaggio digitale, forse apriremo una nuova porta all'espressione musicale; se solo manterremo vivo il rigore delle nostre scelte nello studio, se manterremo il nostro più antico e profondo "desiderio" di musica, non ridurremo l'arte a mero oggetto di vanità, disgregando la sua forza d'attrazione, la sua capacità di sedurre e far crescere l'umanità nel desiderio della vera bellezza, poiché: «La vera Bellezza è la
SAPIENTIA», così come insegnava il dotto Maestro Leone Ebreo, nel Rinascimento.
Lascia dunque che mi congedi da te, ottimo amico, con la preghiera di acquistare presso di me i dischi che abbiamo realizzato senza "sponsor" o finanziamenti, al di là di quelli che amici della nostra Arte possono realizzare col loro acquisto. Così com'era nel secolo scorso, anche in questo caso avremo concretizzata un'edizione grazie al sistema della sottoscrizione, seppure, questa volta, posteriore alla pubblicazione.
Questi Compact Disc, infatti, vorremmo voi li conservaste come un "libro", se non altro considerando che un
CD è quasi la naturale conseguenza di un AB, come per suggerirci che a un antico sistema di scrittura se n'è aggiunto uno nuovo, e che oggi, proprio in questo oggetto, tutti i linguaggi si trovano riuniti in un unico codice, come nel grande sogno del Rinascimento: ad irraggiare i loro significati dal simbolo del centro ineffabile d'un disco rilucente.
Augurandomi che i miei CD possano risonare non solo negli ambienti della tua casa, ma anche nelle stanze della tua intelligenza, ti saluto esprimendoti la mia riconoscenza per la tua gentile attenzione.

 

 

Vivi felice, e restami amico.

Claudio Ronco, Venezia, maggio 1995.

 

 

 

 

 

 

 


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