-XLVI-

Il 26 luglio, dopo l'ultimo concerto, a Montpellier, andai da amici, nella bellissima campagna della Provenza; Joseph e Christiane erano una coppia di docenti universitari: lui era un americano di origine russa, cinquantenne e professore di storia moderna, e lei era francese, più giovane di lui d'una decina d'anni, un'economista. Mi fecero portare un pianoforte, e su quello, per giorni, lavorai da mattino a sera trascrivendo musica del Barocco e componendo brani in stile antico e moderno per due violoncelli. La mattina facevo colazione con loro, nella frescura del giardino, e la sera stavamo a lume di candele, a parlare di tutte le cose del mondo.
Finii col dire del mio violoncello, fra mezzanotte e le tre del mattino, un giorno in cui tutti ci sentivamo innalzati dagli argomenti dei nostri dialoghi amichevoli. Vidi nei loro occhi la commozione, non la paura, che riempiva solo i miei.
«...Quelle fratture ricongiunte malamente, quei ritocchi mal fatti di vernice... sono il bisogno disperato di recuperarlo, di poterlo suonare nuovamente, subito...»
«...Ma, allora... chi aveva quel bisogno?»
«Vedete questo punto della fascia sinistra? Qui è stato colpito dalla punta di uno stivale...»
«Un calcio?... durante il tempo di guerra?»
«Claudio, furono i nazisti?»
«Fu il demonio...»
«Il demonio in forma di SS?»
«Claudio, abbiamo sentito raccontare tante storie sulla violenza nazista, contro la musica e l'arte "degenerata"... è una di quelle?»
«Sì, "Entartete Musik"... roghi di libri e di idee... poi esseri umani immolati alla follia del Reich. Claudio, tu suoni con un violoncello sopravvissuto a questa vicenda?»
«...Io suono il violoncello ritrovato ad... Auschwitz...»
«...Mio dio... quello!...»
«...Ma... come è stato ritrovato?»
«Pare... credo dagli americani...»
«E come l'hai avuto?»
«Da un uomo che ha voluto redimere la sua anima acquistandolo, facendolo restaurare, cercando qualcuno che potesse suonarlo: non solo per rivivere l'orrore...»
«...È incredibile...»
«Chi lo suonava, ad Auschwitz?»
«Nessuno lo ricorda più... di questo si è perduta la memoria; pare fosse un giovane violoncellista tedesco, ovviamente ebreo...»
«Tu sei ebreo, Claudio?»
«Fa qualche differenza?»
«...No, no certo...»
«Cioè tu volevi dire che dopo esser stato preso a calci da un SS, è stato riparato dagli internati, per poterlo suonare ancora?»
«Vuoi dire che era quello di quel quartetto d'archi che suonava per le impiccagioni, nel campo?»
«...Santo cielo... sì, ricordo: c'era quella cosa terribile... musica classica nel cortile delle esecuzioni capitali... come un orribile incubo, l'immagine stessa del male, il capovolgimento delle cose...»
«Sì, l'inferno...»
«In quell'inferno c'è un violoncello che rappresenta la vita, la speranza... io ho accettato di cercarla... di consacrare la mia vita a cercarla...»
«Non era un'orchestra, quella del campo?»
«Sì, credo... avevano fatto un film, su quell'orchestra...»
«Vi sembra che faccia molta differenza?»
«È incredibile... non so se riuscirei ad ascoltarlo senza piangere, adesso...»
«Devi! Dobbiamo ascoltarlo... oh, Claudio, è magnifico... che storia!»
«Cosa pensereste di me, se fosse falsa?...»

 

 

-XLVII-

 

Prima di iniziare la lunga tournée con le Suites di Bach, avevo voluto provarmi in un concerto estremamente difficile, con composizioni di Alfredo Piatti e David Popper per violoncello solo: lo intitolai "Anima Mundi". L'undici maggio di quell'anno suonai in una strana chiesa di Parigi, per metà tardo gotica e metà di fine Ottocento: la Chapelle Saint Louis, nell'antico Ospedale. Fu un concerto a sottoscrizione, al quale parteciparono alcuni alti ufficiali dell'Esercito francese, diventati già due anni prima miei ammiratori e amici.
Ai primi di luglio uno di questi, Georges, Generale di Corpo d'Armata, mi invitò nel Palazzo che lo Stato gli imponeva di abitare, per una serata di gala con un mio concerto. Ripetei quel programma, tralasciando di dargli un titolo, ma presentandolo come la "Battaglia del desiderio e della virtù". Più di duecentocinquanta invitati ascoltarono in religioso silenzio quasi due ore di esplorazioni nel suono del violoncello di quei due virtuosi, ammirando la mia bravura nell'eseguirli.
Il critico musicale, invitato quella sera in via del tutto informale, evitava con acrobazie diplomatiche quasi commoventi di dare il suo giudizio, mentre una elegante signora, habituée dei concerti più "in vista", osservava che, mentre il pianoforte "non fa pensare", il violoncello, al contrario, invadeva la mente di pensieri difficili, complessi, pesanti...
Io, Georges e sua moglie parlammo a lungo, quella sera, dopo aver congedato gli invitati. Il concerto era stato un successo ma, in fondo, niente più che una serata mondana. La visione della virtù vittoriosa sul desiderio entusiasmava il Generale.
«Caro amico,», esordì Georges, «Il mondo non si cambia né con la politica, né con la religione, e neppure con le guerre: queste cose lo mutano d'aspetto, lo modellano, e noi cerchiamo e speriamo di contenerle e controllarle nei limiti che la natura riesce a sopportare... Ma il mondo è cambiato da una sola cosa: dal desiderio. È il desiderio che si genera nell'uomo, che lo spinge all'azione attraverso scelte che non sono affatto chiuse nei confini della razionalità, ma anzi in un luogo assai prossimo all'irrazionale.
È per questo che l'uomo può solo salvarsi con la fede, ma non una fede qualsiasi! Una fede esatta: quella nell'ordine e nella virtù eroica! Quella che lei ci ha indicato e dimostrato stasera, caro Claudio!»
«Ho visto raramente Georges così felice, Claudio. D'altronde, in questa nostra prigionia di Palazzo... ci succede di rado una cosa così bella come questa serata!»
«Quanti degli invitati pensate abbiano capito o credete mediteranno quel messaggio?»
«Ah, ben pochi! Forse nessuno. Ma questo è normale, non crede?»
«Direi piuttosto che è assai triste...»
«Non si può pretendere nulla da questa gente: ha responsabilità così importanti e gravose che non può permettersi di pensare al di fuori dei precisi limiti che si è imposta. Ma qualcosa passa comunque, scava, penetra, si addentra silenziosamente... qualcosa succede!»
«E qualcuno l'ha davvero recepito, Georges: Paul era come in estasi; non ha sopportato l'idea di restare in mezzo agli ospiti, dopo il concerto: mi ha detto che ogni parola era di troppo, dopo un'esperienza così alta!»
«Parli di Paul, il Generale?»
«Sì, Claudio. Tu lo conosci bene, no?»
«Certo. È un uomo di straordinaria sensibilità.»
«È in pensione da cinque anni; è stato un Generale rimarchevole in guerra e in pace. Grande uomo: ha ricevuto moltissime decorazioni, e la Legion d'Onore circa quindici anni fa.»
«Ha detto che deve assolutamente vederti e parlarti, ma non in mezzo a tutta la gente di stasera.»
Il giorno dopo, Paul mi telefonò per invitarmi nella sua casa di campagna ai primi di agosto. Accettai, e in tarda mattinata del quattro agosto venne a prendermi in Provenza, a casa dei miei amici.
Era da due giorni che Joseph e Christiane sapevano del violoncello, e quasi non si parlava d'altro. La sera prima avevo mostrato loro un biglietto che Paul mi aveva fatto recapitare subito dopo il concerto da Georges, su cui aveva scritto questo pensiero, a seguito di un'idea che espressi al pubblico presentando la mia serata Piatti-Popper:

«In modo di ringraziamento per un grande momento di emozione, di spiritualità e di amicizia condivisa.
"Téchne parte alla conquista di Ethos", ha detto il Maestro. Questa frase non ha cessato d'inseguirmi, ed è il contrario di quel che noi viviamo. Permettetemi un'Allegoria: io ho visto attraverso tutto questo concerto l'Ethos, la fede Cultura, Claudio, prendere nelle sue braccia e lottare con la Téchne, la strumentalizzazione, la civilizzazione. Combattimento titanico, corpo a corpo. Poi il miracolo avviene. Lo strumento, domato, poco a poco, prende un'anima per finalmente cantare il mistero dell'uomo in unisono con l'Ethos. Immagine meravigliosa d'una civilizzazione dominata dalla Cultura, dove è il contrario di tutto questo ciò che noi osserviamo nel nostro mondo: civilizzazione materialista che divora le nostre anime.
Grazie, Claudio, per questo messaggio di speranza. Questa, può essere la cosa di cui il mondo ha più bisogno.


Paul.
»

«Caro Generale, è molto bello quel che ha scritto a Claudio.», esordì Christiane.
«Ciò che ho scritto non riesce neppure in parte a rappresentare la mia ammirazione per quel che ho sentito e visto: Claudio ha saputo restituire la musica alla sua funzione più alta, più vicina alla fede e alla speranza di verità. Io non ho parole per ringraziarlo: solo per esortarlo a non cambiar direzione, a non abbandonare la sua missione!»
«Alla luce di quel che abbiamo saputo solo l'altro ieri...», commentò Joseph.
«Cosa avete saputo?», fu l'immediata reazione di Paul.
Risposi prontamente: «Vi prego: io non credo sia una buona cosa spargere quest'informazione ovunque e a tutti... andiamo a sederci in casa; vi devo parlare.»
Joseph e Christiane avevano ricevuto solo la storia del violoncello così come io l'immaginavo dagli anni del nazismo in poi, senza il nome di Ahasvero, ma solo, vagamente, quello di Hans Haas. Il resto erano le mie considerazioni sul pianto e sul riso, sulla leggerezza e sulla gravità, su ciò che si può dire e su ciò che forse si deve tacere; ma certo, soprattutto su quest'ultimo argomento, non ero andato abbastanza a fondo. Cominciai quindi a raccontare una storia.


«Cinque anni fa ho fatto un viaggio in India: tre mesi fra New Delhi, Benares e infine a Calcutta, dove studiavo con un musicista bengalese le basi della loro musica tradizionale.
Abitavo in un albergo del centro, piuttosto a buon prezzo perché in una zona molto popolare. Calcutta, forse lo sapete, è una città paradossale, dove la borghesia ama profondamente la cultura e l'arte ed è generalmente d'ideologia marxista, ma si tollerano cose come i ricsciò wala, ossia gli uomini che corrono come cavalli, tirando le carrozzine a due posti, spesso cariche di merci o bagagli.
A Calcutta tutte le cose sembrano ai limiti estremi della tollerabilità: l'igiene, il caldo-umido, lo sfruttamento dell'umanità più povera e disperata, l'alimentazione dei senza tetto, il frustrante senso di inutilità di tutte le attività umanitarie che si svolgono nei monasteri, negli ospedali pubblici o per strada.
Dietro il mio albergo, in una delle strade che portavano al mercato di quella zona, c'era una lunghissima fila di mendicanti accampata sul marciapiede, senza tende o coperture, solo stracci, sui quali passavano quasi tutto il tempo a dormire, o seduti con lo sguardo perso nel vuoto. Giorno dopo giorno, facendo sempre quella strada per andare dal mio maestro di musica, o a comprare frutta e verdura, cominciai gradualmente a vedere i volti di quei mendicanti, a riconoscerli uno a uno, ad osservarli.
Un mattino in cui avevo meno fretta del solito, mi accorsi che fra loro c'era una ragazza, a cui avevo attribuito più o meno la mia età. Era vestita di una tela immonda e stracciata, che lasciava però intravedere un piccolo seno bellissimo, e accendeva così il mio desiderio. Era annerita dalla polvere della strada, i capelli stopposi, d'un ocra grigiastro, come in tutti coloro la cui alimentazione non ha vitamine, minerali, nutrimento sufficiente alla vita.
Ma il suo volto era bello, di una dolcezza antichissima, con occhi che guardavano al di là delle cose, e ogni nuovo giorno li amavo più profondamente. Io ero ancora come un adolescente; o almeno, quell'adolescenza che la vita mi aveva negato, nella mia Torino angosciosa, nella scuola che rigettavo e negli studi in cui cercavo di rifugiarmi, fino a quella fuga in oriente... bene, quell'adolescenza la stavo vivendo in quei giorni, e premeva sui miei sentimenti e sui miei desideri, esplodeva nei miei umori, nelle mie notti agitate e nel fantasticare dei miei giorni inquieti.
Giorno dopo giorno immaginavo dettagli nuovi per quel mio sogno d'amore: l'avrei nutrita, le sarebbero cresciuti dei lunghi, soffici capelli corvini, la pelle le sarebbe diventata tenera e preziosa, avrei protetto i suoi piccoli piedi con dei sandali dorati, i suoi fianchi con della seta fine, i suoi seni abbelliti dal corpetto di un Sari color porpora, bordato con nastro verde smeraldo intessuto a filo d'oro, l'ombelico reso più dolce dal piccolo anello d'argento, le dita e i lobi delle orecchie impreziositi da gioielli semplici e graziosi, gli occhi curati col Kajal più raro. Eppure, pensavo, il suo sguardo non si sarebbe mai insuperbito: gli occhi avrebbero continuato ad esprimere la sua fragilità, e la sua umile, riservata riconoscenza.
Pensandola fra me, ormai le davo un nome: Rangeeta, che forse le apparteneva, essendo comune fra le ragazze di Calcutta; ma quel nome suonava alle mie orecchie simile al nome indiano della musica: Sangeet, l'ineffabile luogo della creazione, attraverso i nove Rasa, i sentimenti, i ventidue Schruti, gli "udibili", e le sette note dai nomi solenni: Sa Ri Ga Ma Pa Dha Ni... Rangeeta avrebbe cantato per me, nelle notti dolci d'estate, guardando l'immensità del cielo stellato e l'amore di Dio per la sua terra.
Quel mattino andai fino al mercato coperto, attraversando qualche isolato in più di quel centro brulicante di umanità indaffarata e rumorosa. Fra i banchi di stoffe coloratissime vidi il Sari che avevo sognato: bellissimo, d'una seta leggera come l'aria e di colori vivissimi, simili al manto di certi insetti rari e sacri nell'antichità. Spesi quasi tutto ciò che avevo in quel vestito, e lo feci preparare in un pacco curato, arricchito di nastri pregiati, come per farne dono a una dea famosa, o a una regina.
Pensai poi alla fame, al bisogno di nutrimento e conforto, e comprai chapati e dal, semplici pani appiattiti e lenticchie bollite con spezie, cosciente che dolci o cibi più raffinati non sarebbero stati accettati né dalla mente né dallo stomaco, in quelle condizioni così miserevoli. Fiero di me stesso, fremente di eccitazione, finalmente, con i miei doni sotto braccio, mi diressi alla strada dove lei passava le sue giornate.
Era là, seduta. Io l'amavo, già carezzavo le sue guance scavate dalla sofferenza, già sentivo il suo nuovo sangue pulsarle nel corpo. Cancellavo con una carezza i suoi capelli spenti e quell'ombra terribile dai suoi occhi. Mi chinavo su di lei, e lei scivolava verso l'alto, purificata dal mio amore... era giunto il momento, era finita la mia attesa.
Mi fermai di fronte ai suoi piedi, così vicino come nessuno osa, presso i mendicanti: quasi calpestando quella tela stracciata che era tutta la sua casa.
Le portai il cibo di fronte agli occhi, come sostenendo un vassoio pieno di vita, e attesi. Lei mosse lentamente le mani, gli occhi fissi sui pani appena cotti, caldi, invitanti. Afferrò il cibo gettando lo sguardo ai mendicanti che stavano ai lati, ma che non s'erano accorti di nulla. Portò alla bocca piccoli pezzi, ad occhi chiusi, inghiottendo con fatica, o forse con dolore.
Io restavo immobile, mosso a indicibile pietà: come una statua, piegato in due, le braccia protese a sostenere quel cibo semplice, ma ancora troppo ricco per quella ragazza nutrita di scarti immondi, raccolti fra escrementi di uomini e cani. Ingoiava, senza masticare: scioglieva lentamente in bocca il cibo, e il corpo aveva dei fremiti, come febbre, piccoli singulti, tremori.
Bocconi strappati quasi senza coscienza, come sognando; io cominciai a offrirle pezzi imbevuti del brodo di lenticchie, inginocchiandomi davanti a lei. La gente di passaggio cominciò a guardare, incuriosita. Le portavo il cibo alla bocca, e i suoi occhi cominciavano a fissarsi sui miei, ma senza dare espressione. La pietà cresceva in me sempre più accesa, più commovente.
Cominciò a prendere concitatamente del cibo e nasconderlo fra le misere pieghe dei suoi stracci, senza mai staccare gli occhi dai miei, se non per gettar lo sguardo, a scatti, verso l'uomo alla sua sinistra, che sembrava dormisse. L'aiutai, l'esortai a prendersi tutto, a soddisfare quel suo naturale bisogno di mettere da parte del nutrimento per sopravvivere domani, quel nasconderlo agli altri; chissà cosa doveva essere l'orrore delle notti, là sotto?...
Pian piano prendevo coscienza di quanto era stata lontana dal vero la mia idea della povertà e della disperazione di quei mendicanti; ora vedevo più da vicino lo stato di quel corpo, ne sentivo gli odori intollerabili, percepivo la sua estrema vicinanza alla morte. In me, i sentimenti di pietà, di amore, di desiderio si stavano accavallando, confondendosi in una follia di cui cominciavo ad avere paura.
Ma ero forte della mia speranza: l'avrei sollevata, poco a poco, l'avrei lavata, purificata, nutrita, salvata. Lei poteva ancora vivere: lei aveva la bellezza, in se, che gli altri mendicanti avevano ormai perso irrimediabilmente. Dovevo solo attendere, farmi forza, avere compassione e amore per lei.
Si era rilassata; teneva le mani sulla bocca, in uno strano modo, quasi a conservare il sapore preziosissimo che le avevo donato. Presi allora il pacco del Sari e glielo porsi. Lei lo guardò con avidità; tornò quello sguardo sospettoso e scattante, animale, diretto ai mendicanti vicini, poi si concentrò su quei nastri di seta. Io allora cominciai a parlarle, con le poche parole di bengalese che avevo imparato.
A tratti alzava gli occhi verso di me, ma con timore, poi tornava a fissare i nastri di seta rossa. Così sciolsi il primo nodo, e aprii un angolo del pacco. Lei avanzò un dito verso la stoffa del Sari, poi mi guardò, cercando di capire. Io tentavo di dirle nella sua lingua che quello era per lei, il mio dono, e che poi avrebbe potuto alzarsi e seguirmi, venire ad abitare con me, guarire, vivere...
Le misi il pacco fra le mani, e lei lo lasciò cadere in terra, fra le nostre gambe. Poi strappò via la carta con un gesto concitato, e tenne il Sari fra le mani, mentre io le ripetevo ancora tutte quelle parole, e il mio tono diventava sempre più appassionato, o forse ossessivo.
Ecco allora che lei indietreggiò strisciando, spingendosi coi piedi, lo sguardo allucinato, fisso sui colori di quella stoffa preziosa; poi, giunta con le spalle al muro, si alzò lentamente, appoggiandosi e sollevandosi con tutta la lunghezza delle sue braccia scheletrite, ed emise un fiato interminabile, cominciando con un rantolo il suo terribile urlo strozzato, acutissimo, di animale, di scimmia terrorizzata, mentre con le mani chiuse a pugno si batteva le tempie e pareva strapparsi orecchi, capelli, e cancellare occhi, e guance insieme!
Tutto si volse verso di lei: uno ad uno i mendicanti lì intorno si alzavano e cominciavano a urlarle contro, a lanciare ciottoli, terra; uno cominciò a picchiarla con il pugno, un altro, restando steso in terra, tentava di zittirla a calci, io mi ritraevo, inorridito, incapace di agire, di pensare... e qualcuno mi prese per le spalle e mi trascinò via, mentre dei poliziotti armati di grosse canne di bambù arrivavano menando colpi feroci sulle teste, sulle spalle, sui fianchi, facevano stramazzare a terra quei mendicanti impazziti, gli chiudevano la bocca riempiendogliela di sangue dalle labbra e dalle gengive spaccate!
Mi ritrovai a salire di corsa una stretta scala dentro a una palazzina proprio lì di fronte, ancora inseguito dall'orrore di quella violenza, dalle grida furiose.
Mi spingeva, senza soste, un uomo alto, robusto, con i capelli bianchissimi e degli spessi occhiali rotondi che continuava a rimettersi a posto sul naso, senza quasi lasciarmi vedere, riconoscere il suo viso.
Ci fermammo in una stanza al secondo piano di quell'edificio, con due finestre su quella strada, dove già la polizia stava riportando le cose alla normalità. La ragazza era sparita: in quello che mi sembrava esser stato il suo posto c'erano alcuni uomini già coricati, rannicchiati sui loro stracci. Mi sembrava di sentire ancora quelle urla, in lontananza, ma poteva essere solo il rumore abituale della città, delle migliaia di persone che si muovevano a piedi e in ricsciò urlando, ridendo, gemendo, pregando, imprecando, vivendo la loro giornata in quella città folle...
Mi guardai intorno: ero solo, in quella stanza graziosa, col soffitto basso, pochi mobili semplici, un pavimento di larghe assi di legno scuro, un divano e due poltrone di canne e paglia, un ampio tavolino cinese, smaltato di nero, una libreria aperta, al muro, con libri inglesi, qualche quadro con oleografie di divinità indù, e un ritratto di Karl Marx, sulle pareti dipinte d'un color verde chiaro.
L'uomo rientrò dopo poco, con un vassoio su cui fumavano due bicchieri di tè bollito nel latte. Aveva un'aria di uomo colto, di professore di scuola superiore, o qualcosa del genere. Portava la lunga camicia bianca tradizionale, sopra i larghi pantaloni popolari, che chiamano Pijama; il suo vestito era pulito, perfettamente stirato, e parlava un inglese perfetto, con un gradevole accento britannico.
Mi disse d'accomodarmi, di rilassarmi bevendo quel buon Chai appena fatto, prima che l'aroma più volatile del cardamomo svanisse nei vapori. Poi, mentre bevevo, cominciò a dirmi: «Caro signore, erano giorni che ti osservavo fermarti qua sotto, guardare, e sognare l'impossibile, il proibito. Sapevo che prima o poi sarebbe successo: e così è stato. Ora tu devi cercar di capire l'India.»
«Cosa vuoi dire?», chiesi.
«Pensi che noi si viva quotidianamente in quest'assurda condizione senza renderci conto di quel che ci succede intorno? Con i paraocchi come i cavalli? È che non ci possiamo far nulla: né noi, né le vostre belle istituzioni benefiche e umanitarie. Tutt'al più mettono a posto la coscienza di chi le pratica, ma non possono davvero cambiare questa realtà!»
«Ma la realtà deve potersi cambiare! È evidente che io ho sbagliato tutto, ma ora devo andare in cerca di quella ragazza, devo trovarla, devo parlarle...»
«Perdi il tuo tempo, se pensi di far qualcosa per lei: lei forse già non c'è più, o chissà dov'è finita; ma poco importa, perché anche se tu la trovassi, ritroveresti anche te stesso nelle stesse condizioni di poco fa.»
«No, questo no! Ho capito perfettamente il mio errore: mostrarle un Sari così bello, così prezioso! È stato come farle capire tutto d'un colpo tutto quanto l'orrore della sua condizione! Troppo, per qualsiasi mente ben nutrita e sana, ancor più per il suo stato così debilitato, così estremo! Stupido io, che non me n'ero reso conto! Ma ora che ho capito, so cosa le devo dire!»
«No, appunto tu non hai capito nulla; com'è normale per un giovane focoso di desiderio d'amore, e com'è normale per un europeo, che viene qui in India a cercare sogni lontani, se un giorno apre gli occhi per strada trova invece una realtà terribile, e non ha altro modo per digerirla che applicando qualche soldarello di pietà, compassione e carità: sfacciatamente diretta a salvare la sua anima.
No, caro signore: la realtà, qui, è ben più difficile da comprendere; se tu ritrovassi quella mendicante, quel Paria, tu non ti accorgeresti di ripetere ancora e ancora il tuo errore, perché tu sei ancora convinto di poter comunicare con loro parlando!»
«Certo che lo sono! Però so anche di non esserne capace, di dovermi preparare a fondo per quella comunicazione! Imparerò meglio la vostra lingua, starò più attento ai miei gesti, a controllare la mia invadenza nel loro mondo, sarò più accorto di fronte all'annichilimento della loro esistenza, forse semplificherò ancora di più il mio linguaggio...»
«Ecco dove t'illudi! Essi non hanno una lingua che tu possa imparare! L'unica comunicazione possibile potresti attuarla degenerando al loro livello, e saresti già annullato al punto di non aver più né possibilità né desiderio di alcuna comunicazione! Saresti già morto: tu, la tua identità, la tua anima.»
«Questa è una stupida follia!», gridai, «è un modo disgustoso di ritrarsi, di rinunciare alla lotta necessaria a rendere più giusta, o almeno accettabile, questa società degradata oltre ogni limite che la ragione riesca ad immaginare. Accetto di assumermi le colpe che ogni europeo ha il dovere di riconoscere per le condizioni di povertà del terzo mondo, ma non accetto, non posso accettare questo vostro modo di sfuggire al dovere universale che è riconoscere a tutti il diritto alla vita e alla felicità!»
«Non puoi comunicare con lei!», urlò allora fissandomi negli occhi, senza più nulla di quella pacata gentilezza che aveva mostrato fino ad allora.
«Perché?», chiesi ancora io, testardo.
«Semplicemente perché questi esseri non hanno neppure una lingua con la quale comunicare fra loro!»
«Questo non è possibile! Nessuno è privo di parola, neppure un muto!», ribadii in modo quasi disperato.
«Lei sì! Tutti quegli esseri là sotto sono nati in una condizione estrema, causata dall'errore, e non hanno mai articolato parola: solo mugolii o gemiti; raramente grida di dolore, ma non parole!»
«Mi rifiuto di credere a questo!», gli urlai in faccia, «Parleranno un dialetto che tu non conosci, sarà una delle tante lingue di questo tuo paese troppo grande, troppo diviso, troppo povero!»
«No: è solo che nessuno può scegliere dove nascere, e se nasci su queste strade, sei nato per sbaglio. L'unica coscienza che ti è data è quella della fame e del sonno: loro non s'accorgono di crescere, d'invecchiare... muoiono, in genere, non oltre i vent'anni d'età, ma fin dalla nascita sono solo dei cadaveri viventi. Sono larve, esseri senz'anima, errori che continuano a riprodursi da soli, senza sapere perché; noi non possiamo far altro che conservarli in vita, ovvero non ucciderli, solo perché sono la prova visibile dei nostri errori, dei vostri errori! E perché forse rinasceranno col dono di un'anima anche loro...»
«Quando ti ho visto, credevo di essere entrato nella casa di un uomo di cultura, di un uomo saggio», gli dissi con durezza, «ma vedo che sono ospite di un rappresentante della peggior ignoranza dei nostri tempi... voglio andarmene, e subito!»
«Aspetta!», mi fermò calmando il suo tono, cercando di cambiare il modo del nostro dialogo; «Non è così. Io sono stato un professore di letteratura inglese, sono un marxista convinto e attivo, non un fanatico mistico o un razzista intollerante. Tu mi crederai, quando mi avrai dato la possibilità di dimostrarti ciò che ti ho detto...»
Accettai di seguirlo.
Lui mi condusse per l'inferno, mostrandomi delle stanze vuote e lugubri, dove gente poverissima faceva la coda per comprarsi con una miseria dell'alcool quasi velenoso, col quale inebriarsi, dimenticare, morire.
Mi portò a vedere da vicino degli ampi spazi vuoti fra le case, dove la gente gettava i rifiuti, e bambini, cani, uomini, donne, corvi e uccelli orribili stazionavano raccogliendo orrori, liquami, viscidume di morte, e lo portavano alla bocca, stanca, rinsecchita, immonda.
Mi fece camminare fra la lordura, mi guidò fino a un parapetto, alto sulle rive del fiume; là sotto, distante, un ininterrotto cumulo di corpi, vivi o morti, poco importava: lì strisciavano, avvicinando l'acqua, anche solo coll'allungare un braccio, un lento tendere il dito. Più in là, sulla riva, c'era un edificio senza finestre, dal tetto crollato; non c'era vegetazione lì intorno, solo corpi e stracci, d'un colore di terra e desolazione. Il fiume portava, pacifico, rametti e rifiuti; dall'alto di quel parapetto, una donna scaricava il contenuto di un sacco, giù, sui corpi che si animavano appena.
La mia guida si rivolse a me, e mi recitò questi versi di Rabindranath Tagore:
«Dolce è il mondo, dolce è la sua polvere»; ripeté questi versi su una cantilena cullante come una ninnananna, nella sua lingua dolce di piogge interminabili e di verde sontuoso, che s'innalza al sole potente, come una preghiera, come un inno di ringraziamento.

«"Dolce è il mondo, dolce è la sua polvere",
questo grande inno intono nel mio cuore.
Esso dà senso alla mia vita.
Giorno dopo giorno gemme vitali come un dono vengono a me,
- la loro, è bellezza che non si può offuscare.
È al confine della morte, questo cantico:
"Dolce è il mondo, dolce è la sua polvere",
è un eco nel cuore della gioia.
Quando la terra mi toccherà per l'ultima volta,
allora io proclamerò:
"Il segno della vittoria è sulla mia fronte, scritto nella polvere!"
Dietro il
Maya del male,
là ho visto la luce dell'Eterno.
La bellezza della verità ha preso forma nella polvere della terra;
poiché ho visto questo, io acclamo la polvere.
»

Quello che io vedevo da lassù era la sua prova: esseri umani che nascevano, crescevano nel latte e nel sangue di madri già morenti, morivano e ancora tornavano a nascere da madri già morte, già morti essi stessi, ciclo impazzito della natura, indifferente come l'acqua del fiume che scorre, come la vita, come la morte lì intorno.
Camminammo a lungo, oltre il vecchio forno crematorio abbandonato in riva al fiume, fino alla fine della città, fra baracche di legno e latta, fango scuro e fumo acre.
Uomini nudi, dallo sguardo impaurito, fisso in un ghigno terribile, pulivano ossa e teschi, ammucchiandoli in ordine; altri bollivano cadaveri in giganteschi calderoni, al fuoco di plastiche e gomme bruciate. Ovunque una spessa coltre nera, e quei corpi spezzati, disciolti, quel liquido rigettato in rigagnoli raccapriccianti di filamenti biancastri, di gelatine miste a fango.
Lì, in quel luogo da cui Dio era fuggito, lui mi disse:
«Io sono nell'Abhaya, la paura non abita più la mia mente: qui io vengo ogni giorno, qui ho ricevuto il dono dell'Abhaya
Mi feci forza per chiedergli di spiegarmi ciò che vedevo.
«Abhaya è lo stato dello spirito nel quale non si ha più paura. Solo in quello stato ti è possibile guardare, vedere e riconoscere. Al di là del velo di Maya, dell'illusione, tu vedi che ogni differenza è abolita. Ma questo luogo in cui siamo è il confine estremo del mondo: il bordo sottile che ci separa dal vuoto, dal nulla, dalla fine dell'universo.
Queste ossa pulite andranno vendute alle tue, alle nostre università, saranno nelle aule di studio, nelle bacheche delle scuole di medicina: destinati alla cultura e alla conoscenza. Sono esseri che non hanno potuto liberare la loro anima nelle ceneri e nel fiume, catturati in quest'ultima trappola. Prima, dall'alto, tu guardavi imbambolato il vecchio forno crematorio, abbandonato da anni. Lì intorno, l'unico barlume di coscienza che abita quei disgraziati, li tiene da decenni ormai incollati a una speranza già scomparsa e dimenticata: la speranza di non morire e marcire fra i vermi, ma di venir bruciati in quel forno freddo; così nascono, crescono e muoiono lì intorno. Quale lingua potrebbe raccontare o esprimere il senso della loro esistenza?»
Questa fu la sua lezione. Non seppi mai il suo nome, né lo rividi più. Quei giorni che passai ancora a Calcutta furono giorni terribili, in cui cercavo di scoprire una verità diversa, ma né quella ragazza, né una nozione nuova su ciò che avevo guardato e visto, giunsero mai a risollevarmi.
Quello era un luogo dove uomini e donne potevano crescere e vivere senza articolare la loro esistenza in un tempo e in uno spazio: uomini senza la parola, esseri inesistenti, fenomeni irrazionali espressi nella natura.»
«Perché ci hai raccontato questa storia terribile, Claudio?», domandò Christiane.
«Perché il nostro stato di Abhaya è fatto di parole, e io volevo meditare sul senso di questo nostro privilegio, prima di pronunciare ancora una volta un nome: quello di Auschwitz...»
Il Generale ebbe un sussulto. Joseph, con gentilezza e attenzione, gli spiegò del mio violoncello, guardandomi fissamente, cercando la mia approvazione. Informato grossolanamente della storia del violoncello, Paul mi chiese ancora:
«Ma cosa c'entra, cosa deve significare quella storia di Calcutta?»
«Deve insegnare qualcosa sui limiti della parola, Paul.», risposi.
«Amici,», continuò Paul, «la parola è il dono più complesso e più pesante che Dio ci ha dato, e per questo essa ha il dovere di portare la verità: quando nasconde l'inganno, il suo potere è tremendo. Non riesco a figurarmi quest'umanità che si riproduce in forma umana, a immagine e somiglianza di Dio, mutilata di quest'organismo vitale per l'anima, che è la parola; non riesco ad accettare l'idea che possa esistere. Tuttavia, il mondo è spesso mostruoso al punto di essere incredibile, di umiliare la nostra intelligenza e la nostra coscienza di uomini... pensate a Babele!...
Questa storia va al di là della mia capacità di credere a un fatto dato per reale, ma anche il miracolo esiste in questa stessa condizione. Auschwitz, al contrario, era un fatto ben concreto e reale, mostruosamente intrecciato nei labirinti della ragione, fino a renderla, appunto, mostruosa, ma nutrita di razionalità, perversa razionalità!»
«Paul,» risposi, «tu hai una fiducia così illimitata nella parola, nel linguaggio della ragione, in una verità che può essere trasportata, veicolata attraverso la parola, che finisci col non accorgerti di come sta cambiando il mondo intorno a te; di come tutti, nostro malgrado, doniamo un contributo alla nuova Babele!»
«Spiegami di questo "contributo", allora!»
«Tutti noi abbiamo sempre maggior bisogno di visibilità, per esistere; non è forse questa la necessità che spinse a costruire la prima torre di Babele? Noi continuiamo ad allargare il nostro spazio vitale e le nostre esigenze di conoscenza; non è quel che avveniva costruendo la torre? Dall'alto di quella cima ancora incompiuta il mondo appariva come una grande mappa delle cose in esso contenute: cose che si potevano combinare, ibridare, congiungere, e cose che erano destinate a scomparire senza lasciar traccia, o ad essere modificate, rimodellate, formate a nuovi destini. Non è così che ci mostrano il mondo i nostri mass media? Non è così che l'ammasso delle nostre culture, in un progresso della "globalizzazione", muoiono o si modificano, perdendo memoria della loro complessità, riducendosi a formule chiuse dentro al significato che ci rimane possibile attribuirgli? Dunque ecco che Dio non deve neppure più "scendere" a mettere in lutto le mura: esse crollano già da sole, sotto la spinta del desiderio feroce di comunicare la propria verità, attraverso parole che sono i mattoni stessi di quella torre! Dove cerco la verità, Paul? Quale autorità scelgo per riceverla? Chi sceglie per me l'autorevole voce che me la consegna?»
«Questa è la visione di un'anarchia! Questa è la condizione in cui si viene trascinati dalla barbarie! La verità ci è stata portata e donata, Claudio! Il Cristo è stato inviato per questo!»
«E io dovrò ancora convertire o uccidere il barbaro mussulmano, o ebreo, o indù, o animista, per guadagnarmi quella certezza di avere la verità a mia disposizione, per mettere in ordine il mondo? Tu credi veramente che con le parole riusciremo a metterci tutti d'accordo pacificamente, da persone civili? E dove li metti i segreti militari? Nelle mani del Cristo?»
«Sei blasfemo!», gridò ancora Paul.
«No! Perdo più o meno un'ora al giorno a "navigare nell'oceano di Internet", e in quell'ora penso a quale mostruosa illusione di sapienza sta nascendo nel mondo! Vedo il potere inarrestabile di questa macchina della coscienza, e non ho risposte che al di là delle parole, là dove io sono un'isola nel nulla, di fronte alla morte che lancia il suo sguardo nel buio assoluto, nel vuoto. Nessuna parola è libera nel suo fluttuare; ogni parola è segno di un potere: quello che la connette ad altre, in reti che modellano e stabiliscono verità come codici d'ingresso ad altre reti connesse e compatibili, ma nulla che un uomo possa comprendere o controllare; e non è certo opera di Dio!»
«Esiste il rigore della verità storica!», tornò a gridare Paul, che sembrava sfuggire i nostri sguardi fissando ossessivamente il cielo fuori dalla finestra.
«La storia è fatta di informazioni! Non di intuizioni! E nelle informazioni c'è sempre una mancanza, un buco nero, un'assenza che sposta la nostra conoscenza, e la nostra sapienza, in un luogo terribilmente prossimo all'irrazionale, alla follia. La nostra paura, a quel punto, sebbene nascosta nel profondo della nostra coscienza, è già intollerabile, e noi cerchiamo rifugio in un cantuccio piccolo piccolo, ossia in quella cosa che chiamiamo "la Ragione"! Poi, quando quella paura, pur restando invisibile, cresce ancora di più, allora chiediamo l'aiuto dell'irrazionale che ci pare essere il più accettabile per le caratteristiche della nostra civiltà e cultura: la musica, o Dio.
E non mi chiamare blasfemo! Io trattengo me stesso a un passo prima dall'usare tutte queste cose per far tacere o nascondere meglio la mia paura! Di vuoto in vuoto, di assenza in assenza, Auschwitz ormai non è più un luogo definibile in confini, spazi, tempi: questa è la condizione dalla quale può emergere o la sua verità ineffabile, o il suo degenerare a oggetto d'inganno e di mostruosa confusione di linguaggi e percezioni; Auschwitz sta diventando solo un fenomeno linguistico: ciò che importa è il come la gente reagisce a quel nome, e il trattenerlo appena un passo prima dal suo diventare odioso, o noioso, o ancor peggio irritante. Quanto al suo significare, quello è un fenomeno sempre meno interessante, perché la gente non si interroga più in maniera sufficientemente complessa su un nome o su un fatto: semplicemente si scontra con ciò che quel nome o quella parola riescono a portargli davanti agli occhi. Nel nostro mondo stiamo ricostruendo Babele!»
«Non è vero! Stiamo soprattutto abbattendo le mura che dividono i popoli e le culture!»
«Ah, Paul! Che sciocca illusione! Babele è un nome e un segno! Bavel deriva dall'ebraico balal, confondere; Dio punisce l'arroganza degli uomini confondendo le loro coscienze, rendendo loro impossibile ogni comunicazione; ma accanto alla punizione divina del confondere i linguaggi c'è proprio il mettere a terra le loro mura, ossia il metterle in lutto, perché fra i precetti del lutto vi è quello di sedere in terra; ora 'lutto' si dice 'avél, in ebraico, e come bavel si scrive con tre sole lettere, e la differenza fra le due parole finisce coll'essere solo in quell'iniziale: Beth, diventando un'Aleph -siccome le lettere ebraiche sono anche dei numeri- è un due che diventa un uno, una molteplicità che diventa univocità, un dualismo che si cambia in monismo.
"Il Signore prende il regolo", dice Isaia, "e mette in lutto le mura". Ma quelle mura sono la sola cosa che noi, nella nostra storia, siamo riusciti a costruire: sono la prova evidente, visibile, tangibile dei nostri progressi! Sono "le differenze" fra i popoli! Quelle mura sono la scienza, che si finge umile e rispettosa, ma che finisce poi col compiere i suoi passi più determinanti nella vanità e nell'arroganza, calpestando il mondo, Dio, la natura e i suoi misteri!»
«...Così si può solo finire nella follia. Smettiamola di gettare parole nel caos! Tutto è già stato detto: noi dobbiamo solo umiliarci di fronte a Dio, pregare nel silenzio, chiedere il suo perdono e accogliere la sua verità!»
«Generale! non tutti siamo disposti ad accogliere le verità assai ambigue del cristianesimo...», commentò Joseph, con freddezza.
«Dobbiamo pentirci e convertirci tutti, o non ci sarà alcuna speranza per il mondo!», quasi gridò Paul, perdendo il controllo del suo tono di voce, e fu a quel punto che Christiane intervenne, duramente: «Basta, smettiamola davvero! Non esiste alcun modo di far comunicare i linguaggi che abbiamo messo insieme in questa discussione!»
Ci fu un lungo silenzio, poi Christiane continuò: «È vero quel che afferma Claudio, quando dice che la parola è il fallimento di una comunicazione. Se un indiano, per conoscere l'intuizione di Dante, o... che ne so, di Kant, deve leggersi il riassunto in inglese offerto da qualche "sito Internet" o da qualche edizione popolare regalata alla sua biblioteca scolastica da occidentali di buon cuore, noi non avremo una circolazione delle culture, ma una mostruosa riduzione del sapere a nozioni sterili e destinate a consumarsi e morire. Pensate quanto si potrà commuovere un bengalese che ha fatto qualche passeggiata in riva al suo fiume, a Calcutta, leggendo in Internet, magari corredato di fotografie e filmati, la storia di Auschwitz. Pretenderà giustamente che foto, film e narrazione dell'inferno di Calcutta siano messe sotto gli occhi di coloro che devono essere riconosciuti responsabili di quella situazione mostruosa; chi deciderà in merito? Chi giudicherà le colpevolezze? L'indiano o l'inglese? Chi sarà il più forte, a "parole"?»
«Generale,», proseguì Joseph, «chi dà ordini a un reggimento di soldati, a quale autorità fa riferimento? A quella di Dio, forse?»
«Ai limiti della sua coscienza umana...», rispose Paul, abbassando gli occhi.
«Questa non è la risposta che mi aspettavo da un alto ufficiale dell'esercito francese!», commentò Joseph.
«Abbiate rispetto...» disse Paul con un filo di voce, con lo sguardo perso nel vuoto.
«Gli esperimenti atomici a Mururoa: chi ne è il responsabile? Solo qualche ufficiale e non tutti? Le ragioni dell'esercito e dello stato francese sono superiori a quelle dell'umanità presente e futura su questa terra?»
«Fermati, Joseph!» gli imposi. «Restiamo in luoghi di cui si possa parlare: Mururoa è troppo distante, anche se non è più "d'attualità", nel senso che non convinceresti facilmente il direttore di un quotidiano a farti scrivere di quello per i suoi lettori; Auschwitz è molto più vicina. Curioso paradosso, non è vero? Ma è perché Mururoa fluttua fra le varie e diverse verità necessarie al presente, mentre Auschwitz si fissa su verità stabili, o stabilite al di fuori di un'azione nella contemporaneità; dunque vedete bene: Auschwitz, più che un mito, è una metafora, anche se siete coi piedi poggiati sui resti dei forni crematori di quella precisa località geografica, anche se avete in mano il libro che ve ne racconta i fatti storici, anche se vi proiettano davanti agli occhi i filmati delle testimonianze più tragiche degli ultimi sopravvissuti viventi.
Tutto sta dietro al velo della rappresentazione, nella lingua confusa della ragione storica e della poetica di quel luogo e di quel nome. "Ricordare non basta. Bisogna saper dimenticare"... l'ha detto Rilke, e certo non si riferiva ad Auschwitz, né a Sobibor, né a Treblinka, né a tutti i nomi propri di località e di vittime e di carnefici... ma deve farci pensare comunque... testimone e martire, per quel che ricordo, in greco sono la stessa parola...»
«Il tuo violoncello, dunque, rappresenta un testimone...» disse Paul lentamente, con profonda commozione, fissando i miei occhi.
«No,» gli risposi, «quello è solo un pezzo di legno.»
«...Come Pinocchio...», commentò ancora Joseph.

 

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