Papà mi apparve nella cornice di luce grigiastra di una grande finestra, davanti alle prospettive squallide dei palazzi anni settanta della periferia di Torino, mentre sembrava guardare al di là di quei quattro isolati che lo separavano dalla sua casa. Mia madre mi spinse delicatamente in quella stanza e ci lasciò soli. Era un sacco flaccido di carni, svuotato; gli occhi rivelavano quei suoi interni liquefatti, e io guardavo le sue mani, che potevano solo più sfiorare le cose, la fine delle cose.
Non parlava quasi più, la bocca contratta in un sorriso asimmetrico; mi chiedeva una sigaretta per andare a fumare sul balconcino, già troppo lontano per le sue gambe. Chiedeva di tornare a casa, perché non s'era accorto di quando ne era uscito. Il cancro era al pancreas, senza speranza. Credeva continuamente di dover far pipì e allungava la mano per farsi portare al gabinetto; lo portavo come in un pellegrinaggio doloroso a quel rito di sostare lunghissimi minuti davanti all'orinatoio, inutilmente, dopo di che era convinto di essersi liberato, e si tornava a letto guariti.
Stava in una stanza doppia; c'era un vecchio, nel letto a fianco.
Le ore passavano lentissime, ed ero incapace di distrarmi leggendo i libri che avevo portato con me; mio padre aveva settantaquattro anni: quelli che erano passati dall'inizio del secolo alla mia nascita, pensavo nella girandola di pensieri vuoti che mi occupavano la mente in quell'attesa interminabile.
Mia madre venne a darmi il cambio per la notte; io avevo fatto già tutta quella precedente, poi ero rimasto addormentato fino a metà pomeriggio, per tornare all'ospedale subito dopo. Le dissi che a me non creava problemi star sveglio di notte: ero abituato fin da piccolo; era meglio per lei andare a dormire e darmi il cambio al mattino.
Quella notte era infinita: la percorrevo nella mente come l'ossessione inebriata di un Basso Ostinato, con l'incedere grave della Sarabanda, o del Passagallo, con l'alternarsi incrociato del ritmo ternario e binario, con l'incedere inesorabile delle sue quattro note discendenti.
Ciclo senz'ordine di modulazioni, aporie nel cadere nel sonno, e poi riemergere, riprendere la nota appena prima dell'accento metrico, sollevarsi, tendersi, abbandonarsi subito all'inerzia, in quel moto solenne, trascinante, quasi di vertigine in vertigine ritrovare il riposo, sicuri di riaffiorare poi ancora alla coscienza.
Poi ecco, d'improvviso, l'inganno ottico: i fianchi sinuosi, lisci, bellissimi, di una lunga, affusolata gamba di donna; la pelle, chiara, sensuale, e il gluteo appena coperto dal panneggio; con l'ondulato andamento delle linee, lo scorrere, lieve, del gesto erotico dello sguardo, e il desiderio acceso, di lei, del suo torso; il salire, per quel tenero canale, su per la schiena, verso la sommità; lo slancio della spalla, la fragilità del collo; il dare, il baciare, soffiare l'alito d'amore fra i capelli soffici, e tornare, dormire, morire, risvegliarsi al suo fianco e sorridere, o piangere; e stendersi, abbandonarsi alla terra...
Torna la coscienza... l'orrore!
Pazzo, incosciente! I tuoi occhi scrutano la vergogna di un vecchio morente! È l'agonia del soffocamento che l'ha fatto spogliare dell'impaccio delle mutande, del lenzuolo! Non lo senti il rantolo disperato? Il grido soffocato nelle superfici del suo volto?
Basta... è silenzio... è morto; le suore, frusciando nei loro abiti, lo portano via.
Scompare, evapora, si asciuga, si dissolve; resta solo il suo calco effimero, nel materasso, lì, vicino alla finestra chiusa, nel buio della notte. Resta solo il sonno, pesante sugli occhi.
Mio padre è tranquillo, ora: dorme sereno. Mi distraggo, e lui cade dal letto.
Cercava di scendere, di uscire; doveva far pipì.
Dio, quanto pesava! Non credevo di riuscire a rimetterlo coricato.
Mi dispongo a croce, le mie gambe sotto le sue, per raccogliere la sua discesa, accorgermene, semmai non ricominciasse più a dormire profondamente. Silenzioso, il sonno torna a calare su di me, nella sicurezza affettuosa di quella nuova posizione.
E una mano gentile viene a carezzarmi la fronte: è lieve, fresca, serena.
La guardo allontanarsi; è già giorno: intorno c'è la luce soffusa del mattino; la traccia di quelle dita sulla mia pelle è dolce e persistente, sembra continuare a muoversi verso le sopracciglia, gli occhi, e chiuderli con grazia, con riconoscenza.
...No! Io sto dormendo! È ancora notte! È ancora buio! Mio padre è lì che rantola!
È quello il rumore dell'ultima aria del suo respiro, che esce lentamente, facendosi strada fra le cartilagini, le mucose rilasciate, lo sgonfiamento ultimo di quella tragica cornamusa abbandonata.

 


 

Per continuare clicca l'immagine qua sopra.