-IX-

 

   Quanto poco tempo aveva preteso per sé, povero papà, per farsi perdonare, per redimersi dai peccati. La benedizione di un padre al figlio era avvenuta, e un figlio aveva benedetto suo padre, col perdono.
Mentre il suo corpo giaceva nello stanzone dei morti, coperto dal suo lenzuolo bianco, io attendevo l'arrivo di mia madre, e ricordavo quando un mattino, nella nostra casa di vacanze in montagna io, adolescente inquieto che passava le notti sveglio a leggere o a dipingere, dormivo ancora nel mio letto a fianco del loro. Papà parlava a mia madre in cucina, stando in piedi davanti alla porta di quella stanza, e certo mi guardava con quel suo sguardo che io detestavo, di derisione, di distacco. Parlava della mia sessualità, diceva cose terribili sulla probabilità evidente che io diventassi omosessuale, che finissi col "prenderlo nel culo". Era la sua ossessione, fin da quando era studente universitario; io lo capivo, lo tolleravo. Era ossessionato dal dover dimostrare la sua perfetta efficienza sessuale, come tutti i ragazzi dell'era fascista.
Io la conoscevo bene, quell'ossessione: era rimasta spolverata anche sopra la vita di tantissimi miei compagni di scuola, figli di gente più povera e più ignorante di noi; in loro continuava quella paura di non essere all'altezza, di dover sempre riuscire a soddisfare la donna, con la grandezza del pene, con la durata dell'atto sessuale. Dicevano: «non vorrai mica andare con quella lì? Quella la dà a tutti: non vorrai mica pisciare dove hanno già pisciato tutti gli altri?». Quell'idea del pisciare mi era insopportabile, e mio padre non conosceva altra figura per parlarmi del sesso. Questo ci aveva separati: nient'altro.
Quando mia madre arrivò restammo lungamente in silenzio, e dovetti recuperarle il suo anello di matrimonio, perché era rimasto là: stretto sull'anulare già sbiancato, irrigidito, del corpo di mio padre.
Poi preparammo i funerali.
Nell'angolo del salotto della loro casa, dietro al mio vecchio pianoforte a mezza coda, era là, in piedi ad attendermi, la grande cassa nera del violoncello di Ahasvero.
Io accompagnai, muto, quell'interminabile cerimonia, fino alla grande chiesa settecentesca del paese nell'astigiano dove mio padre aveva sepolto i suoi genitori vicino ai ricordi della sua infanzia, nella rarefatta ingenuità della vita di campagna.
C'era una folla accalcata per porgere omaggio a quell'uomo, che nella sua modestia aveva sempre avvicinato tutti, bene o male, alla sua figura di contadino colto, facendo crescere i figli del popolo nell'orto ben curato della sua cultura classica, nella sua perfetta sapienza del latino e del greco, elargendo la sua lezione con orgoglio, ma in atto rispettoso, sempre severo con se stesso.
In quella chiesa straripante, in quel grande teatro barocco, io alzai l'arco a fermare il tempo: gettai lo sguardo all'officiante, in attesa del mio momento rituale, e aggredii le corde nell'arpeggio solenne del primo Preludio di Bach per violoncello solo, come un ciclopico accordo di suoni, di gemiti raccolti e sollevati al cielo, spinti dal basso nobile della terza corda, ad ondeggiare in alto, verso il vibrare della luce.
Eccole: le due voci di quel violoncello stavano tutt'e due espandendosi, ognuna nelle sue direzioni, verso il fuori e verso il dentro, mentre il mio plesso solare spingeva i respiri, luminoso, irraggiante, e la mia testa incalzava le frasi e incitava le spalle in una rotazione continua, da sinistra a destra, senza più fermarsi, solo in sospensioni, in gesti dilatati, come a tendere la corda dell'arco per caricare la freccia, scoccarla, lasciarla volare verso quel centro terreno, quel bersaglio ai miei piedi: Malkhut! La Rivelazione, l'accordo del razionale e dell'irrazionale su questa terra, in questo nostro mondo!
Il violoncello cantava nel teatro della vita, riparava la frattura della morte, l'errore del demiurgo; ogni nota girava nel vortice dei suoni, nelle loro infinite direzioni; ascolta Ahasvero: c'ero riuscito! Ognuno in quel luogo aveva espiato i suoi peccati, era redento!

 


 

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