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Al telefono di Ginevra non rispondeva mai nessuno, e io già da due settimane tentavo di trovar qualcuno a quel numero, e provavo a far suonare quel violoncello. Era frustrante: tanta bellezza produceva solo un suono sordo, chiuso, soffocato dentro allo spazio della sua cassa.
Mi sembrava talmente incredibile che mi ostinavo a provare diverse maniere di far poggiare i piedini del ponticello, poi spostavo di pochi decimi di millimetro l'anima forse troppo sottile, cercavo di farla combaciare meglio sul fondo, o sotto la superficie della tavola armonica, chiedendomi in continuazione se la ragione di quel difetto non fosse l'eccesiva compressione causata dalla tensione delle corde, oppure solo un troppo prolungato abbandono al silenzio, all'assenza di esercizio al vibrare, al rispondere alle sollecitazioni di un violoncellista esperto.
Avevo sperato che si liberasse suonando, che da un momento all'altro, come per magia, cominciasse ad espandere la sua voce, riempiendo la stanza di un miracolo di risonanze, dai colori rarissimi e superbi; avevo persino sognato di assistere a quel momento, con l'incontenibile gioia di quel suono ritrovato che risaliva in brividi, su per la mia spina dorsale; ma al mio risveglio tutto era sempre uguale a prima: a quell'assurda, inspiegabile afonia.
Divenne necessario portarlo da un esperto, se non altro per potermi liberare dall'ossessione che mi era cresciuta dentro: temevo di esser diventato incapace di risolvere quel problema intollerabile, come avessi inconsciamente generato nel mio cervello un corto circuito mentale, continuando così a ripetermi come uno stupido, intorno allo stesso, invisibile errore.
Presi appuntamento con un famoso liutaio di Ginevra. Speravo di capitare là per incontrarmi pure con quell'uomo che ormai avevo preso l'abitudine di chiamare Ahasvero, come se potergli telefonare dalla stessa città potesse davvero offrirmi più occasioni e maggiori possibilità di rintracciarlo.
Un amico mi prestò la sua macchina, con mille raccomandazioni. L'appuntamento era per le tre del pomeriggio; partii quindi il mattino presto, guidando prudentemente, perché non potevo superare i settanta chilometri orari: la macchina tremava tutta a velocità ben inferiori. Quel viaggio così lento non finiva mai, e io mi ritrovai finalmente a riflettere su cose che d'un tratto mi apparvero ovvie, anche se non le avevo affatto considerate fino a quel momento.
Prima pensai che se il violoncello che portavo con me era veramente un Guadagnini, allora c'era qualcosa di assurdo nell'avermelo offerto e consegnato con tanta semplicità: anche se sicuramente era molto deprezzato dal numero eccessivo di fratture, quello strumento doveva valere comunque una fortuna, e io non avevo né un'assicurazione né un documento che chiarisse le mie responsabilità in caso di furto o incidente. E poi, perché darlo a me? Non ero famoso, né avevo suonato in modo così eccezionale, quell'unica sera in cui Ahasvero mi aveva sentito, tanto da entusiasmarsi al punto di darmi un violoncello...

 

 

 


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