..."Si disse, che intanto pianse, e che vedutala Bacco, n'ebbe tanta pietade, e tanto zelo, che dal funesto scoglio, seco la trasse, in su le vie del Cielo..."»
«...Estér tornava ad essere ebrea, ed eletta, proprio nella necessità del vero, dell'autentico recitare la preghiera alla Madonna, in quell'antica basilica dalle luci orientali, nell'ebbrezza dell'oro e della mistica risonanza dei suoi echi... in un Sabato oltre il tempo, al di là della divisione del tempo e del senso... Noi cammineremo su queste strade, Claudio?»
Così Hannah entrava, pian piano, nel mondo del mio destino. Così la guidavo dentro le mie stanze già segnate da un codice inafferrabile e incancellabile, che mi legava alla terra, e già mi negava il volo.

 

-XXXV-

 

Hannah tornò a Copenaghen, il quattro dicembre, e io tornai a Torino, sapendo bene cosa vi avrei trovato, ma anche certo che lei sarebbe tornata molto presto nel mio abbraccio, appena capito dove andare, cosa fare, dove abitare.
Lasciai definitivamente Giulia in un inferno di urli e accuse, di pianti feroci e di bruciante senso di colpa. Cancellai tutti i rapporti col mio agente, deciso ad occuparmi da solo dei contatti e contratti per i miei concerti. Organizzai il mio lavoro per l'intero anno, passai giorni fra banche e uffici e case di amici che mi ospitavano a dormire.
Mia madre preparò tutto: volle che io mi trasferissi nella casa di mio padre, che -diceva- era grande abbastanza per me, e troppo per lei. Si trasferì in due stanze più cucinino e bagno, un attico in centro, che aveva comprato pochi mesi prima; non voleva nulla di più, non voleva la spesa, la fatica di pulire, lo spazio inutile della vecchia casa, diceva. In realtà, cercava di fuggire i ricordi, sebbene li trascinasse con sé, perché volle portarsi in casa tutti i libri e le carte di mio padre, la sua scrivania, la sua poltrona preferita, persino il suo grande portacenere a piede; e mia madre non aveva mai fumato.
Io passai giorni ad organizzare la mia nuova, vecchia casa, e il giorno prima di Natale partii per gli altri concerti, gli ultimi della tournée che mi aveva portato a Vienna e Copenaghen. Mia madre mi disse che era triste non passare neppure quel Natale con me, come quando io ero piccolo e lei mi preparava l'albero; poi mi consegnò con un bacio in fronte e una scrollata di spalle, il grosso pacco regalo natalizio, da aprirsi il mattino del 25, che io andassi o no alla messa in chiesa.
Fui a Roma, per un concerto col programma di Venezia, il 23 sera e il 24 pomeriggio; la mattina del 25 aprii il pacco, nella mia stanza d'albergo, e vi trovai il computer portatile su cui ora sto battendo questa mia memoria: dentro al libro elettronico di mia madre.
Fu proprio quel mattino che cominciai a riversare qui dentro tutto quel che avevo già scritto, in tutti i dettagli, e continuai per tutto il giorno a caricare di lettere e segni la memoria di questo disco rigido.
Il 27 a Firenze, il 30 a Bologna, e il 31 a Copenaghen, da Hannah, per vivere con lei la notte di Capodanno del penultimo anno del nostro millennio. Copenaghen era splendente, e la mia gioia non aveva limiti. Il 6 di gennaio 1999 suonavo per pochi amici in una saletta del Conservatorio danese, e tutti mi portavano doni di speranza e serenità.
Hannah accettò di venire a Torino, almeno per un po' di tempo, e fu già alla fine di gennaio che decidemmo di sposarci a Venezia in giugno, ovunque poi ci venisse voglia di andare a vivere. Il 15 gennaio, con alcuni giorni di ritardo a causa del mio cambiamento d'indirizzo, ricevetti una lunga lettera di Ahasvero, che con la sua solita calligrafia un po' antiquata mi raccontava della sua salute, del suo prossimo trasferimento a Parigi, di alcune condizioni della sua "prigionia" che sembravano migliorare, di una sua imminente visita al caveau ginevrino, e una proposta strana, ma straordinaria:

«...non so se quest'idea la troverai troppo impegnativa, o difficile, ma credo che se l'accetterai ne ricaverai un premio straordinario d'umanità: sono in grado di farti organizzare una decina di concerti nelle carceri di Francia, per i detenuti.
Mi basta avere una tua proposta di programma, i tuoi documenti in fotocopia, e, naturalmente, il tuo consenso e accettazione della paga misera che ti si può corrispondere per questo lavoro.
Tuttavia, ai detenuti non si propone quasi nulla di utile, ma in quanto a musica la situazione è ai livelli più bassi: tutt'al più, quello che possono avere è un concerto di pessimo rock una volta ogni quattro o sei mesi.
Ora, tu potresti dirmi: ma cosa gli suono, visto che probabilmente non si tratta di gente colta e raffinata, habitués delle grandi o piccole sale da concerto?
Bene, permettimi di credere che tu abbia molto da dargli, e da raccontare, al riguardo di cosa la musica può trasmettere, e quanto la musica -o il suono del tuo violoncello- possa correggere gli errori del mondo.
Ti prego di credermi, (ahimè, ho esperienza in materia di carceri) c'è un mondo che ti attende, chiuso là dentro, e tu hai bisogno di dare: quanto più avrai dato, tanto più riceverai.
Pensaci a fondo, amico infinitamente caro, e scrivimi già a Parigi, da marzo in poi, all'indirizzo che segue:
Jean Sværhaus, 46, Rue de la Clé, 75005 Paris, France.
Prima di marzo da Haas, dove tu sai.
Sempre tuo più affezionato amico ebreo.»

 

La mia risposta è qui, dentro al computer:

Caro permutatore di lettere, amico fraterno,
felice di sapere della tua salute ritrovata, del tuo diventar parigino (attento però che a una certa età certe cose fanno più male che bene...), felicissimo di apprendere dell'allentamento dei lacci che ti legano, sospettoso che fra le cose che mi hai taciuto ci siano un po' di anni di galera, ti comunico però che se ci torni, mi troverai là a suonare, perché accetto con grande gioia la tua proposta: sono già alcuni anni che penso a "cosa della musica?" io vorrei portare nelle carceri, e poi rimando al domani...
Unisco a questa busta le fotocopie che mi hai chiesto, compresa quella che tu, nel tuo stile, hai dimenticato: un breve giro di telefonate (oltretutto a uffici giudiziari italiani, che, come sai, non brillano per efficienza!) mi ha permesso di scoprire che sarà certamente necessario anche quel foglio dichiarante l'assoluta pulizia della mia fedina penale, che così è incluso fra i documenti qui allegati.
Quanto al programma preciso che potrei suonare, per quello ho bisogno di tempo. Comunque ti propongo ciò che segue: un concerto a due violoncelli di musica del Barocco, con Vivaldi, che è facile da far capire ed è cantabile, ma anche con i nostri Lanzetti e Cervetto (se la musica di quest'ultimo non è troppo insignificante; attendo dalla Biblioteca di Londra alcuni microfilm) o qualcun altro di quell'epoca. Due violoncelli insieme fanno quanto un quartetto, hanno un repertorio immenso nel Sei-Settecento, e sono più pratici da portare che un pianoforte o un cembalo.
Quanto al periodo (che non mi hai chiesto!), non ho dubbi: seconda metà di agosto. D'un lato perché non ho un attimo di tempo libero prima e dopo quei quindici giorni lì, e dall'altro perché ho pure pensato che quei poveretti se ne stanno al fresco col caldo, e probabilmente in quel periodo non ci saranno neppure dei complessi rock che avranno voglia di rinunciare all'abbronzatura per dei delinquenti rinchiusi in prigione. Ecco fatto; ora organizza e non ti preoccupare dei soldi: anche quest'anno ne ho fatti abbastanza. A poposito: sai che il Barone ha voluto pagar lui tutte le spese del Music Verein? Dev'esser stata una bella montagna di scellini: meno male che non è caduta tutta sulla mia testa... certo che a lui non mancano, e poi è quel che si merita per la sua arroganza e vanità.
Io non ho dimenticato una sola parola dei nostri incontri: sono al mio violoncello cinque ore al giorno, cosciente del mio dovere; sappi che maturo la mia riconoscenza e preparo quotidianamente me stesso per rendermene degno.
Ma sono anche cambiate un sacco di cose per me! Io sono innamorato pazzo! e felice felice felice! Thrice happy Lover della più bella fra tutte le creature della terra! Un giorno la conoscerai! Ci sposeremo a giugno, a Venezia; tu dovrai essere là con noi: scrivitelo dove ti pare, sui polsini delle camicie, sulle mutande, sui calzini; non lo so, dove devi scrivertelo, ma se non ci sarai ti faccio fuori io, altro che i tuoi svizzeri! (e ora ho pure il tuo indirizzo... trema!)
Tuo forse un giorno correligionario felicemente convertito amico musico.
Ciao! Claudio.

 

Il tempo volò via veloce, in inverno e primavera, in un turbinìo di concerti, di contratti e programmi da discutere, di contatti necessari da prendere o coltivare, e le mie prime, e uniche, registrazioni discografici; le prime tre Sonate di Alfredo Piatti, l'integrale dei Trii con pianoforte e violino di due grandi compositori del Romanticismo danese, Niels Wilhelm Gade e Peter Arnold Heise, e una scelta di Sonate di Salvatore Lanzetti e del suo contemporaneo francese Jean Barrière, tutte incise con il Guadagnini, impazzendo in tutti e tre i dischi, io e i tecnici, per trovare un modo di rendere la somiglianza del suono registrato con la complessità di quello "dal vivo".
Hannah andava e tornava da Copenaghen, dove il padre stava meglio poi stava peggio, e dove sua madre non voleva esser lasciata sola (e io sapevo bene quanto fosse importante esser presenti alla morte del proprio padre...). Soffrivo per quella lontananza, ma lei doveva cercar di terminare il suo anno di Conservatorio e gli studi letterari nella sua città; non potevo pretendere nulla più di quei pochi giorni o momenti rubati ai nostri impegni.
E poi il matrimonio lo stavamo preparando in tutti i modi: lei aveva cominciato a chiedere tutti i documenti necessari, a prendere lezioni di italiano, e aveva fatto domanda per una borsa di studio per l'Italia.
Venne così la fine di maggio, e uno strano caldo intenso, soffocante.
Io ero partito per una tournée di quindici giorni, e alla mia partenza avevo invitato a cena mia madre, a un ristorante. Stava benissimo, anche se un po' triste e dimessa, come sempre. Mi diceva di passare tutte le ore del giorno e della sera a riordinare i libri e le carte di papà, e che c'erano troppe cose: chissà quando avrebbe finito.
In mezzo ai suoi scritti dei primi anni cinquanta, mi diceva, c'erano tantissime pagine fitte di parole, sulla sua esperienza nelle carceri. Le chiesi subito il perché, spiegandole che io mi ero impegnato per quella decina di concerti in Francia. Mi rispose immediatamente che mio padre non era mai stato arrestato, neppure durante la guerra, quando si arrestava tanta gente innocente; ma all'inizio della sua carriera d'insegnante, papà andava a dare lezioni di latino e greco, di italiano, e lettere, storia, geografia, insomma, tutto ciò di cui c'era bisogno e per cui lui era abilitato, nelle carceri di Torino, Asti, Cuneo e Alessandria, sottoponendosi alla tortura dei viaggi, durante i quali riempiva pagine e pagine di impressioni e meditazioni.
Le chiesi di metterle in ordine per me, che le avrei lette ben volentieri al mio prossimo ritorno, con un'intera settimana a disposizione per tentar di personalizzarmi l'appartamento ancora quasi vuoto, e occuparmi, magari, anche un po' di lei.
Invece arrivai a casa troppo affaticato, pieno di pensieri pesanti, su Auschwitz, sulla mia "missione", sul peso tragico del mio suono sul pubblico, ogni qual volta sfioravo appena il pensiero di quei morti.
Fu per questo che non cercai mia madre per tre giorni. Poi, nel pomeriggio del quarto, provai a telefonare, senza trovar nessuno; la sera riprovai ancora, fino a tardi, e infine mi misi a letto con una certa preoccupazione; eppure dormii benissimo. Solo il giorno dopo, nel pomeriggio, andai finalmente al suo appartamento.
Non veniva nessuno ad aprire.
La sua vicina di casa stava uscendo, e io le chiesi se sapeva qualcosa di mia madre; lei, con aria stupita, mi disse che non la vedeva da almeno una settimana, e che l'appartamento le sembrava vuoto; «Forse sua madre è via. Provi a sentire qualche parente, non so...»
«Sono io l'unico parente vivo, signora... lei non ha le chiavi della porta di mia madre?»
«No. Chiamo i pompieri...»
Mi gettai col naso sulla serratura, e sentii l'odore terribile della morte.

 

 


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