-XXI-

 

Tornai tardi all'hotel, come istupidito. Sul tavolo c'era un altro messaggio di Giulia, piuttosto tesa per il mio silenzio. Lo gettai nel cestino e mi misi a dormire ancora vestito: lo champagne, con il latte, mi percuoteva la testa.
Al mattino ripetei i miei esercizi al violoncello col mal di testa, e col libro che m'aveva dato Ahasvero sul leggio. Ci lessi che David Popper era nato nel ghetto di Praga: quello del Golem. Ecco cosa stavo creando col suono del mio violoncello: un servitore d'argilla, sul quale pronunciavo sillabe magiche, e scrivevo la parola "Eméth", verità, per renderlo vivo al mio servizio, al servizio del mio desiderio di difendermi dal potere negativo del mondo... d'un tratto ebbi l'impressione di suonare su un grande feto senza braccia, né gambe, né orecchi; ne fui terrorizzato.
Chiusi subito il libro, e mi ritrovai a guardare la foto dell'autore in quarta di copertina: un uomo anziano, ritratto con l'archetto e la mano sinistra tesi nell'istante prima d'iniziare un suono al violoncello; ogni parte del suo volto era concentrata nel massimo dell'interiorizzazione: gli occhi chiusi e le sopracciglia aggrottate, una profonda piega della bocca, abbassata fino a rendere una smorfia di estrema severità, quasi di dolore; tutto sembrava lì a mostrare la gravità del suo gesto.
Intorno al suo capo, nel color marrone della stampa, c'erano delle volute di fumo, o dei riflessi di fiamme d'un sabba infernale. C'era qualcosa di diabolico in tutta quell'immagine color terra umida o sangue raggrumato, opaco, in quel viso duro, tragico di ungherese, con un che di transilvano, più simile a un sacerdote di Satana che a un violoncellista. Mi sentivo un'altra volta sulla cima pericolosa di quel muro del cimitero di Torino, fra le schegge di vetro piantate nell'intonaco sabbioso, le vertigini, l'angoscia della notte, delle luci al neon, degli scherni dei miei amici, il raccapriccio dei tagli e il dolore dei tendini tesi a sorreggermi nel vuoto.
Chiamai Giulia, per ritrovare un po' di normalità, ma non c'era nessuno a casa. Uscii a passeggiare, in una Vienna grigia e fredda, che tornava ad essere un luogo d'incubo. Cercai di dominarmi e riprendere gli esercizi, questa volta con la musica del concerto davanti agli occhi, e riuscii a dimenticare tutto per tre ore. Poi venne il pomeriggio, a leggere sdraiato sul letto quella biografia, distaccandomi il più possibile dalle immagini che generava in me.
Lessi disordinatamente, saltando pagine o capitoli interi, suonando un po' il violoncello, e poi tornando a spizzichi sul libro, soffermandomi sulle fotografie sbiadite di musicisti noti e ignoti di quella fine Ottocento piena d'illusione di grandezza e potere sul mondo, sulla terra.
Vennero le sette della sera; uscii a comprare un dolce, e infine mi recai all'appuntamento con Ahasvero, col suo libro in tasca, non letto.
Lui era là, ad aprire la sua porta senza più metzuzah, gentile come sempre; come sempre nei pressi dei colossi inquietanti incorniciati nella sua finestra c'era un vuoto di suoni, uno spaventoso silenzio, e ancora io non ricordavo il suo volto.


 

 

 


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