-XXVII-

 

Mangiai a un "fast food" Mac Donald, con sottofondo di ritmi americani anni '90 e canzoni di Madonna. Mi sentivo a mio agio: tutto intorno era luminoso, colorato, liscio, pulito, rassicurante, solido, concreto, sano. E sapevo che non avrei retto un altro pasto fra i muri color ocra sbiadito e verdino grigiastro dell'appartamento di Neulinggasse quattro, e neppure in qualche vecchio ristorante puzzolente di fumo ristagnante e olio rancido. La modernità era leggerezza e respiro: il taxi che mi portava dal Barone era nuovissimo, e tolleravo di buon grado il non poterci fumare dentro, per godere così del buon profumo dei deodoranti floreali e della plastica nuova.
Alle tre meno cinque ero davanti al palazzo del mio nobile protettore. La mia era una missione, dovevo agire con diplomazia e saggezza; l'obiettivo era semplice: compiacerlo e ottenere il suo aiuto; comunicare attraverso i suoi spazi, assecondando la sua vanità, e approfittarne per emanare le voci sublimi del mio violoncello nelle direzioni della sua illimitata significanza storica, e del bisogno del mondo di verità purificate e assolute. Ciò che mi risultava difficile da immaginare era quale sarebbe stata la tattica da applicare per raggiungere quell'obiettivo... fra il dire e il fare, come dicevano sempre gli anziani, c'è di mezzo il mare, e quel Barone era un oceano, un abisso di personalità sovrapposte e di caratteri caotici, ambigui, cangianti.
Comunque entrai a tempo giusto, e raggiunsi nuovamente il suo rifugio dalla stupidità del mondo; la grande tela imbrattata di vernice rossa era sparita, il tempietto macabro era sulla scrivania, chiuso, l'inginocchiatoio sotto campana di vetro era finito su un piedistallo dorico in marmo rosa, vicino alla finestra; sulla poltrona da meditazione c'era un elegante signore anziano, distinto nei modi almeno quanto il maggiordomo del Barone. Quanto a lui, non era ancora arrivato, e la donna che credo fosse una sua segretaria, introdotta dal maggiordomo, mi introdusse al mio critico.
«Ah, bene! Sicché lei è il nostro nuovo solista del concerto del quindici novembre! Sono lietissimo! Il Barone ci concede un po' di intimità, mentre lo attendiamo. Ho sentito dire meraviglie di lei da molte personalità. So che lei possiede pure uno strumento eccezionale...»
«Questo soprattutto. Per il resto, sono molto lusingato, ma non riesco a convincermi di meritare veramente tanto entusiasmo... lei era qui l'altro ieri sera?»
«No, purtroppo; mi dicono che è stato un concerto indescrivibile...»
«Spero s'intenda in senso positivo... Eppure credo che il Barone non abbia particolarmente apprezzato la qualità della composizione che ho scelto: la seconda Sonata di Alfredo Piatti.»
«Alfredo Platti? Credo di conoscere solo un Giovanni Platti, compositore veneziano.»
«No, no, quello è un autore barocco. Il mio è morto nel 1901, e si chiamava Piatti. Fu amico di Mendelssohn, di Clara Schumann, di Boito, dei più grandi artisti romantici...»
«Ah, il violoncellista Piatti! Certamente. Molto bene... ma se il Barone non l'ha trovato interessante, certamente avrà le sue buone ragioni: il Barone è veramente un critico perfetto, ammirevole sotto tutti i profili, e favorito dal fatto di non dover esercitare la professione, come me, che invece devo dibattermi ogni giorno fra chi mi odia e chi mi adora... vede, a volte il dilettantismo offre vantaggi indiscutibili per chi lo esercita e per chi ne gode i frutti. E mi dica: qual è l'autore del suo magnifico violoncello?»
«Giovan Battista Guadagnini.»
«Gran strumenti! E di che anno?»
«Il quarantacinque.»
«Raro! Era molto giovane: a cosa somiglia? Forse alle linee del Guarnieri?»
«Decisamente: forte, slanciato e sonorissimo.»
«Certo! E da chi l'ha avuto?»
«...Un signore di nome Hans Haas.»
«Mai sentito. È viennese?»
«No, ...vive a Ginevra... ma mi parli di lei; lei è viennese?»
«Sì, ma di origine polacca. Ma forse il suo signor Haas è il collezionista che è pure proprietario del violino Guarnieri in prestito all'attuale spalla della nostra orchestra?»
«No, non credo. Ma mi dica, che cosa ha intenzione di scrivere, su di me?»
«Oh!... ragazzo mio, non le sembra prematuro?»
«Scusi, ma con quel che ha detto, lei ha generato in me l'impressione di saper già perfettamente cosa dire in merito alla mia esecuzione del concerto. Mi fa molto piacere che non sia così. Io suono in modo irruento, a volte, preoccupandomi più di tracciare grandi affreschi che di curare dettagli da miniaturista; questo infastidisce chi mi ascolta con la lente d'ingrandimento, perché così non s'accorge della mia ricerca sulla frase, sulla poetica della composizione, relativamente alle soluzioni espressive che si generano nell'esperienza del virtuoso strumentista. Questa, infatti, è anche la ragione del mio interesse e del mio studio sulle composizioni dei "minori", e dei virtuosi stessi, perché in quelle si riconoscono gli embrioni dei linguaggi poi usati dai più grandi poeti della musica. Sappia che ciò che le sto dicendo ha il solo scopo di indirizzare la sua attenzione nel modo più giusto, per giudicare il mio concerto, nulla più e nulla meno. Spero che lei avrà modo di ripetermi i complimenti che mi ha fatto, facendoli derivare interamente dall'intelligenza del suo ascolto.»
Gli sciorinai tutte queste parole così, senza perdere neppure il tempo di un respiro, pur di evitare il suo interesse per Hans... lui mi guardava da dietro la sua fastidiosa maschera sorridente; poi attese una frazione di secondo per concentrare su di sé la mia attenzione, e sibilò, da rettile qual era, un sinuoso inchino di parole: «È arrivato il Signor Barone...»
«Maestro carissimo, la prego, non si interrompa per me! Stavo ascoltando con ammirazione questa sua tenacia nel difendere le sue scelte! Queste sono cose che fanno sempre onore, vero, Georg?»
«Sono ammaliato da questo giovane, Barone carissimo. Ha spirito da combattente eroico! Spirito da gran solista per i romantici! Il suo Dvorak non potrà che essere eccitante!»
«Con lui sarà come ascoltarlo per la prima volta, Georg. È un genio!»
«Basta che lo spieghiate con molta chiarezza al direttore d'orchestra, visto che lui non è d'accordo con le vostre opinioni...», commentai a voce bassa.
«Di che si preoccupa? Lo annichilirà in concerto, come ha fatto col mio pianista! Georg, dovevi vederlo: se l'è mangiato con un solo gesto dell'archetto... così! come un affondo di spada! L'ha risucchiato dentro di sé e se l'è suonato per tutta la durata di quella noiosa composizione, un misto di Mendelssohn e Schumann, con un po' di Rossini e verdini qua e là! Il nostro amico Generalissimo ha visto Dio e ha ricevuto l'estasi con stimmate! Oggi è a letto tutto imbottito di antidolorifici per l'artrite!»
«Fantastico! Meno male che non c'ero, allora! Sai che soffro di artrite anch'io?»
«Basta basta, altrimenti il nostro giovane genio si convincerà di avere doti taumaturgiche al rovescio. Occupiamoci di lavoro, adesso. Georg, tu devi seguire per filo e per segno le indicazioni che il Maestro ti ha dettato mentre io stavo entrando: non puoi ascoltarlo con le stesse orecchie che usi per gli altri. Devi stabilire altri parametri e altri valori: grandezza, dilatazione, visibilità, tutte spostate in uno spazio nuovo; con l'idea, l'intuizione di una estetica neonata da far crescere, da tirar su; segui poi un percorso il più possibile essenziale, asciutto nella descrizione delle emozioni d'ascolto: proiettamelo piuttosto nella sfera intellettuale, ma proprio con le doti del grande visionario! È d'accordo, Maestro?»
«Certamente...»
«Georg, tu devi trattenere il più possibile quel tuo stile un po' troppo appassionato, quando scrivi di novità. Questo me lo devi introdurre quasi con gelo: si deve sentire che sei... come dire, profondamente bouleversé, non sfacciatamente entusiasta! L'entusiasmo lo conserviamo per i vecchi, non per i giovani! Vero Georg?»
«Ah, Barone, sei sempre peggio! Dovrei togliere anche l'entusiasmo ai miei anni afflitti dall'artrite?»
«Conservati l'entusiasmo per i tuoi divertimenti privati. Qui, se lo sprechi per un giovane così eccessivo, diventi credibile quanto un capo di Stato medio-orientale. Fammi la cortesia di sembrare moderno, asciutto e bouleversé. Poi vedrai che mi darai ragione.»
«Te la do già adesso. Se non piace al nostro direttore stabile, vuol dire che tutte le qualità tradizionali sono state capovolte, e quindi quel poveretto mi riconoscerà nei miei scritti solo se mi faccio percepire come bouleversé...»
«Simpatico Georg! Non trova, Maestro, che questo nostro vecchio Aristarco sia uno spirito veramente eletto? Suvvìa, faremo grandi cose, basta farle con sufficiente attenzione e prudenza; in questa impresa ci sono una o due cose un po' più problematiche che d'abitudine... l'intonazione un po' vagante, gli slanci un po' sguaiati, il gesto un po' esagerato... Ma andiamo per ordine: il nostro solista è piemontese; pochi musicisti interessanti, nel Piemonte, ma fior di narratori e soprattutto di intellettuali! Umberto Eco, Arpino, Bobbio, Pavese, Gozzano, Massimo d'Azeglio, Thesauro; poi un po' di mistero: Torino magica, la Sindone! Facciamo lì la nostra base: un violoncellista narratore, di profonda introspezione e altezza intellettuale e spirituale. Il Maestro è un erudito, infatti: c'è questo spessore nella sua lettura musicale. È una figura che riesce a concepire simultaneamente il futuro e il passato: è un bisogno rinnovato di musica, e nello stesso tempo l'impressione, l'intuizione, che nel passato la musica fosse proprio come ce la propone e ce la sa suonare lui.»
«Affascinante... una "sinestesia" vivente. Sai che mi entusiasma davvero? Sembra un nuovo Harnoncourt, ex violoncellista pure lui...»
«Sì, te l'avevo detto... Senti, e poi c'è il suo suono! È incredibile! Ha una forza, una potenza che... non so spiegare, ti scava fuori da te, di rovescia, ti... riesce a sopraffare qualsiasi barriera di pensieri annoiati, distacco, disinteresse; o magari di interessi rivolti altrove... insomma, ci credi solo se lo senti. Non ho idea di come diavolo si possa rendere quell'effetto in disco, ma dal vivo è superiore ad ogni immaginazione!»
«Infatti ha uno strumento importante: un Guadagnini, e pure giovanile, piuttosto raro.»
«Già, appunto. Bisogna studiare bene questo argomento. Maestro, ci parli del suo violoncello.»
«Il mio non è un violoncello comune.»
«Ma che interessante! Prego, ci racconti.»
«È quel che ho detto; tanto vi basti.»
«Ah no, non ci basta affatto! Un Guadagnini, dunque; e perché così fuori dal comune?»
«Quel violoncello non è di questo mondo...»
«Via, questa è una parafrasi un po' troppo forte; non si può vendere un'idea simile!»
«Non c'è proprio niente da vendere: ci sono cose che sono veramente superiori alla stupidità e all'intelligenza del mondo!»
«Certo, ne siamo ben consci. E il suo Guadagnini sarebbe una di queste?»
«...Io ne sono solo l'indegno tenutario...»
«...Mi sento meno entusiasmato di prima...»
«Cosa vorrebbe dire, con questa storia, Maestro?»
«Basta, l'ho detto: io ho un violoncello fuori dal comune. È un Guadagnini con molte fratture, ma forse proprio quelle, per miracolo, l'hanno elevato a strumento ineffabile...»
«Georg, questo non scriverlo... Maestro, restiamo seri: stiamo lavorando per lei.»
«Allora lavoriamo. Io posseggo un Guadagnini del 1745, fatto a Cremona, di straordinaria bellezza. Scrivetelo pure.»
«1745 a Cremona? Ma il Guadagnini in quell'anno era o a Parma o a Milano!»
«Davvero, Georg?»
«Certo. Sarebbe ben strano avesse lavorato a Cremona proprio quell'unico anno lì, dopo il suo trasferimento lontano dalle celebrità di Stradivari e Guarnieri.»
«Cosa risponde, Maestro?»
«Che allora forse è del '72, fatto a Torino.»
«Georg?»
«Sì, nel 1772 Giovan Battista era a Torino. Ma allora il '45 e Cremona cosa ci stavano a fare?»
«Maestro?»
«Rispondetevi da soli.»
«...Che atteggiamento strano... Insomma, non ci vuole dire che cosa è il suo strumento. Comunque è un problema, perché è una domanda inevitabile, e non si può pensare o credere di prendere in giro degli esperti: bisogna avere prudenza. Caro Maestro, in Italia, lo so, è cosa abituale dare nomi più o meno importanti agli strumenti, sia di fabbrica dell'Ottocento che d'autori barocchi anonimi. Rende lo strumento più gradito, anche se è costato pochi soldi e vale poco. Spesso suona pure bene, e allora perché negargli un pedigree importante? Ma qui siamo a Vienna, Maestro, e questo è un altro mondo: qui a Vienna, su queste cose, non si gioca e non si scherza. Io potrei pure farle avere, relativamente presto, un buon Stradivari; ma niente che somigli alla meraviglia di voce che lei produce col suo pseudo Guadagnini! Come facciamo?»
«Me lo lasciate suonare, senza scriver nulla!»
«Georg, diglielo tu.»
«Maestro, ci sono tre domande inevitabili da parte del pubblico: che strumento suona, da chi l'ha avuto, chi l'ha suonato prima di lei. Un solista è grande in base alla "risonanza" che può produrre, e quella "risonanza" deriva inevitabilmente da quelle tre cose: che strumento ha; chi gliel'ha dato o come l'ha avuto; quale famoso, o grande musicista l'ha posseduto prima; poiché l'ascoltatore riconoscerà, infusa nel timbro dello strumento, non solo l'arte di un solista scomparso, ma l'intera complessità della tradizione!»
«Grazie Georg. Capisce cosa intendo?»
«Ma se io fossi capace di suonare divinamente su un violoncello di fabbrica cinese, non sarebbe un fatto eccezionale?»
«Non sa quel che dice! Via, sarebbe inaccettabile persino dal venditore pakistano di giornali pornografici qui sotto, all'ingresso della U-Bahn!»
«Ma perché?»
«Georg...»
«Sì. Maestro, non si discute. Un solista non può presentarsi a un pubblico serio senza uno strumento serio.»
«D'accordo. Niente fabbrica cinese, ma un magnifico strumento del Settecento italiano, senza nome ma solo vaghe attribuzioni, non è sufficiente?»
«Questo non disturba e non infastidisce, certo...»
«...No, Georg... ahimè no... Quel violoncello ha un suono troppo straordinario per passare inosservato... bisogna avere pronta la risposta... Maestro, che ci può dire di più di quel suo strumento?»
«Per farne che?»
«Per cercarci una risposta a una domanda inevitabile: "che cos'è quella favola di violoncello che ci ha riempito le orecchie nella sala del Musikverein, come l'avessero amplificato con gli altoparlanti di Dio?". Guardi che a quella domanda non si sfugge! Qui, in casa mia, mi sono divertito a improvvisare, ma ora è necessario essere molto seri: ci sono in ballo molti soldi, per promuovere il suo lancio nel concertismo di livello, mio caro! Va bene rischiare molto, ma comincio a temere che si arrivi a troppo, in queste condizioni!»
«Barone, lei si sta agitando per nulla. Scrivete che ho un violoncello attribuito a Guadagnini da una tradizione interna alla mia famiglia, dalla quale l'ho ricevuto. Poi, in seguito, mi farà avere lo Stradivari e io glielo suonerò con altrettanta potenza.»
«Georg?»
«È davvero così la storia del suo violoncello?»
«...Sì... No, non è così, ma detta così la si può raccontare.»
«Va bene, non è un problema; possiamo scriverla.»
«No, non è un problema, ma non ci aiuta. Io ho bisogno di qualcosa di più per venderlo. C'è un vuoto intorno allo strumento... una cosa che non mi piace... Maestro, cerchi di dirmi qualcosa che mi stupisca, che mi... sconvolga! Una bella storia che Georg possa raccontare!»
«...Io suono il violoncello del quartetto di
AUSCHWITZ
«...Questo è veramente di cattivo gusto...»
«...Per cortesia, maestro! abbia rispetto!!»
«Auschwitz non si può dire? E io non lo dirò. Ma ora voi sapete quel che volevate sapere: cos'è, da dove viene, e chi l'ha suonato prima!»
« Maestro!! Ci sono cose intorno alle quali non abbiamo il diritto di scherzare! Il Barone mi aveva parlato di una personalità elevata, non di un cafone!»
«Calma, Georg, aspetta. Maestro, fingerò di non aver sentito. Non ripeta più una simile scena. Qui siamo molto sensibili a queste cose, e, come le ha detto il Signor Georg, queste sono cose che non vanno prese così alla leggera, giusto per far colpo!»
«Perché, pensate che vi abbia inventato lì per lì un'idea per sconvolgervi? Nossignori, quel che vi ho detto è vero. E le fratture che lei, Barone, ha ben visto sul mio violoncello, sono le ferite causate nel cortile di Auschwitz dal calcio d'un criminale nazista! E dunque raccontano, e sono, anche ferite d'un intero popolo, di un'umanità. Io voglio cantare di quel dolore, e voglio ricordare quel sollievo che il violoncello, riparato alla meglio, con quel che c'era in campo, con amore infinito sospinto dal bisogno feroce di speranza, faceva risonare nel gelo d'inferno di quelle mattinate d'impiccagioni e mostruosità! Che volete di più per Dvorak, per la musica "del nuovo mondo"? Che chiedete di più al suono struggente del violoncello romantico? Non vogliamo quel nome? Pace; sottacerlo non lo cancellerà, proprio come i restauri più accurati non hanno potuto cancellare i segni di quel martirio! Essi sono tutti là, a muovere a compassione, ma non per piangersi addosso! D'accordo, si taccia Auschwitz, ma si faccia cantare la sua anima sottile, la speranza di un riscatto!...»
«...Maestro, per favore, le chiedo di uscire...»
«Sì, va bene, d'accordo, ma meditate! Non siete nel Musikverein per compiacere la massa con un bel concerto Rock: avete secoli di tradizione e cultura da rispettare; rispettate anche la verità, così farete cultura e non un grottesco mercato di cadaveri in decomposizione!»
«La prego, esca.»
«Vado, vado, ma ricordate quel che avete pensato di me ascoltandomi suonare!»
«Esca!»
«Non vi fa onore, questo mandarmi via così...»
«Non parli di onore, non ne ha il diritto! Ora esca, e si renda reperibile all'albergo. Noi ora abbiamo necessità di discutere e lavorare seriamente. Le faremo sapere.»
«Barone, devo veramente andarmene?»
«Lasci tranquillo il Barone e se ne torni in albergo. Grazie.»
«Barone! Voglio una parola da lei!»
«Le faremo sapere... Ora, la prego, ascolti Georg.»
«Va bene. Arrivederci.»
Nessuno mi salutò, nemmeno il maggiordomo.
Fuori, il Mac Donald mi dava il voltastomaco. Vomitai in strada il mio hamburger con patatine, nel lago scuro di bevande zuccherate fino alla nausea, delle plastiche pulite, dei sorrisi rilassati, delle chiacchiere eccitate, delle risate, delle foto di nudi erotici, nei richiami ai piaceri della vita, nei treni veloci, silenziosi e comodi, nelle tiepide camere d'albergo, dimenticando ogni mattina e ogni sera, alzandosi, coricandosi, raccontando ai figli e ai nipoti, scrivendone le parole sulle porte delle case, sulle mura delle città... Ascolta uomo! Dio non è in quei nomi! Dio non è più uno! È multiplo infinito del suo volto visibile! È immagine su immagine di se stesso riflesso in fughe di specchi! Ascolta, umanità! Dimentica la scrittura, scordati l'uso della penna, cancella dalla tua memoria la lingua e la parola! Primo Levi, rispondi: per chi avevi scritto? Per chi avevi raccontato? Cosa hai portato con te, nella tua morte?
Vienna, brulicante di razze, di odori di spezie orientali, di occhi con sguardi antichi, di tribù, di sacrifici, di ritualità primordiali; Vienna mi guardava e mi scrutava nelle intimità più nascoste e impudiche: desiderio di prostitute, di godimento forte, breve e straniante.
Gridavo, a un momento: "sono un uomo!", e il pakistano che vendeva riviste e giornali presso la scala di discesa nei visceri della città, mi sorrideva ad occhi bassi, dolce, comprensivo. Era notte. Faceva freddo, e le mie mani erano doloranti. Così doveva essere in campo, ad Auschwitz. Ma la verità era un'altra.

 

-XXVIII-

 

Quella fu la mia notte insonne, nella solitudine, nella rabbia. La camera d'hotel era intollerabilmente indifferente al suo contenuto di tragedia; rispondeva ai miei pianti con l'occhio scuro e stupido del televisore spento. Desideravo quel secondo cuore di Ahasvero, per poter almeno sperare in un suo spegnimento opportuno, e poter dormire, sognare, scordare.
Chiamai Giulia alle tre e mezza.
«Dio, amore... che c'è? Che t'è successo?»
«Temo che salterà il concerto... lo cancelleranno...»
«No!... perché? Andavi così bene! Che cosa hai... che vogliono, quelli?»
«La mia anima, temo... Giulia, in questi giorni sono successe cose... che non puoi immaginare. Neanch'io so più chi sono e dove sono...»
«Tu stai troppo male, amore... Non c'è bisogno che mi dici niente, sai? Fregatene di loro: sono crucchi. Tornerai a Vienna un'altra volta con gente migliore! Fregatene, tu sei migliore di loro! Amore, pensami...»
«Amore! Non so cosa pensare... prima la musica mi sembrava una cosa grandissima, ma anche una cosa facile, lì, pronta da prendere e fare... ora non so più dov'è, mi sfugge...»
«Ma cosa vuoi dire? Che non riesci più a suonare?»
«Non ho mai suonato meglio in tutta la mia vita! Non ho mai avuto tanta forza nel suono, o nella frase... solo che mi sfugge...»
«Io non capisco cosa vuoi dire... lo sai che io capisco poco di musica... ma allora perché ti cancellano il concerto?»
«Giulia... il mio violoncello...»
«Che è successo? Amore, dimmi!»
«Ho saputo che il mio violoncello è il violoncello di AUSCHWITZ!»
«Cosa?! ...Cosa vuoi dire?»
«Solo quello che ho detto: io ho il violoncello che era ad Auschwitz!»
«È pazzesco... o sei impazzito!... Cosa vuoi dire, con quello?»
«Per Dio, Giulia! Io ho ricevuto un violoncello, e l'ho suonato per tutti questi anni. L'ho suonato al funerale di mio padre, ricordi?»
«Certo che ricordo!»
«Brava! Quel violoncello è qui con me, perché è il più bel suono che io possa immaginare, perché è ormai una parte indispensabile di me, della mia vita; non solo della mia carriera! Bene: quel violoncello suonava nel cortile delle impiccagioni: sul palcoscenico del cortile di Auschwitz, capisci?»
«...Perché non me l'hai mai detto?...»
«Perché l'ho saputo solo ieri!»
«È per questo che ti cancellano?...»
«...Credo...»
«Dio, amore... tu non puoi reggere tutto questo... tu sei troppo sensibile...»
«Forse no, Giulia; non lo credo più... non sono sensibile, anzi... temo di saperlo, ora... sono un cinico, un uomo di pietra... ma è vero: non reggo a tanto... Auschwitz è troppo...»
«Sì; è troppo, amore. Lascia perdere, lascia tutto, torna a casa. Ai soldi non pensarci: ne facciamo a meno. Poi ci ragioniamo su con calma. Bisogna pensarci bene su. Ma chi ti ha detto una roba simile?»
«Ahasvero...»
«Che cazzo dici? L'ebreo errante? Ma sei diventato matto o cosa? Claudio, ti giochi la carriera!»
«Sì, lo so... mi gioco tutto... si chiama Hans Haas, l'ho saputo solo pochi giorni fa.»
«Chi si chiama Hans Hass?»
«Quello che io ho sempre chiamato Ahasvero, ossia quello che mi ha dato il violoncello.»
«Senti, amore, sono quasi le quattro e io non ci capisco più niente. Vai a dormire, riposa per bene, e poi mi richiami. Se non dormi e ti riposi per forza sragioni e stai male: tu sei un sensibilone, io ti conosco troppo bene... e ti amo, scemo; ti amo da matti, e tu non mi chiami mai! Dai, adesso va' a dormire, fregatene di quelli là, del violoncello, di... no, amore, lascialo perdere; tu non sei ebreo... vattene via da lì...»
«Sì, hai ragione, vado a letto... ciao.»
«Amore!»
«Sì, amore, buonanotte...»
«Non fare così...»
«Vado solo a dormire.»
«Non far sciocchezze!»
«Nessuna sciocchezza; ciao, buonanotte. Scusami.»
Crollai nel sonno, nell'incubo, nel rimorso, nel buio.

 

-XXIX-

 

A mezzogiorno ricevetti un messaggio dalla direzione del Musikverein: diceva che la prova generale era anticipata alle dieci del mattino, anziché, come previsto, alle quattro del pomeriggio. Mi sentii rincuorato, e decisi di occuparmi solo di Dvorak e di nient'altro fino a concerto avvenuto; poi avrei ripreso a pensare, meditare, programmare tutto il resto. Cominciai con un pasto veloce, leggero, ritmando la masticazione, e trattenendo la mia mente nel rigore assoluto del ripetere mentalmente, nota dopo nota, tutta la composizione che avrei suonato, con tutti gli interventi dell'orchestra riportandone alla mente le parti principali.
Ogni volta che in quell'esercizio mnemonico faceva ingresso un'idea, una considerazione, un'opinione, la ricacciavo al fondo del cervello, quasi visivamente figurandomi quel cestino virtuale che appare sugli schermi di questi computer Mac.
Stavo rimettendo ordine nella mia "cartella sistema"; applicazioni fra applicazioni, estensioni in estensioni: qua i traduttori, qua le cartelle ben ordinate alla griglia, qua a lato tutti i programmi ora non utilizzati. Pulizia interiore, controllo.
Tutta la giornata passò senza che lasciassi la presa: alle undici mi addormentai come una macchina che si spegne. Alle nove ero pronto a partire col taxi che m'attendeva davanti alla porta dell'hotel, prenotato la sera prima. Ero vestito in modo impeccabile, la colazione era già digerita, le sigarette erano rimaste ben allineate alla lampada, sul mio comodino.
L'orchestra era schierata sulle gradinate, in un brusio ordinato di chiacchiere futili, sulla TV, sulla nuova macchina; vocìo riverberato ammirevolmente dall'acustica meravigliosa di quella sala. Gli orchestrali mi salutavano rilassatamente, con indifferenza, continuando tranquilli nelle loro abitudini. Io ero pronto sul mio podio; il puntale che non usavo più da cinque anni, ora cercava il suo buco ideale nel quale fissarsi, fra le centinaia di impronte che altri violoncellisti avevano lasciato sul piano in legno di quella pedana.
Il primo violoncello, per la prima volta, mi parlò per chiedermi come facevo a reggere il violoncello senza appoggiarlo alla terra; gli risposi che per me era leggero, e stava su da solo... quanto lontana fosse dalla verità quella frase non riuscivo ancora a pensarlo.
Poi entrarono in sala tutti gli uomini e le donne della direzione, il direttore d'orchestra, il critico Signor Georg, e il Barone, elegantissimo e giovanile, con la sua splendida e vistosa segretaria subito dietro.
Confabularono ancora un po', senza farmi alcun cenno, neppure di saluto. Infine il direttore raggiunse il podio, salutò tutta l'orchestra, subito disciplinata; rivolse poi a me un lungo, gentilissimo sorriso, e indicò l'oboe per dare il La.
La caotica Ouverture dell'accordatura cominciò puntuale, affascinando per quell'inesauribile fonte di stranezze musicali che si producono da tempi ormai lontani, sempre allo stesso modo, eppure mai uguali. Compiuto il rito, il direttore alzò le braccia e le note solenni dell'inizio del concerto si mossero verso la sala, con una brezza delicata, come una finestra che si apre da lontano.
La lunga introduzione orchestrale si svolgeva con inattesa nobiltà; pensavo fra me di aver sbagliato nel considerare e giudicare quel direttore: tutto era di una bellezza smagliante, in un concerto di suoni precisi, di entrate e interventi così perfettamente naturali, eppure sensibili; le armonie struggenti, patetiche, i Crescendo misurati sulla verità dell'emozione; tutto portava a un scendere dentro al sé commosso, eppure semplice, vero, constatato nella vita. In quell'ascolto amavo quell'assenza di eccesso, e quella presenza, sempre nitida, di espressione.
Giunse il mio attacco, e chiusi gli occhi. Il violoncello emise la sua voce in tutto il suo fulgore, tutta la sua immensa commozione. A me bastava ritrarmi, lasciare che cantasse e recitasse con la sua sapienza. Dovevo solo seguirlo, assecondarne i movimenti, lasciarmi guidare, offrirgli la miglior posizione per accogliere il crine dell'archetto. Le note fluivano lente, ai miei occhi: come acqua di un torrente in rimbalzi, schiume, spruzzi, tutti rallentati a mostrare le meraviglie dei loro riflessi d'arcobaleno. Scorrevano velocissimi passaggi, progressioni di settime diminuite, giochi d'arpeggio, rincorse di seste e terze. Si spandevano le voci stentoree del tema in ottave parallele, sopra i clarini e i corni, fra il tappeto dei violoncelli con le viole, sotto il cielo luminoso di violini e flauti.
Una dopo l'altra le battute ricordavano, evocavano, piangevano, amavano. Poi, coi fremiti del trillo, nell'ultimo movimento la melodia si eccitava nel chiedere amore, e la natura rispondeva in altri fremiti. Gioia su gioia si accumulava, e scagliava leggera se stessa nel volo promesso, in gloria, in pace, in successo.
Gli occhi erano ancora chiusi, già nel ritorno del brusio di voci in pausa d'orchestra. Li aprii come dopo un lungo sonno di sogni lontani ma piacevoli, con voglia di tornare, o conservarli in qualche parte nascosta della retina; là, invece, vidi il silenzio di quella sala in cui mancava il Barone, mancavano tutti, e solo quel viscido Georg parlava, sottovoce, scuotendo la testa, col direttore d'orchestra.
Ero ancora là, sulla mia pedana, sulla mia sedia, quando ormai dell'orchestra erano rimasti solo strumenti abbandonati, sedie e leggii. Sarebbero rientrati in quindici minuti: c'era la prova della Sinfonia, per la seconda parte del concerto. La segretaria della direzione apparve nel fondo della sala e mi fece cenno di raggiungerla, prendendo con me le mie cose. Mi disse solo di tornar pure in albergo, e di attendere comunicazioni.
Tornai a piedi, per passare ancora nel mezzo di Stadtpark, a scusarmi con la statua di Strauss della mia presunzione. Poi guardai un poco i piccioni inseguirsi, comunicarsi le loro gerarchie, sfuggire volando via lo sguardo troppo violento del più forte.
All'hotel già sentivo che ero stato vinto. Solo alle quattro appresi, da un fax, che il concerto era stato annullato.


 

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