«...James morì poi nel 1837, a novant'anni. Che ne fu allora del violoncello?»
«L'ebbero gli eredi, e lo vendettero al Duca di Glouchester.
Oh, ma lei mi deve perdonare, sono veramente un vecchio senza testa! Mi segua in cucina, avevo preparato degli spuntini da scaldare; mi aiuterà anche a portarli in salotto.»
«Grazie, sì, andiamo.»
«Lei deve capire, con gli anni anche i migliori misteri perdono di fascino, si consumano un po': diventa necessario rinnovarli. Così tutto l'interesse per quel violoncello, dopo che per tanti anni era stato, bene o male, suonato a corte per innalzare l'udito degli aristocratici... ormai lo sentivano come una cosa loro, familiare, e forse pure un po' noiosa, antiquata. La ricerca si era arricchita di mille altre leggende intersecate l'una coll'altra, e la storia continuava, fuori da quello strumento, che, tanto, era finalmente giunto in casa reale. Non ha mai sentito parlare di Sebastiano Marchisio?»
«No... no, mai sentito.»

«Ai primi dell'Ottocento aveva un laboratorio a Torino, dove fabbricava pianoforti. Un giorno qualcuno gli fa visita, e la sua vita ha una svolta definitiva: lavora giorno e notte a uno strumento, non riposa mai, non dice a nessuno quel che sta facendo, è chiuso anche alla famiglia, che lo vede come un invasato preso da una crisi mistica. Lui è vecchio, e tutto quel lavorare non gli fa bene alla salute: presto si trova sul letto di morte, senza esser riuscito a compiere l'opera. Allora riunisce i figli al suo capezzale e chiede soccorso: "la parte più importante è fatta. In questo pianoforte già vive l'arpa di David: deve avere suono di clavicembalo, chitarra, organo, liuto, persino campana!". I figli insistono: e perché mai dovrebbero finir di costruire uno strumento così complicato, visto che ormai è già quasi fuori moda? E chi lo compra, poi? "Non è uno strumento qualsiasi! -li sgrida il padre- Il suo legno vibra ancora della voce del Salmista! Quelle travi furono tagliate dai Sacerdoti, per divenire i pilastri del Tempio di Re Salomone! Erano nel bottino di guerra di Tito Imperatore! Attraversarono il mare a fianco del grande candelabro a sette bracci del Tempio!".
I figli chinano la testa rabbrividendo, poi seppelliscono il padre e si mettono al lavoro. Sia gentile, mi prenda per favore piatti e bicchieri da lassù, che non ci arrivo; a coltelli e forchette penso io. Bene, insomma, lo strumento finito è inviato a Siena, dono di nozze alla sorella Rebecca, che andava sposa a un ebanista, un certo Antonio Ferri, il quale, stregato dal suono e dalla storia, lo finisce, decorandolo con preziosissimi intagli. Il pianoforte viene trasferito nel Duomo di Siena, dove lo ammira Franz Liszt, e lì rimane fino al '67. Fu inviato all'Esposizione Internazionale di Parigi con un bellissimo nome: "l'Immortale", o il "Pianoforte di Siena". Il 7 settembre del '96, voglio dire, di due anni fa, fu battuto all'asta a Herzelya, vicino a Tel Aviv. Si presentava avvolto in uno spesso sarcofago di gesso che qualcuno gli applicò quando le truppe tedesche lo trafugarono dal palazzo reale di Monza. Era arrivato in Lombardia passando da Siena al Quirinale di Roma, regalo della città toscana al futuro re Umberto I, come dono per il suo matrimonio. Da Roma i Savoia lo avevano poi trasferito nella loro residenza di Monza. Fasciato nel guscio di gesso comparve in Egitto nel '46, nei pressi di El Alamein, nel bunker che forse fu di Rommel. Poi finì a Tel Aviv, che all'epoca era Palestina sotto il mandato britannico, e fu messo in vendita. Infine Avner Carmi, un restauratore e commerciante di pianoforti usati, che io ho conosciuto molto bene, se ne innamora. Nei primi anni cinquanta, completamente restaurato, fu esibito in una tournée che visitò quasi tutto il mondo: lo suonarono Arthur Rubinstein, Leonard Bernstein, il tutto contornato da grandi imprese pubblicitarie, che culminano il 29 agosto del 1955 con la copertina di Time. Quella non ce l'ho, ma... vede? Guardi qua, questo ritaglio di giornale che ho conservato lì, nel cassetto di ricette di cucina: gli eredi di Carmi lo hanno messo all'asta; legga: "Oggetti da culto/ All'asta il pianoforte fatto col legno del tempio di Salomone. In quella tastiera c'è l'arpa di re David"; è un articolo di una certa Rita Sala, Il Messaggero, 26 agosto 1996. Chissà, forse il nobiluomo torinese, prima di morire, aveva parlato a Guadagnini, che prima di morire aveva parlato a Marchisio... prenda lei il vassoio coi piatti, che io porto tutto il resto.»
«Ma lei crede veramente che si trattasse del legno dei pilastri del Tempio?»
«Ma che importa? Ciò che credo è che fosse più probabile riuscire a farlo credere dentro a un pianoforte, piuttosto che in un violoncello. Buon appetito!»
«Altrettanto. Quand'era morto, Guadagnini?»
«Il diciotto, otto, settecento ottantasei, a Torino...»
«E due più due fa quattro, perché quattro più quattro fanno otto. Non sarà che anche "Rita Sala" sia in realtà "la-Ri-Sa-ta", ossia quella grassa cosa che dovrei farmi per tutta questa incredibile storia?»
«Faccia lei, mio buon permutatore di sillabe. Quattro uno, tre due: ed ecco un bel dieci al mio bravissimo amico! Mangi che si raffredda. Sa, per me, quando nel penultimo giorno di gennaio del '96 vedevo in televisione le inquadrature notturne del fuoco e dei lapilli del giorno prima, scagliarsi fuori a fiammate terrificanti dall'immensa bocca del pentolone infernale di quel che era il "Gran Teatro La Fenice di Venezia", mi era talmente evidente l'impressione di guardare le carrellate di un cameraman sovreccitato, muoversi sui dettagli degli incendi nella parte superiore dell'Inferno musicale di Hieronymus Bosch, fermandosi appena sopra l'immagine degli orecchi divisi dalla lama di coltello, o della cornamusa gonfia. Sotto le immagini scorreva l'Adagetto di Mahler, tutto era confezionato a dovere, con commozione industriale d'alta qualità; giusto una regia un po' troppo impiegatizia, professionalmente frammentata dalla presenza di troppi mediocri attori e registi a contendersi i minuti di elaborazione dati ed esecuzione commenti esegetici. Distaccandomi - ammetto, con fatica... - dall'immagine televisiva, mi ricordai che Avner mi aveva detto, intorno agli anni della conquista americana della luna, che forse l'unico modo per far cantare quel suo pianoforte immortale sarebbe stato bruciarlo...»
«Come il libro di Rabbi Nahman!... era un Chassìd della fine del Settecento, un cabalista pio e appassionato, che scrisse il suo commentario alla Torah, e poi lo bruciò lui stesso, di fronte ai suoi allievi...»
«E ci vollero infiniti libri, per descrivere quel libro bruciato, per metterne in moto la lezione. Sì sì, proprio così...»
«Broad-wood... legno-largo... lei pensa che quel pianoforte Broadwood di fronte a Cervetto junior, nel ritratto ad olio, volesse indicare già proprio questo? Che il legno era anche in quell'altra cassa? In fondo l'arco è di modello incomprensibilmente arcaico, ed è poggiato sul pianoforte ad indicarne le corde: poggiato su una sciarpa, come uno scialle da preghiera... il libro della musica da suonare è solo sul leggìo del pianoforte; il Maestro che si sedesse a quella tastiera rivolgendo così la schiena allo sguardo dello spettatore del quadro, avrebbe a sua disposizione i tasti, così come l'impugnatura dell'archetto, pronto per esser sollevato con la mano destra!»
«Ah, lei ha una memoria formidabile! È proprio tutto precisamente così! Ma non credo che quel pianoforte c'entri nulla col Marchisio o con la leggenda del legno; semplicemente, penso, il Cervetto si era fatto ritrarre vicino allo strumento più popolare in quel cambio di secolo: il pianoforte, appunto, e del miglior fabbricante inglese suo contemporaneo. Ne avevano regalato uno un po' più moderno di quello anche a Beethoven, nella speranza che lui facesse una buona pubblicità al nuovo modello.
Voglio dire: un pianoforte è grande, ci si possono mettere sopra e intorno un'infinità di decori, di intagli, di bassorilievi, di pitture... che so, di pietre preziose, oro, argento. Su un violoncello, tutt'al più, si possono dipingere a olio i blasoni o gli stemmi sul fondo, sul retro, dove guarda solo il cuore del violoncellista. Ha presente il violoncello intagliato da Domenico Galli, a Mantova?»
«Modena: non Mantova; è del 1691. Sì, certo, capisco: è una scultura ridondante; non si capisce neppure come fare a prenderlo in mano, a vestirsene, ad appoggiarselo al petto per suonare, tutto pieno com'è di punte e spuntoni fitoformi per decorarlo. È sovraccarico di simbolini e simboloni, alternando per quelli o le figure o i materiali, col risultato che il violoncello non riesce a risuonare decentemente, neppure agli occhi...»
«Esattamente: invece un pianoforte può essere grandiosamente "visibilizzato", e suonare altrettanto bene di un altro dal decoro essenziale. È una questione sempre attuale: quella della visibilità, della molteplicità, della velocità, complessità, leggerezza e consistenza...»
«Six memos for the next Millennium! Calvino! Ma nel mille novecento ottantaquattro e solo per l'ottantacinque, che per curioso destino era l'anno internazionale della musica... Però, ha davvero ragione... quattro... cinque... six
«Ma la consistenza non l'ho ancora data... »
«Neanche Calvino. Come un iconoclasta pentito, morto e rinato per restituire l'immagine, poi ravveduto, poi pentito nuovamente del suo ravvedimento e... rimasto incompiuto... »
«Visionari: della forma in icona, in poesia, o in suono. Vede, dai clavicembali che cantavano solo nell'intimità, in quelle assenze, ecco scaturire pian piano i fortepiani ad arricchirsi dell'azione combinata, fino ai complicati calcoli delle leve multiple per i martelli, e le voci che si levano potenti, solenni, flessibili e divine, dalla fucina di Vulcano, degno marito della bellezza di Venere. Ed ecco quella molteplicità di suoni, di consistenze, di trasparenze, tutta sotto le dieci dita dell'artefice, che combina, permuta, raccoglie, rilascia, unisce, divide. Velocità di note e vertigine, perdita di coscienza, estasi. Wagner non sarebbe esistito, senza il pianoforte di Liszt.»
«Sono d'accordo: senza il pianoforte di Liszt scaturito dalle visioni oltre l'orchestra di Beethoven.»
«Benissimo. Non beve neanche un po' di vino?»


«No, grazie, non ora. Dunque: gli eredi vendettero ai Duchi di Glouchester, tanto tutti ormai si occupavano di pianoforti. E poi?»
«I Duchi lo conservarono per un po' a riposo; poi, pare che fosse più o meno alla fine del '39, uno della famiglia, che aveva grossi interessi nelle Indie, avendo cominciato a dilettarsi di violoncello e dovendo partire per un paio d'anni a New Delhi per incarichi politici, lo volle portare con sé. Questo dovrebbe darle un idea di quanto si fosse spento e spostato il mistero.
Per quel viaggio non venne neppure più utilizzata l'enorme cassa protettiva in legno e gesso: era troppo ingombrante, doveva lasciar posto ai bagagli di vestiario, di attrezzi sportivi, di libri di narrativa e ninnoli vari per ingannare il tempo e non perdere le buone abitudini civili in un paese così lontano. Così la delicata vernice del violoncello si trasformò irrimediabilmente, bruciandosi, un giorno, al sole estivo su un terrazzo a Benares, durante il viaggio verso Calcutta. A Calcutta fu dato a un artigiano che cercò di riparare il danno, aumentandolo così, a causa della sua assoluta ignoranza delle tecniche liutaie classiche cremonesi... per di più, cercò di scollare la tavola e il fondo con un solvente così forte che, colando trasversalmente sulle superfici verniciate, scavò quei canali che sembrano colature di sangue trasparente sulla fronte inclinata del Crocifisso. Le altre parti del corpo hanno quel rosso scuro raggrumato, a causa del fissaggio che l'intervento di quell'artigiano causò, su quella superficie resinosa di "sangue di drago" che il sole aveva bruciato. Sappia che in origine il violoncello era rosso fiammante, e non ambra antica con screziature rosso cupo e terra di Siena e mille altri sfumati e trasparenze. All'epoca della sua creazione, chi si soffermava a contemplare le venature del legno, presto vedeva sciogliersi nella vertigine di quel sangue luminoso il rosso liquido cristallizzato del suo vestito, e si diceva di vederlo scorrere nelle vene del legno, pompato da quel petto possente; pochi avevano il coraggio di soffermarsi a guardarlo, mi creda...»
«Sì, le credo: conosco il fascino del rosso cremonese, e anche del rosso pompeiano, o dei rossi della grande pittura italiana dal Quattrocento in poi. Senta: credere a tutto il resto, invece, mi risulta sempre più difficile... sono ammaliato, ma lei gioca con la mia vita. Io ho rischiato una catastrofe, negli ultimi giorni, per le sue stranezze... è ben difficile aver prove di tutto quello che lei mi ha raccontato, quasi l'avesse vissuto in prima persona.»
« Lei, mi perdoni, mi ricorda un violoncellista che ho conosciuto a Genova. Mi permetta una breve digressione. Prima prendo dell'altro vino in cucina. Le va del rosso?...»

 

Per continuare la lettura di questo racconto, clicca qua sopra, sul ritratto di Casanova attribuito a Raphael Mengs.

 

 


 

 

(da "Il violoncello errante", Claudio Ronco 1998)

© C.Ronco 1999. Tutti i diritti riservati.

 

 

Puoi leggere ancora del Guadagnini cliccando qui, oppure l'immagine del violoncello di Domenico Galli, qua a fianco.

 

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