«...Conosce quella scritta del XIII secolo che sta da qualche parte, su un muro di Toledo?
Dice: "Caminantes, no hay caminos, hay que caminar"; così dovette forse figurarsi per tutt'e due l'idea d'accettare l'inevitabilità di quella partenza: l'uno rivolto al dentro, l'altro rivolto al fuori.
Ma è sicuro di non voler proprio nulla da bere?»
«Sì, ora sì, grazie; mi verso un po' di Porto, ma lei continui, la prego.»
«Cervetto, a Londra, passò circa nove anni a fare il commerciante di strumenti italiani, senza però riuscire ad ottenere la fortuna che cercava. Si dedicò quindi nuovamente alla musica, e nel '37 iniziò ad educare gli orecchi degli inglesi al buon suono dei suoi strumenti, suonandoli lui stesso. Passarono gli anni e lui divenne famoso quale uno dei migliori violoncellisti in Inghilterra.
La notizia arrivò, naturalmente, anche al suo vecchio amico a Livorno, che si trovò a struggersi nell'idea di non aver più speranza di ritrovare il suo amato fratello. Era il 1744, e gli giunse notizia da Londra di un evento memorabile: nelle Hickford's Rooms, in Brewer Street, vi fu un concerto su sottoscrizione di tre famosi violoncellisti italiani: il James Cervetto, insieme a Pasqualini e Andrea Caporale.
I critici parlavano dell'evidenza del fatto che, se i primi mostravano d'avere infinitamente più "mano" e conoscenza della tastiera, così come della musica in generale, tuttavia il loro suono era aspro e volgare, mentre quello di Caporale appariva infinitamente superiore, perché pieno, dolce e dal tono convincente, affascinante, vocale.
Il gentiluomo decise allora di compiere un atto degno di memoria, e raccolse le sue ultime forze per recarsi a Cremona, con un progetto straordinario in mente.
Prese alloggio in un albergo di quella città, molto vicino alla strada dov'erano le botteghe dei liutai. Erano quasi l'una accanto all'altra, sa, le stanze dove venivano realizzati i capolavori immortali di quest'arte durante la sua breve epoca d'oro: c'erano gli Stradivari, poi i Guarnieri, e il giovane Guadagnini, che dal grande Guarnieri aveva preso il gusto delle linee e delle forme, e dallo Stradivari quello della precisione nell'eseguirle.
Il Cervetto si rivolse a quel giovane, un po' perché non possedeva i soldi necessari a pagare i lavori degli Stradivari, già a quell'epoca carissimi, e un po' perché credeva di dover istruire il suo liutaio, e non avrebbe certo potuto farlo con artigiani già famosi e sicuri del loro stile. Giovambattista era perfetto al suo scopo: eccezionale artigiano, ma giovane, disponibile, curioso ed entusiasta. A lui affidò l'incarico di costruire un violoncello, ma non uno qualsiasi, bensì il più straordinario strumento del mondo.
Come sarebbe stato possibile? Certo il giovane liutaio doveva essere ben ambizioso, ma un qualsiasi strumento di una certa importanza cominciava non tanto dalla fantasia o dall'ingegno, ma solo ed esclusivamente dalla qualità dei legni; e lui non era certo in grado di procurarsene di quel livello!
Il gentiluomo lo rassicurò: non aveva di che preoccuparsi, il legno l'aveva portato lui stesso per compiere l'opera, ed era il legno più raro e prezioso del mondo. Quale? Chiedeva il liutaio. Questo! rispondeva il gentiluomo, fiero di mostrare il suo carico di un taglio d'abete armonico d'incredibile bellezza e perfezione. E da dove viene una simile meraviglia? chiedeva ancora l'artigiano stupefatto. Questo dovrà attendere per saperlo: è un segreto grande, immenso: non può esser donato così, come una qualsiasi notizia; lei dovrà attendere, ed aver fiducia in me. Lavori con tutto se stesso, compia il suo capolavoro, quello che consegnerà alla storia, all'eternità, il violoncello, me, e lei.
Giovambattista accettò e iniziò subito il lavoro alacremente, dedicandovi tutta la sua attenzione ed energia. Il gentiluomo si faceva scrupolo di fargli avere tutti i materiali più rari e costosi: ambra finissima, colle rare, solventi purissimi, attrezzi preparati ad arte. Dopo un anno di lavoro, il Guadagnini, fiero di sé, poté incollare una sottile pergamena in quell'interno, col suo nome scritto con orgoglio, vicino al luogo e alla data: Fecit in Cremonæ, Anno Domini 1745.
Il Cervetto, coi soldi che gli rimanevano dalla vendita di tutti i suoi beni e del suo palazzo a Livorno, pagò il liutaio e partì per Londra.
E ora mi perdoni, ma bevo anch'io qualcosa; e mi ci vuole pure una pipa e del buon tabacco forte.»
«Prego; ma mi dica, l'Andrea Caporale era quello per cui Haendel scrisse la parte di violoncello concertante dell'Aria "Come all unto" eccetera, della sua "Deidamia"?»
«Sì, proprio lui, nel 1740, mi pare. Ma se il suono che sapeva cavare dal suo violoncello era sublime, la sua agilità era però assai misera cosa, e superata di gran lunga dal Cervetto o persino dal Pasqualini; il povero Caporale ne soffrì talmente che accelerò la sua fine, morendo pochi anni dopo proprio a Londra, nel '46.»
«Un anno dopo l'arrivo del Guadagnini?»
«Sì, all'incirca. Ma fu proprio il '46 l'anno in cui James ricevette il violoncello: non prima.»
«Perché? Ci voleva al massimo un mese di viaggio per raggiungere Londra.»
«Certamente, e infatti il gentiluomo arrivò dopo sei settimane, solo perché la fragilità della sua salute aveva reso consigliabile un viaggio lento e più volte spezzato da lunghi riposi, ma era già in Inghilterra nella primavera del '45.
Per tutti i primi mesi si recò in incognito a sentire i concerti in cui il suo vecchio amico suonava nell'orchestra o eseguiva dei brevi assolo. Viveva in un modesto albergo vicino al Drury Lane, il teatro di cui James era diventato violoncello principale, ma anche manager, accrescendo così considerevolmente la sua fortuna economica. Per intenderci, si trattava del teatro in cui il grande Garrick, l'attore shakespeariano più famoso del mondo, ebbe i suoi trionfi. E a Londra il nome di Cervetto era molto noto come quello della figura popolare, anzi caricaturale, del ricco e abile commerciante ebreo.
Il gentiluomo cominciò a seguirlo ogni giorno nelle sue faccende quotidiane: l'andare alle prove, o in giro per stampatori a organizzare la preparazione e vendita delle sue edizioni musicali, o a riscuotere gli affitti negli appartamenti di sua proprietà, o ancora andare a trovare i banchieri per curare i suoi interessi finanziari. Lo seguiva e lo spiava con meticolosità esasperata, quasi come se occupare così tanto la mente in dettagli gli impedisse di sentire la troppa sofferenza che portava in sé.
Verso la fine di settembre, in una giornata terribilmente fredda, grigia e umida, il gentiluomo credette di essere giunto alla fine dei suoi giorni. Giaceva a letto febbricitante, e il medico gli aveva già fatto innumerevoli salassi, senza più dargli ormai alcuna speranza di guarigione. Scrisse allora un biglietto, e l'inviò a casa del suo vecchio amico, chiedendogli di venire a visitarlo con urgenza.
James si precipitò a trovarlo, e l'abbracciò con calore fraterno. Parlarono per ore, nonostante la debolezza che spingeva al sonno il disgraziato, deforme Cervetto. Parlarono della loro vita insieme negli anni preziosi dell'adolescenza, dei loro studi, dei loro sogni di luce e di ombre. Tardi nella notte, distrutto dal suo male, il gentiluomo indicò all'amico la cassa in cui era stato trasportato il magnifico violoncello del Guadagnini, là in quell'arca di legno e gesso, per assicurargli la più perfetta protezione, per esser donato al fratello, al figlio, all'amante, all'unico essere che avesse mai rotto la barriera della sua infinita solitudine.
Ma James non sentì nulla: si era addormentato sulla sedia...
Esisteva, a quell'epoca, un aneddoto famoso su di lui: pare che una sera, durante una recita a teatro nella quale il grande Garrick stava recitando la parte di Sir John Brute, tutto il pubblico nella sala osservasse il più profondo silenzio, gli occhi fissi su quell'incomparabile attore. In quel momento così critico, in quel formidabile silenzio carico del senso della tragedia che l'arte di Garrick stava centellinando nell'atmosfera della sala, il povero Cervetto emise dall'orchestra un così sonoro sbadiglio che, per il momento e per la goffaggine colla quale sortì dalla sua bocca, scatenò una violenta risata per tutta la sala. Garrick, offeso, fissò negli occhi il musicista, e lui, accortosi della rabbia del suo eroe, si inchinò, e nel suo buffo inglese emesse con suono lamentevole queste parole: "I beg you ten thousand pardons, but I alway do so ven I am ver much please".
Lei capisce, quell'uomo continuava ad avere buona salute e un aspetto decisamente giovanile, soprattutto perché riusciva a dormire perfettamente bene, e non angosciarsi mai, in nessuna contingenza!
Ma beva, beva ancora qualcosa, se le fa piacere!»