Hannah.

 

-XXXIII-

 

Partii da Vienna credendomi Eroe. Il viaggio continuava con il concerto di Copenaghen, il 22 novembre: le Suites di Bach per violoncello solo, nel salone barocco del castello di Rosenborg, la residenza privata fatta costruire nei primi del Seicento dal grande Re Cristiano IV di Danimarca.
Volare, ormai, mi era proibito: ogni volo si chiudeva con la mia sordità, e di volta in volta l'udito peggiorava. Ahasvero aveva giurato di scrivermi una lettera, anche breve, anche solo di poche righe, ma una al mese, ogni primo del mese, per informarmi sui necessari spostamenti o cambiamenti nella sua vita rifugiata. Io già su quel treno cominciavo a scrivere i miei primi appunti, perché pensavo che un giorno avrei dovuto lasciare una memoria scritta del nostro viaggio santo nel mondo.
Giunsi in Danimarca di mattino all'alba, in un'alba di modernità, efficienza, rapidità e leggerezza. La lingua suonava bella alle mie orecchie: divertita, relaxed, cool, unproblematic. La gente era abituata a sorridere, a dirsi gentilezze; stava persino ad ascoltare una storia tragica, quasi con la coscienza di un senso positivo di riemersione dall'angoscia, come un ottimo subaqueo in apnea. Non sapevo se odiare o amare quella tecnica, ma finii coll'innamorarmi, e vivere l'unico tempo di amore inscritto nel mio destino, quello che Sophia mi aveva fatto sognare ma non mi aveva dato, quello che Giulia non poteva offrirmi, quello col quale nessun'altra donna sulla terra avrebbe mai potuto benedirmi: Hannah Jacobsen-Melchior, sirena, santa, angelo fragile e volatile, spirito purissimo del femminile, apparizione della speranza e della pace.
Era una pianista, diplomanda al Conservatorio di Copenaghen, figlia di un commerciante di tappeti e di una pittrice di paesaggi e animali. Il padre era di fede e di famiglia israelitica, la madre una protestante poco assidua nella pratica della sua religione, fatta eccezione per i litigi settimanali col marito, ritornato all'osservanza del complicato precetto sabbatico all'età di cinquant'anni, e malato di un cancro al polmone.
Hannah fuggiva da casa, in quei giorni, e venne al mio concerto; subito dopo, era in un angolo della saletta dove ricevevo la gente a complimentarsi con me; stava con gli occhi fissi sui miei, ad attendere il suo turno, che voleva fosse l'ultimo. Così ero già pieno del suo sguardo, quando mi parlò per dirmi che le avevo trasformato l'udito in vista, e le era cambiato definitivamente qualcosa nel cuore.
Rimasi con lei a lungo, parlando di tutte le cose del mondo, godendo del suo viso chiaro e infinitamente femminile, la sua voce fatta di suoni soavi ma euforici, di una giovinezza luminosa.
Si scherzava sul carattere danese e si diceva di Dio e della sua musica, insieme, danzando con le parole in quella grande sala da ballo e musica d'un Re bizzarro.
C'era una scala a spirale, per salire: era la ragione per cui si era dovuto sostituire il programma col pianoforte degli altri concerti della tournée, e si era aggiunto questo delle Suites per violoncello solo. Fui felice di essere solo: il Guadagnini aveva sempre dato il meglio di sé quando non era accompagnato, in quell'assoluta libertà di duettare solo con se stesso; ed ora io ne godevo il raccolto dei primi frutti conquistati.
Pensavo orgoglioso che quella scala a spirale era stata l'inizio della mia nuova, vera, regale ascesa; verso la metà del percorso c'era una buffa bacheca, a conservare il buffo dialogo di una camicia sporca sul collo di larghe macchie marrone-rossastro e un elegante bustino secentesco di velluto porpora, con ampio colletto bianco di trine, sporco più della camicia; questi strani, goffi manichini erano sormontati da due corone di seta e merletto, sospese sopra lo spazio dell'assenza delle due teste coronate, e al posto delle gambe erano stesi, come ad asciugare, due grandi fazzoletti macchiati come la camicia e il colletto; Hannah mi spiegava con grande serietà che il Re Cristiano IV aveva ricevuto una palla di fucile nell'occhio, durante una battaglia, e quelli erano il vestito e i fazzoletti inondati del sangue di quel giorno.
Mi piaceva ascoltarla: era così divertente vedere con quanta riverenza ancora spiegava della battaglia di quel surreale "doppio Re vuoto", che pareva lì in attesa del bucato fresco, pronto per una nuova prova detersivi in lavatrice...
Era bello ridere con lei.
E lei mi mostrava ancora con altra riverenza il grande ritratto di Re Cristiano IV, gigante obeso col pesante ventre a pera, la piccola testa in cima, dall'aria crudele, il lungo naso e il mento sporgente, accentuato sempre dalla barbetta in punta, l'orecchino pendente a destra, e sulla sinistra una lunghissima treccia sottile sottile, che finiva sul petto intrecciata a un bel fiocco rosso; poi la frangetta dei capelli lisci e castani al filo delle sopracciglia scure, su occhi penetranti, scrutatori, spietati; nell'insieme, più pirata Barbanera che Sovrano, eppure bizzarro genio di invincibile guerriero vichingo.
Hannah mi raccontava delle sue battaglie e delle sue grandi idee innovative per la Danimarca: gente delle Fiandre chiamata a vivere nella sua capitale, per portare l'esperienza di popoli che dominano le rive dei grandi mari, coltivandole e rendendole sicure; musicisti dall'Italia, Germania e Inghilterra, per dar eleganza e buon gusto ai balli e ai canti delle sue rudi tradizioni nordiche; scienziati e astronomi di ogni nazione per la sua sete ardente di conoscenza.
«Vieni con me, ti farò vedere una salita a spirale ancora più bella e molto più grande di questa!», mi disse Hannah. E in quella serata freddissima ma con un cielo pieno di stelle, mi portò ai piedi di una massiccia torre rotonda, nel centro della città barocca, sulla quale a caratteri grandissimi e dorati si leggeva il nome di Dio in ebraico. Su quella cima, mi diceva, c'era l'osservatorio astronomico del Re Cristiano, e ci si arrivava in carrozza o a cavallo salendo per la lunga spirale rotonda. Là, a quelle altezze, maestri ebrei d'astronomia spiegavano al Re curioso il Nome di Dio scritto nelle stelle.

Di dettaglio in dettaglio, nel freddo pungente che dava piacere, Hannah mi mostrava luoghi, mi raccontava saghe e fiabe dei suoi avi pagani, cristiani ed ebrei, e io, quella notte, sognavo un'adolescenza che mi era stata negata, l'avventura sui mari, la battaglia eccitata e giocosa, l'affondar di spada e il saltare sull'alto di un qualcosa per mostrare a tutti la mia vittoria. Ero un ragazzo innamorato, con l'adrenalina alle stelle.
Andammo a dormire ognuno per sé, con un primo bacio pudico e una promessa dolcissima conficcata nel cuore. Mi portavo addosso il suo profumo di fiori d'innocenza, mi stringevo al calco di quel primo contatto dei nostri visi, chiedevo a Dio una tregua, un poco di gioia, un sogno di amore, un'illusione di pace, un tempo per nascere, per crescere, un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare ciò che era stato piantato... sì, Dio: tempo di piangere e tempo di ridere, questo solo volevo! Tempo di cercare e tempo di perdere, tempo di custodire e tempo di gettar via! Signore! Questo ti chiedevo! Tempo di lacerare e tempo di cucire! Tempo di tacere e tempo di parlare! Perché non a me? Perché si negava a me il tempo?
Lei era bella come il sogno più bello, stringendola agli occhi e modellandone il viso nell'aria, la più bella delle linee e dei contorni, più bella dei profumi e dei petali, lei sfuggiva e tornava alla mia anima, silenziosi occhi azzurri di ninfa, perla variegata d'arcobaleno, e mi carezzava con dita di sabbia, scivolando via dal mio cono, giù, nel pozzo della clessidra.
No! Dovevo averla! Doveva essere mia, Presto, più presto: prima che la magia svanisse nel fiato che si sparge respirando, nel vapore che scompare veloce! Non c'era tempo, con la pressione della mia memoria a comprimermi il cuore.
Tre giorni a vederci, passeggiare, dimenticare. Sempre più dolci, sempre più intensi, sempre più avvolti nell'abbraccio dei nostri desideri. Tre draghi, le code intrecciate in spirale vorticosa verso il cielo, finissimo fuso di rame dalla punta acuminata, metamorfosi di un corno di narvalo in rettili verdi nel basso, dalle fauci spaventose, a divorare colui che cade dall'alto della sua vanità: questo contemplavo, nel luogo dei nostri appuntamenti; cupola bizzarra del Re bizzarro, a decorare la fuga di tetti fiamminghi del palazzo che aveva fatto costruire per la Borsa del suo popolo di mercanti e pescatori.
Quattro notti a sognarla, stringerne il resto dell'aria imbevuta del suo umore, carezzare la sua impronta. Quattro lettere del Nome di Dio, onnipresenti dall'alto della torre rotonda, fuse in metallo nobile e dorate, ma scritte come il dito che disegna sulla sabbia in riva al mare, coi movimenti ondulati in direzioni all'apparenza casuali, d'un gesto effimero, incurante delle proporzioni e della bellezza. Lettere ebraiche coi loro segni vocalici a stabilirne senso e suono, a far risonare il Nome silenzioso e muto a tutti gli occhi della città, annuncio e richiamo non acustico, da quella torre di Qual è senza campane, nata per scrutare le stelle con maestri ebrei, e interrogarle sulla Dottrina del Dio senza forma, senza spazio e senza tempo.
Cinque baci delicati di saluto, uno per giorno, avvicinando la porta del suo cuore, scoprendone il segreto, spiando il mondo al di là di quella serratura. Cinque baci per conquistare quell'amore, prenderlo a piene mani, inebriarsi di senso, di morbidezza fugace, di giovinezza già passata ad ogni nuovo istante, e sentire il culmine della gioia e la paura del ritorno, della caduta, della fine del sogno, dei mostri là in fondo, ad attendermi impietosi nel loro limbo, nella stanza dei morti.
No, Hannah non avrebbe saputo! A lei non avrei detto nulla: mai, per sempre! Avevo bisogno, troppo bisogno del suo sorriso! L'avrei ucciso per l'eternità, non sarebbe tornato mai più ad illuminare il mondo! Hannah doveva credere che io fossi solo un artista! Un poeta triste, uno scultore d'illusioni tridimensionali della tragedia, un fabbricante di oggetti pesanti ma ingabbiati nella loro immobilità, inanimati e dominabili col solo girare il proprio sguardo altrove o chiuderli al di là di una porta. Hannah doveva sorridere per il mondo intero: quel mondo che io dovevo commuovere col pianto della mia terza corda e con la visione della mia eterea, segreta quinta voce sottile.
E così, Ahasvero, Hannah era già diventata solo più il mio segreto più pesante, chiuso nell'arca dei miei pensieri, ormai imprigionata nella tue maglia di rete vischiosa. Anche lei! Dannato demonio! La sua purezza, la sua bellezza luminosa, la sua natura semplice, la sua intelligenza gentile! Anche lei era eternità soggetta al tempo, che tu, demone di luci notturne, condannavi alla mia pena, attraverso il mio bisogno...

 

 

 

 



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