Fare musica oggi dovrebbe obbligare il musicista a farla capire alla gente; la gente dovrebbe dire “La riconosco! È la musica!” Perché c’è e ci sarà un mondo sempre più babelico, confuso, e in quello, l’unica lingua universale sarà la musica. Il nostro dovere sarà non permettere che la musica divenga una lingua come tutte le altre, veicolo di separazioni e conflitti, torre di Babele che impone l’autorità di un unico padrone e di un unico pensiero.

 

"Jardiner"

curare il proprio giardino

 

Le temps que lui laissaient ces mille affaires, ses offices et son bréviaire, il le donnait d'abord aux nécessiteux, aux malades et aux affligés; le temps que les affligés, les malades et les nécessiteux lui laissaient, il le donnait au travail. Tantôt il bêchait la terre dans son jardin, tantôt il lisait et écrivait. Il n'avait qu'un mot pour ces deux sortes de travail; il appelait cela jardiner.
—L'esprit est un jardin, disait-il.

(Victor Hugo, Les Misérables)

 

“…Il violoncello è una scultura, fatta di pieni e di vuoti, realizzata “cavando” materia dalla materia, finché l’opera che occupa uno spazio non diventa spazio anch’essa, spazio per altre opere, altri mondi.
Così è, così deve essere ogni opera d’arte universale: luogo, spazio in cui l’atto di “sottrazione” genera oggetti la cui bellezza attrae e persuade con l’ineffabile incanto della levità. Questa è l’arte che può scendere nelle regioni più remote e profonde della “gravità” e della tragedia, per risalirne portatrice di messaggi sublimi…
Ecco: vorrei che la musica di Bach fosse eseguita e fruita come una scultura, nell’infinità di forme che può assumere in virtù dei soli spostamenti del nostro sguardo. Solo in questo modo il gioco di preludi e danze in sequenza che in ogni Suite Bach sviluppa nelle astrazioni della sua immaginazione musicale, sembra acquistare un significato convincente: quasi come se in quell’eterno, ininterrotto “danzare” di suoni armonici, ogni movimento del corpo si rovesciasse in movimento dell’anima, nel paradosso meraviglioso di un oggetto immutabile, che pure è sempre infinitamente nuovo e diverso ad ogni istante.”

(Claudio Ronco, Bach Suites, a sculptural performance)

 

Di fronte alla visione di infinite combinazioni possibili, l’intelligenza del compositore di musica pone la “griglia” di un sistema, legato a sua volta a un’estetica; l’interprete, a sua volta di fronte alla visione di infinite combinazioni possibili di accenti e intrecci, un’altra griglia la compone con un numero di possibili scelte, provenienti da una cultura estetica costruita col tempo e con la volontà di una catena di maestri.
Tutto ciò è assai simile al cielo sopra una città abitata e vivace, dove l’insieme delle luci a terra diventa filtro al troppo vedere, sì che solo in parte noi si possa percepire l’infinito oltre il famigliare disegno del firmamento e delle sue costellazioni…

 

 

“Ricordo bene la leggerezza straordinaria dei miei passi quella notte, mentre tornavo a casa; era come mi sostenessero mille angeli alle mie spalle, col loro soffio fresco, gentile. C’era una curiosa elasticità nei miei piedi: a tratti quasi mi fermavo nel provarla, sospingendo il calcagno in alto, e accorgendomi che pareva restar sollevato da terra, staccarsi dal peso del corpo: ognuno di quei “levare” poteva essere infinito, e forse sarebbe bastato crederci, e fermarsi a mezz’aria, scomparendo per sempre dal mondo, in un salto, nell’eternità.
Nella mia camera la custodia del violoncello era chiusa, ritta in piedi di fronte al letto, là dove l’avevo lasciata. Mi addormentai dolcemente, profondamente. E quel mattino si aprì con nuova forza: l’arco iniziò a spingere soavemente le corde del violoncello, le mie dita forti, sicure, a indirizzare i suoni all’armonia, a vibrare nella perfezione delle sfere, per riscaldare l’anima, risvegliarla, e iniziare il suo canto nuovo.
In quel momento non c’erano più parole nel mondo intorno: le cose lasciavano i loro contorni e le loro forme; i nomi si dissolvevano districandosi poco a poco dai loro grovigli; si generavano catene ininterrotte di lettere intrecciate secondo numero e frequenza, passando dalla luce all’ombra con solo il piccolo, impercettibile spostamento d’una frazione minima, nel premere o nell’inclinare diversamente le dita sulle corde. Muovevo lento, comandando l’ordine di due voci simultanee, fra ritardi intensi quanto invocazioni o preghiere, risolti in terze o seste solenni, e mi aggiravo maestoso, nel cerchio perfetto del ciclo tonale estremo: dodici suoni eletti, dall’uomo e da Dio, per descrivere le porte del mondo all’anima, accecata dai succhi velenosi, dalla polpa mortale del frutto proibito in Eden.
In ogni tono un giardino, in ogni nota un essere, maschio e femmina, l’uno parte dell’altro e parte di Dio, fiori e frutti insieme, seme e albero uniti, immagine in movimento del Creatore. Sotto ogni tono la sua terra, orto coltivato con l’amore, amore coltivato con sapienza, sapienza coltivata con l’intelligenza, intelligenza coltivata nella speranza.
Sopra, quella voce serena, quella risonanza leggera: la quinta corda, fatta d’aria finissima, ritorta dalle dita bianche e sottili dei Cherubini, tesa fra i punti invisibili delle estremità dell’universo materiale, d’atomi musicali, richiamati fra loro da armonia pura, a formare le cose; materia, là per essere lasciata, perduta, e ancora ritrovata. Cerchio di risonanze ineffabili, eppure razionalmente cognite; nella quinta corda ora era il premio, l’intelligenza e lo spirito uniti, a pizzicarne il suono, e coglierne l’effetto.
Ora, la mia lezione era completata.”

(Claudio Ronco, Il violoncello errante)

 

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