MONTAGNE SACRE
Echi dall’Antico Testamento.


Monologo teatrale di Claudio Ronco,
per un attore violoncellista,
su musiche originali dell’autore e di J.S. Bach.




“Quello che fu è quello che sarà, ciò che è accaduto è ciò che accadrà,
non c’è nulla di nuovo sotto il sole”

Ecclesiaste 1:9

 

 


Scena:
Nel buio inizia a diffondersi la voce registrata di una donna che legge il passo di Ecclesiaste 1:9, con un effetto eco che produce l’impressione di un moltiplicarsi della voce. Sopra la coda dell’eco inizia il brano musicale intitolato “Air-one”, per orchestra midi.
Si accende la luce in un ambiente quasi vuoto che rappresenta la stanza di lavoro di un compositore violoncellista: una sedia a cui è appoggiato un violoncello, un leggio pieghevole, un grande specchio posto su un cavalletto da pittore a fianco della sedia, una custodia rigida di violoncello, messa in piedi vicino allo specchio, una lampada a stelo e una scrivania con un computer rivolto in direzione opposta al pubblico; sulla scrivania ci sono carte, pacchetti di sigarette e portacenere, un bicchiere e una bottiglia di vino. L’attore entra in scena con una tazza di caffè in mano, come tornando al lavoro dopo una pausa. È vestito elegantemente, ma non in nero o in frac; si accomoda sulla sedia imbracciando il violoncello, prende uno spartito dal tavolo, lo dispone sul leggio e comincia a suonare insieme al brano registrato, come a una prova con l’orchestra.

Fin dalle sue prime parole, e per tutta la durata dello spettacolo, la sua recitazione continuerà ad alternare uno stato emotivo esaltato e retorico a un modo sarcastico e disilluso di “raccontarsi”, a volte venato di una malinconia in bilico fra la dolcezza e l’abbandono a un indefinibile sentimento di profondo, silenzioso dolore.
Deve inizialmente apparire chiaro al pubblico che il personaggio sulla scena parla a qualcuno che altri non è che se stesso, e dunque rappresenta un personaggio immerso nella solitudine, e non un uomo posto di fronte a un’assemblea.
Tuttavia, una certa continua e costante ambiguità deve emergere in ogni parte della rappresentazione: tanto nel parlare quanto nel suonare, si deve offrire la sensazione al pubblico di non poter a stabilire con certezza se il personaggio sia cosciente o meno della sua fittizia solitudine. A un punto, si dovrebbe portare il pubblico a credere che, nascosto da qualche parte in scena, sia presente il figlio, pronto a uscire dal buio nel momento cruciale e rispondere alle parole del padre.
Alla fine dello spettacolo l’attore-violoncellista deve uscire di scena così come è entrato, spegnendo la luce.

Nel copione, le parole o le frasi dell’attore indicate col corsivo si intende vadano dette con particolare enfasi, o quasi sillabando, in modo da separarle dallo scorrere del racconto, come citando altri testi già noti. Quando al corsivo si aggiunge il grassetto, si intende aumentare ulteriormente l’enfasi della parola o della frase, che deve emergere con chiarezza come cosa il cui valore e significato è necessario espandere e aumentare di altro senso.



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(Entra l’attore con una tazza di caffé in mano, mentre scorre il midi di “Air-one”; rivendosi alla custodia vuota del violoncello,in piedi di fronte a lui:)

Cara custodia del mio violoncello, dimmi: come si fa a liberare un uccello dalla gabbia in cui è stato imprigionato dall’uomo, senza aprire o distruggere quella gabbia?
...Resti in silenzio?
beh, ma il tuo silenzio non dà nessuna risposta...
Ti rispondo io, allora: è sufficiente allargare, dilatare la sua gabbia all’infinito. L'ha detto nientepopòdimeno che Einstein!
Ecco: come vedi, anche l’infinito, o un dio che ti messo in gabbia, è cosa che deriva e dipende dalle tue capacità percettive, e queste dipendono dalla tua memoria...
Ma a te che importa di queste cose, custodia senza memoria?...

(indicando il computer:)


...una bella melodia, non è vero?...

(la ripete al violoncello solo, poi indica lo schermo del computer:)

… l’ho accompagnata con questo movimento dei violini..

(si ascoltano i violini soli, dal midi)

… i violini e le viole si passano l'uni agl'altri note scorrevoli, veloci ma tranquille, sicure sulle loro armonie...

(suona la melodia insieme al midi)

... così la melodia fluisce con le loro ali… o con le proprie... sogna, gioca, ammira, vola... Auf flugeln des Gesanges, sulle ali del canto...

(spegne la riproduzione della musica.
Puntando gli occhi al cielo:)

Perché l’ho scritta?...
Perché “Quello che fu è quello che sarà, ciò che è accaduto è ciò che accadrà, non c’è nulla di nuovo sotto il sole”! Ecclesiaste 1:9!
Tutto ciò è null’altro che una variante, semplice o complessa, chiara oppure scura, palese oppure nascosta degli stessi archètipi, invariabilmente auto-riproducentesi nel mondo, in tutti i mondi... per nostro destino, o disgrazia, o fortuna...

No no, va bene, d’accordo: la smetto subito di giocare al sibillino...
L’ho scritta semplicemente perché scrivere musica è il mio lavoro.
E
infatti mi era stata richiesta, con tanto di contratto firmato e controfirmato, su cui era specificato in perfetta chiarezza che io avrei dovuto comporre le musiche per un nuovo spettacolo teatrale.
Intitolato: “Sinfonia di parole”...

(sarcastico:)

Sinfonia di parole
… ma guarda un po’!… non più violini, contrabbassi, flauti, oboi, trombe e timpani, ma parole
Di quella nascita le è rimasto solo il nome... cioè il titolo: “Air-one”, che sembra il nome dell’aereo privato del presidente americano, in quel film in cui gli alieni cominciano a distruggere la terra a partire dalla Casa Bianca, e l’atletico presidentissimo viene portato in salvo perché poi deve tornare a combattere i cattivi come un vero marine
E mi sentivo pure fiero di me, per aver nascosto così bene quel semplice significato: “Air-one”, ossia “prima Aria”… un’Aria per l’orchestra, come l’avrebbe scritta ai suoi tempi un Purcell, o Couperin, o Arcangelo Corelli… un’Aria per salire al Parnaso nell’approvazione degli dèi; un’Aria come una scala, un passaggio, per offrire al mondo depresso nella sua desolazione, un’opportunità per ascendere, una possibilità, una speranza, una consolazione… un’Aria come un ascensore...

(ride fra sé)

Sì, caro mio! Io avevo scritto un’altra Sinfonia in musica per trovare perlomeno un’occasione di confronto, anzi: di onorevole battaglia, con l’ennesima sinfonia di parole che il mondo attorno a me ininterrottamente produce e consuma, ri-produce e ri-consuma... finché morte non sopraggiunga...

E così l’ispirazione era arrivata veloce, chiara, chiarissima, esatta, come non mi era mai successo prima in tutta la mia vita. Pochi giorni d’incanto, e alla fine tutto era scritto lì, nero su bianco,

(indica lo schermo del computer)

dentro al mio fedele computer –ordinateur, come dicono i francesi... che mette in ordine il disordine...

Tutto scritto e rifinito, pronto ad essere stampato su carta per finire sui leggi dell’orchestra. Poi l’orchestra sarebbe arrivata alla prima prova chiacchierando di tutte le cose al mondo che non hanno a che fare con la musica; a coppie parlottanti si sarebbero accomodati, avrebbero distrattamente accordato i loro strumenti al La (sempre crescente) del primo oboe, poi gli occhi sarebbero caduti sui leggii, per eseguire ad arte il canone mormorato di sessantaquattro intonatissime voci:
«Ommioddio! un altro pezzo contemporaneo... cominciamobbene!...».
Ma io ne sono certo: avrebbero eseguito le mie note più diligentemente del solito, proprio perché… perché diverse.. e cioè nuove... nuove perché animate da una memoria antica
In una parola, le avrebbero rispettate... e cioè le avrebbero suonate con esattezza, come fanno con Vivaldi o con Corelli... perché queste mie sequenze di note sono belle, indubbiamente belle...

(rivolgendosi alla custodia vuota del violoncello:)

Poi cos’è successo?
Grazie di avermelo chiesto! Temevo non te ne fregasse nulla...

Allora: quel bel tipo del regista –che è uno di quelli che hanno sempre successo, perché annusa tutto quello che piace a tutti e lo fa suo– , bene, alla fine della prima prova dello spettacolo, ancora prima di riunire orchestra e microfoni e registratori per incidere le mie musiche, questo bell’elemento della contemporaneità viene da me e mi fa: «Senti, qua ci vuole un finale diverso, qualcosa per sdrammatizzare, per rendere un’atmosfera positiva… ci vorrebbe qualcosa tipo un Blues... te lo ricordi “Hit the road, Jack”?… sì, proprio quello. Vedi un po’ com’è la faccenda dei diritti d’autore, se no scrivimi tu qualcosa del genere, che qui bisogna risparmiare. Ma fammela uguale uguale, che tanto basta cambiare giusto un po’ qui e un po’ là…»

Hai capito? Quell’imbecille mi ha pure preso per i fondelli: dovevo scrivergli la versione economica dei miti blues-rock!
L’ho fissato negli occhi, duro, e gli ho sparato in faccia una raffica di parole quasi sinfoniche:
«Quando Toscanini dirigeva alla Scala, negli anni del fascismo, –gli ho detto– si rifiutò pubblicamente di far eseguire all’orchestra l’inno d’Italia a fine serata. Per questo dovette fuggirsene in America. Io non sono da meno: io mi rifiuto di partecipare a un festino del rock o della musica commerciale moderna; io rifiuto di genuflettermi alle icone del potere, e quindi mi rifiuto di cantare l’inno Hit-the-road-Jack prima, durante o dopo una qualsiasi occasione in cui io abbia parte attiva come musicista!
Io rifiuto tutta l’attuale “cultura di massa”, indistintamente; rifiuto l’idea stessa di una “cultura di massa”, perché la riconosco e la giudico folle e distruttiva!
Ho rinunciato a qualsiasi facile approvazione dei miei contemporanei, perfino quando ero bambino e non mi interessava d’esser simpatico o antipatico ai miei coetanei!
Ho scelto di rinunciare al successo facile, alla ricchezza facile, al compiacere il pubblico che vuole lo spettacolo della personalità!
Io mi sono tirato in disparte, nel mondo, proprio per lasciare almeno un piccolo frammento di quel che so di musica. E quel che posso produrre, lo ri-conosco perché l’ho ereditato dai maestri del passato, ovvero quelli che gli altri, musicisti o ascoltatori, gli altri, ripeto, consumano come cannibali, senza alcuna intelligenza!
Caro il mio regista rampante –gli ho detto– : tu vuoi solo far successo, ma io non vivo e lavoro per “i miei contemporanei”; io vivo e lavoro per quelli che potranno in futuro godere di qualche frammento residuo di bellezza, poiché anch’io avrò contribuito a conservarglielo, per quel giorno in cui la follia dei nostri tempi sarà giunta all’inevitabile fine che ognuno, con poco sale in zucca o tanta cultura, dovrebbe poter prevedere senza dubbio alcuno!...

Ma pensa un momento: che cosa significherebbe la musica che ho composto “contro” il blues e il rock della nostra quotidianità, se accettassi di continuarne l’ascolto con un pezzo rock da ascoltare proprio in modo di conclusione?
Non basta il fatto che una volta usciti dal teatro si ritrovano in mezzo al caos della città?
Non hanno forse sufficienti offerte di intrattenimento e divertimento dal mondo in cui vivono?
Non pensi che siano fin troppo bravi a sdrammatizzare da soli qualsiasi realtà tragica, anche la più tremenda, semplicemente comportandosi come fanno tutti i giorni della loro vita?»

(nuovamente si rivolge alla custodia vuota)

Ho parlato a un muro.
Non come te: tu sei dura, è vero, ma almeno sei vuota dentro, e un po’ di risonanza lì dentro ci deve pur essere... invece quello era proprio un muro di cemento: quello che si assorbe tutti i suoni e li spegne sulla sua grigia superficie!

Un muro molto diplomatico, è vero, che lì per lì mi aveva dato ragione, giusto per farmi perdere ancora qualche giorno di tempo, nell’illusione di esser stato ascoltato.
Poi la ragion comune pretendeva il rock sdrammatizzante, e allora io ho finito col tirar su un bel dramma sul serio: ho preso le mie cose –partitura, spartiti e strumenti– e ho detto: «trovatevi un altro che vi faccia la musica che vi serve. Tenetevi pure tutti i soldi promessi e fatemi pure causa.»
Così ho mangiato pane vecchio e cipolle per sei mesi per pagarmi un’anima pulita…

(scarica col violoncello una sequenza di note rabbiose, in modo di un’improvvisazione, e dopo poco le calma, in una sorta di “recitativo” atonale)

No, non ho sofferto la fame; ormai, nel nostro mondo, finché si vive nella zona dei ricchi qualcosa si riesce sempre a mangiare, per buona o cattiva che sia.
Io ho sofferto la disillusione, e non era “amara”, come le medicine di una volta, ma velenosa, mortifera, ineliminabile...
E non l’ho dovuta soffrire in relazione a un mondo esterno, che non mi appartiene, che non mi tocca: ma all’interno di me, impastata a tutto quello che sono, che ho e che mi fa vivere, lavorare, faticare, mangiare, dormire, amare…
Io ho dovuto vedere mio figlio, il mio primogenito, il figlio che io amo, darmi contro, disprezzarmi, proprio per questi fatti banali, o meglio: proprio quelli da cui io mi sono difeso perché difendendomi ho difeso l’arte, e quindi mi sarei atteso ammirazione, rispetto, per quell’idealista che lui è, perché così io l’ho fatto, l’ho cresciuto, l’ho formato

(si guarda allo specchio)

Dovrei ripetermi diecimila volte davanti allo specchio: ma cosa vuoi da lui? Lui non ti appartiene! Non può essere “cosa tua”!
E non c’entra un bel niente neppure sua madre, che anche lei non riesce a comunicare con suo figlio più di quelle magliette che gli stira o quei cibi che gli cucina… si è rassegnata ad essere una donna servile e taciturna con il figlio, e belva nel mondo del lavoro, per farsi accettare come donna attiva nella società del potere… che realtà grottesca!

(parlando tutto d’un fiato, in gran fretta:)

Così lei, madre e moglie, caccia di casa me, il marito che lei non ha mai voluto né servire né tenere di fronte a sé come guida ed esempio per la famiglia, semplicemente perché a un certo momento non ho più portato a casa la pagnotta, visto che voglio fare l’idealista nel mio lavoro e dar lezioni di etica al mondo, e invece di lezioni etiche ne avrei bisogno io, altro che insegnarle agli altri o ai figli! I figli costano soldi, non parole! non mangiano belle frasi pompose da eroe romantico! Il mondo non è fatto come credi tu! Prima paga, e poi divertiti a vederlo come ti pare!

—Ah, se Sara avesse detto così ad Abramo, che belle religioni ne sarebbero venute fuori! — Le ho gridato addosso.
E lei mi ha riso in faccia…

È stato proprio in quel momento, in quel preciso momento, che io le ho risposto con queste parole:
—Non sono nato, cresciuto, educato ebreo per ridere così di Abramo e Sara!—
Poi me ne sono andato senza più ascoltarla. E non ci siamo più parlati. Solo gli avvocati, in tribunale…

Ma su quella mia reazione non ho mai smesso di riflettere: Sara che ride…
Shamòr veZakòr! Osserva e ricorda! I rabbini dicono che noi non riuscivamo a distinguere quelle due parole, a separarle: le sentivamo come una, come un’unica sequenza di suoni articolati in una parola sola, sovrapposta, multipla: osserva e ricorda, Shamor veZakòr...
E io ricordavo, osservavo; Shamor veZakor: il passo di Genesi 18:15 —“Vatekhah'èsh Saràh lemòr lo tsah'aqetì ki yareàh vayomèr lo ki tsah'aqeté. – Sara negò dicendo: «Non ho riso»; perché aveva paura. E quegli a lei : «No, hai proprio riso».—
Sara aveva novant’anni, Abramo ne aveva cento. Sara aveva riso dopo che Abram aveva riso, nel sentirsi dire dalla voce di Dio che i loro corpi avvizziti avrebbero generato una figlio per la prima volta, proprio a quell’età!
Genitori di un uomo che chiamarono Isacco! Itzach, perché era generato dal verbo ridere: tzachac! una parola che inizia con un suono così vicino a quell’altra: Tzaddik, saggio…

Sara negò dicendo: «Non ho riso»; perché aveva paura. E quegli a lei : «No, hai proprio riso».— e il libro continua così: —Gli uomini si alzarono e andarono a contemplare dall’alto Sodoma…—
Il mio rabbino m’insegnava leggendo il commento di Rashì : —Andarono a contemplare: Questo verbo, nella scrittura, indica sempre un’intenzione malvagia…— e Abramo cercherà allora di salvare Sodoma, e chiederà grazia in conto di un numero di uomini giusti… almeno dieci ne vorrà Dio per salvarli tutti, ma non troverà altri che Lot e le sue due figlie da salvare… e una moglie che diventerà una statua di sale, voltandosi indietro…

E chi sarà quell’uomo giusto nella Sodoma di oggi? gli chiedevo io…
E lui: —su quale monte puoi salire oggi per contemplare il mondo? Da quale monte puoi vederlo dall’alto, oggi?—
—“Sara negò dicendo: «Non ho riso»; perché aveva paura. E quegli a lei: «No, hai proprio riso».– Vatekhah'èsh Saràh lemòr lo tsah'aqetì ki yareàh vayomèr lo ki tsah'aqeté. — Perché (ki) ebbe paura – no, ma (ki) hai riso — spiegava il mio maestro: —I nostri rabbini hanno detto che il termine ki ha quattro significati : se, forse, ma, in quanto che.—
Rabbino! –gli gridavo addosso– chi darà mai una risposta alle mie domande, allora? Se, forse, ma, perché ?
Forse ebbe paura – no, se hai riso! ma ebbe paura – perché hai riso! ma ebbe paura? forse hai riso! perché ebbe paura! no, se hai riso…
Rabbino, c’è di che impazzire! Che cosa spiego a mio figlio, ora che me l’hai fatto circoncidere come fece Abramo? ora che porta nella sua carne questo bel segno di distinzione? Lui me lo chiede: perché ? E io che gli rispondo? Se, forse, ma, perché? Perché cosa?
Perché sappia di essere diverso dagli abitanti di Sodoma! Ecco cosa. L’unica cosa che conta!
Tu, figlio mio, tu sei nato per ricordarti di Colui che ti ha estratto fra le genti, ti ha eletto, perché eri ebreo come Abram : ivrì, e questa parola, ricordalo, in ebraico significa : al di là dioltre… oltre le differenze… forse… se… ma… perché così sei stato scelto, così sei nato… sei nato anche tu per essere diverso
—Io voglio essere uguale a tutti gli altri, papà! — mi rispondeva. —Con quale diritto tu hai deciso di farmi eleggere?— continuava.
Rabbino! Cosa gli dovevo rispondere? Che sarebbero stati proprio tutti gli altri a fargli capire la differenza, prima o poi, che gli piacesse o no? Che non avrei voluto augurargli di dover spiegare a un neonazista inferocito o a un integralista islamico incazzato con la sua ebraicità di nascita e d’elezione, che lui non c’entrava niente perché era tutta colpa solo di suo padre!
E allora sono stato proprio io a nasconderlo, a tener segreta la sua appartenenza al popolo d’Israel…

Rabbino, –gli dicevo– la madre di mio figlio non è ebrea. Quindi mio figlio sarà ebreo solo, se e quando lo vorrà. Ma che faccio con la circoncisione? Devo costringerlo all’operazione chirurgica quando e se in età adulta deciderà di essere come suo padre, suo nonno e tutti i suoi antenati fino ad Abramo? Perché devo metterlo in condizioni di dover decidere di soffrire? Non è un’operazione chirurgica da poco, con o senza anestesia!

La circoncisione su promessa: questa è stata la soluzione.
Quando un padre ebreo ha un figlio con una donna non ebrea o non convertita all’ebraismo, si può comunque circoncidere il maschio all’ottavo giorno dalla nascita, purché sia in buona salute, ma il significato religioso dell’operazione varrà solo, se e quando in età adulta deciderà di sua volontà di accettare l’obbligo ai precetti e quindi di diventare ebreo a tutti gli effetti.

Perfetto, –gli rispondo– circoncidiamolo! E che per ora sia solo una scelta d’igene e di convenienza. Poi si vedrà. Avrà prima da scalare la montagna dello studio: la lingua e la scrittura ebraica, le leggi, le tradizioni… la storia:...

Caro figlio, tuo nonno si era del tutto dimenticato di essere un ebreo, ed era fiero di servire con onore la sua patria nell’esercito dell’Italia fascista. Poi, nel 1938, un brutto giorno qualcuno è arrivato a ricordarglielo, sparandogli in faccia mentre gli diceva: “Sei un ebreo” … e forse è stato molto meglio così… che morisse subito, senza aver tempo per pensare…
Però tu, figlio mio, sii prudente ! Non dimenticare, ma tienti i tuoi ricordi solo per te!
Per fare i testimoni ci vuole talento, e devi prima scoprire se ce l’hai davvero oppure no. Ricordati: nella lingua dell’antica Grecia, testimone e martire erano due concetti che si esprimevano con una stessa, unica parola. E noi siamo figli di un popolo di cui gli altri popoli hanno fatto comodo uso da caproni destinati al sacrificio...
La nostra tragedia risuona alle loro orecchie come quel che è, nel suo antico etimo greco: tragos-oida, il canto, la lamentazione del caprone…
L’annientamento del nostro popolo dentro ai campi di sterminio, la Shoah, l’hanno chiamata “olocausto”, come quando si bruciava l’agnello sull’ara del sacrificio, in onore e ringraziamento alle divinità.
Capisci? Noi saremmo morti bruciati nei forni crematori per compiacere le loro divinità, per ringraziarle, per ingraziarsele!
Come dei docili caproni sacrificali, come il capro che Dio fece trovare ad Abramo in cambio di suo figlio Isacco...
–E chi è Isacco, papà?–

E allora io gli raccontavo la storia di Abramo e Isacco.
Dio chiamò Abramo e gli disse:

“Prendi, ti prego, il tuo figlio, il tuo unigenito, quello che ami, Isacco. Vai alla terra di Morià, e offrilo in olocausto su uno dei monti che ti dirò”

—vayomèr qach'-na et-binèkha et-yech'idèkha ashèr-ahavetà et-Yitzàq velèkh-lekhà el-erètz hamoriyàh...—

 

"[...] Prendi, ti prego (na) – La particella na esprime una supplica. Dio disse ad Abram: « Ti supplico, supera, per me, anche questa prova, perché non si dica che le precedenti prove non erano vere».
Il tuo figlio – Abramo obiettò: «Io ho due figli! (Ismaele e Isacco)». Dio gli disse: Il tuo unigenito. Abramo rispose: «Questi è l'unico figlio per sua madre, e quello è l'unico figlio per sua madre!». Dio gli disse: Quello che ami. Abramo replicò: «Io li amo entrambi!».
Dio allora gli disse: Isacco!
Per quale motivo Dio non gli rivelò ciò fin dall'inizio?
Ciò fu per non gettarlo improvvisamente nello sconforto, confondendolo e turbandogli la mente.
E anche per rendergli più caro il suo comandamento, e per dargli ricompensa per ciascuna parola. [...]"

(Rashi di Troyes (1040 ca. - 1105), Commento a Genesi 22:2.
Trad. di Luigi Cattani, Marietti 1985.)


Sì, figlio: Abramo era cosciente! Non rispose a quell’ordine terribile con una fede cieca, ottusa, stupida! L’angelo si espresse con “ridondanza” di parole; così l’angelo gli diede tempo, e lui se lo prese: lo dilatò, vi penetrò con coraggio, lo attraversò nelle sue profondità, nei suoi abissi, ne riemerse e s’incamminò al monte!

Credi forse che ascoltasse solo le parole di quel messaggero?
Oh, no, tutt’altro! Le sue orecchie si tendevano a quell’altro suono, dietro la voce dell’angelo, quel retro-suono che si ascolta rintracciando l’aura delle vibrazioni sonore, esattamente come fa l’accordatore di pianoforti, quando accorda le quinte “a orecchio”, ascoltandone i battimenti armonici: Do- Sol, Sol-Re, Re-La... egli smette del tutto di ascoltare la corda che vibra, il martelletto che percuote, la forza o il gesto del dito che sfiora o batte il tasto, già pronto a raccontarci qualche storia in musica...

Noi, ignari osservatori del suo misterioso agire, seguiamo con l’orecchio il trasformarsi dei suoni, man mano che lui tende o rilascia la corda con la chiave, e quasi godiamo di quella musica minimalista, essenziale, dei due suoni che si incontrano e fondono in infinite sfumature del bello, fra confini quasi indistinguibili, eppure matematicamente, geometricamente esatti...

A un tratto ci verrebbe da dire: fermati! Ecco il punto preciso del miracolo acustico!
Non muoverti oltre, non cambiar posizione! non azzardarti neppure a respirare o tremare proprio adesso!
E’ un attimo perderla nell’infinito delle altre possibilità!
Potrebbe non riuscir più a ritrovarla nessuno!
Potrebbe spostarsi qualcosa per effetto del tuo respiro, dell’accelerare del tuo cuore, dell’eccitarsi di uno qualsiasi dei tuoi nervi...
Non so spiegarmi il perché, ma sono certo, assolutamente certo che questa è l’unica, assoluta, immutabile posizione in cui tutto è perfetto, e se solo il mondo potesse ascoltare e accordarsi a questo suono, allora tutto salirebbe in spirali armoniche verso il cielo, tutto svanirebbe per riapparire in una nuova realtà dove ogni errore dell’uomo e di Dio sarebbe corretto, e ogni inferno spento e convertito in paradiso...

Ma lui, l’accordatore, non ci sta ascoltando, e muove appena un poco il polso e la chiave. Nella nostra meraviglia nulla viene distrutto, ma tutto si sposta a un’altra perfezione, un’altra bellezza cui vorremmo attribuire le stesse qualità della prima...

Allora l’accordatore ti dice:
«No, non devi ascoltare le note! Non devi ascoltare come fai d’abitudine quando vai a un concerto, quando il tuo orecchio fa attenzione a carpire dal suono il gesto della mano, del corpo, dell’idea musicale.
Non devi concentrarti su cosa ti sta suonando il pianista, sul peso o sulla leggerezza del suo tocco, sulle sfumature di significato che ti suggerisce. Non devi più sentire nulla di tutto ciò, ma solo quel che resta del suono, “oltre” il suono.
Solo a quel punto sentirai i “battimenti armonici”, quel lieve pulsare, come un cuore lontano, invisibile: il cuore degli angeli... A quel punto tu ne ascolterai il ritmo, lo misurerai nel tempo, ne conterai il numero nello spazio diviso del tempo, e ti fermerai quando il numero dei battimenti sarà quello giusto.
Solo così potranno affiancarsi le une alle altre tutte le dodici quinte giuste, tutte di eguale forza e chiarezza, come dodici perfette costellazioni, nell’infinito dei cieli visibili agli occhi dell’uomo...»

E tu finalmente li vedi: 12 suoni come 12 sfumature dei colori dell’arcobaleno, 12 costellazioni nel firmamento infinito, 12 mesi dell’anno, 12 ore dal buio alla luce e 12 ore dalla luce al buio, 12 figli di Giacobbe e 12 tribù d’Israele, 12 apostoli per un Messia e 12 colonne tutte perfettamente uguali nel suo tempio rotondo, a sorreggerne il tetto di tegole d’oro...

Ma prima di tutto questo c’era Abramo, nostro padre Abramo, e le sue orecchie sottili!
L’angelo viene a portargli il messaggio di Dio, e dalle molteplici voci dell’angelo Abramo riesce a cogliere le risonanze, le armoniche più nascoste e più acute, a carpirne il messaggio segreto. Così Abramo edificherà la sua fede non sulla parola, ma “oltre” la parola! E per ogni parola ebbe ricompensa... anche per quelle “non dette”... anzi: soprattutto per quelle...

Abramo e Isacco, in silenzio salivano al monte Morià, nell’eclisse di Dio in attesa della fede dell’uomo... in silenzio salivano al monte, con passo ritmato sul pulsare del cuore degli angeli, nei battimenti delle loro ali, nell’aura dei suoni dei loro due corpi in movimento, come due suoni musicali a distanza di quinta l’uno dall’altro... salivano in silenzio... ma quale musica straordinaria stavano ascoltando nel cammino delle loro anime!

...E poi quell'idiota non la sente! perché –dice lui– non la capisce!...
Mio figlio, dico, come quando si canta una dopo l’altra tutte le parole di una canzonetta americana, e non ha mai imparato l’inglese! Non sa quello che dice, ma gli piace così! Parole che diventano musica alle sue orecchie, perché finalmente non deve coglierne il senso e il significato! non deve annoiarsi a capirle!
Mio figlio, che è cresciuto nella musica! Nella musica vera, quella che non ha bisogno di parole!

Quando era, come si dice, “ancora in fasce”, minuscolo animaletto indifeso, non facevo altro che fargli ascoltare tutto quel che di più bello mi veniva in mente... lo portavo sempre con me alle prove dei concerti... lui stava seduto lì tranquillo, ascoltava per ore l'assestarsi dei suoni, le armonie che pian piano trovano il modo giusto di risonare... e poi mi guardava sorridendo, con un'incredibile tenerezza, ogni volta che... volgevo a lui lo sguardo...

(ripete lentamente, come a intonare una canzone:)

volgevo a lui lo sguardo
...

Avrebbe potuto essermi riconoscente, in un mondo di padri che “non ci sono” se non la domenica per andare a divertirsi!
Invece no: è cresciuto, ha smesso di guardarmi negli occhi. Mi sfugge, come se fossi io l'appestato, quello che lo porterebbe alla rovina se solo si lasciasse andare a imitarmi...
No: lui era ancora un bambino e doveva essere uguale ai suoi coetanei! È diventato adulto e si fa scrupolo di omologarsi alla perfezione a tutti quelli che gli stanno intorno, meno che a suo padre!

(scimmiotta il figlio:)

«E cosa penserebbero i miei compagni di scuola se mi vedessero mentre ascolto la tua musica, papà?»
Vedessero” diceva l’idiota! Proprio così.
Oh… che sei un imbecille! certamente!
Molto meglio spaccarsi le orecchie e spaccarle al resto del mondo sparando decibel da una macchina in corsa!
E il mondo accetta! Anzi, si adegua!
Che importa se poi diventano sordi al mondo, se quando per sbaglio è notte ed è silenzio non sanno che farsene... non sanno che farsene del silenzio... anzi ne hanno il terrore...

«Nel silenzio si dorme, papà!» mi ha risposto da uomo adulto, con una bella smorfia di disprezzo.
«No, si può anche meditare!» ho ribadito.
Allora mi ha voltato le spalle ed è uscito di casa. Da lontano, senza guardarmi, mi ha detto: «Io medito come cazzo pare a me». E scusate il suo linguaggio.
Il risultato?
Guardatevi intorno! Non c’è più spazio per il silenzio! Ovunque rumore, radio che emettono ritmi alienanti. Di notte? Rumore di auto in lontananza, o di televisori accesi col loro interminabile bla bla…
Chi è più capace di fermare il rumore, all’iniziare solenne di un Largo antico, dal maestoso incedere dei violoncelli…

(suona l’inizio di: Bach, Sarabande in Re minore)

…Vedi, gli dicevo, qui è il mistero della solennità… ascolta la prima nota che si raddoppia, e poi si dilata… si torce nel trillo e si adagia nella soluzione... eppure sfugge ancora da quella, per trovar sollievo nella sua dominante: il La maggiore…
La, Re, Sol, Do? Dio?! A che servono questi nomi?
Ah, figlio! Tu vorresti semplicemente un padre, un uomo. E tuo padre invece è un sacerdote, un monaco, un uomo che ha rinunciato al mondo per guardare oltre le stelle del cielo!

Bach è come un’altissima montagna! Gli dicevo.
Devi salirla fino in cima, per scoprire che questa musica è ancora più in alto, e quel salire non è altro che il sacrificio che a te è richiesto, per conoscerla, far sì che ti attraversi, che ti possa guidare…
Figlio –gli dicevo–, ogni passo verso quella cima è dubbio e dolore, ma ti basta solo ascoltare quelle armonie dimenticando te stesso, e il tuo passo diventa leggero, il tuo cuore dimentica ogni paura… ascolta, ascolta di nuovo...

(esegue la Sarabande in Re minore di Bach)

…Ad ogni passaggio di note è il rischio: come tutto può esserti dato in una carezza, tutto può esserti tolto con lo schiaffo dell’errore… il minimo sbaglio, il minimo inciampo, e tutto l’edificio crolla, né può nuovamente riedificarsi
Solo uno sguardo fisso al fine può scavalcare l’errore casuale, il fallo delle dita o l’inganno dell’orecchio, risucchiato dall’energia della composizione…
Note magiche, anzi: SACRE. Perfetta, immutabile sequenza che corregge l’errore del Creatore, che riconduce la tenebra alla luce, ricuce la lacerazione, guarisce l’anima… la carezza dolce del PERDONO…
Perché, figlio, tu non vedi più con me queste cose?….

Eppure eravamo felici insieme, sorridevamo insieme, giocavamo insieme… ascolta di nuovo!

(suona la Giga in re minore)

Come Abramo col figlio Isacco, io e te salivamo al monte!
E tu, figlio, tu avevi paura… ma poi tu non hai avuto fiducia in me…
La mia musica ti diceva: “quell’altare che fabbricheremo non è per te, non è per la tua morte!”. Ma tu restavi sordo a tutto. Ma non alla tua paura…
La mia musica lo diceva: «Non devi temere; io ti guido con giustizia e perfetta saggezza!». Avresti forse voluto ascoltare le mie parole?
E come avrei potuto dartele, se Dio stesso non le aveva date che alla fine della prova?
E io, come posso darti questa musica parlando?
E che ne rimarrebbe a te? E a me?
Essa è sacrificio, nella gioia della certezza della sua luce…
Nella coscienza della morte è la coscienza della vita…

Sì, forse devo anche darti ragione: forse tu hai smesso di ascoltarmi perché io sono un trombone sentimentale, un animo gonfio di retorica ridondante e ammuffita… per te ci vuole altro: quella densità di senso, di emozione, ti irrigidisce, la sfuggi con un fastidio indomabile… dovrei cercarti in una rarefazione di sentimenti, in un asettico spazio levigato e lucente, in parole di plastica come i tuoi sogni, i tuoi desideri…

(con disprezzo:)

Armonie frammentate, scheggiate, sfuggenti…

(suona frammenti atonali al violoncello, in modo sparso e caotico)
…eppure espressivi… come voci umane… come se parlassero…
(suona un lento, doloroso recitativo drammatico in modo atonale)

(si esalta, si finge Abramo:)

Chi vuoi, Dio? Mio figlio?
Ma sono tutti figli miei! Sangue del mio sangue, ossa delle mie ossa!
Ognuno di loro potrebbe muovere le sue dita sul mio violoncello e neppure io sentirei la differenza fra loro e me… se solo volessero, se solo continuassero a osservare e conservare
Sono loro a non voler più questo!
Vuoi il mio figlio preferito?
Perdìo, io li amo tutti! Mi dannerei per loro, non esiterei neppure un nanosecondo a gettarmi in acqua se stessero per annegare, o sotto un treno se dovessi salvarli!
Come? Il mio primogenito?
Dio di dura cervice!… Cos’hai in mente che ti rende così cieco?
Non sei capace di accorgerti che tutti ormai sono nati e cresciuti nella solitudine, esseri primi e ultimi della specie? Non vedi che in ognuno di loro non c’è altro da sé che non sia il loro solitario pensiero, dove il mondo è solo un’immagine della mente, un videogioco proiettato nei sensi?
Ah, vuoi proprio lui? Quello che io amo, cui io ho dato un nome…
Isacco…

(con le labbra strette nella rabbia:)

Bene, Dio, ora affonda bene le tue dita nelle mie carni, lacerami la pelle, scarnifica le mie ossa: dammi il tuo ordine!
Devo sacrificarlo? Deve aprirsi il suo involucro vitale e deve uscirne tutto il sangue? Le carni asciutte devono essere combuste fino a farne cenere, nel fuoco di legna alimentato dai grassi? La fiamma deve nascondere ai miei occhi il disgusto dei visceri aperti, deve cancellare lo sguardo dai suoi occhi?
Chi farà tutto questo, Dio? Sarai tu a scannarlo, vero? Io dovrò solo portartelo, vero? Non io, Dio! Non io dovrò violentare quella sua pelle fresca, bucare affondare tagliare distruggere… vero?
Io? Io dovrò compiere l’atto?

(urlando con furia:)

Dio d’Israele! Perché non mi chiedi di vestirmi di tritolo e salire su un autobus di palestinesi per farli saltare tutti in aria, allora?!
Io che in un istante mi espando nel fuoco! Il fuoco che purifica, spezza in schegge di gloria le fortificazioni dell’indifferenza! Se ne accorgeranno, allora, di te! Si guarderanno bene dall’ignorarti!

(quasi piangendo:)

“Yitgal veikaddash Shemé rabbà”!
Sia magnificato e santificato il tuo grande Nome!
Da quelli che sono figli tuoi, ma non dai miei!
Mio Dio, basta!… conosco la tua risposta… è grottesca…
e sì: dovresti trovare un autobus di montoni da macello per salvarmi l’anima e la vita… e profumeresti l’ambiente di un delizioso aroma da ristorante greco…

Ma mio figlio è vegetariano, Dio.
Non vuole compiere atti di sopraffazione verso gli animali.
O non si vuole avvelenare con gli oscuri contenuti delle loro carni, non so… ci tiene, lui, alla sua vita.
Lui rifiuta ogni forma di violenza fisica o psicologica.
Devi giusto tacere di quella complessità particolare del mondo, per cui i suoi bisogni sono accontentati dalla stessa sofferenza di sempre, dalle stesse sopraffazioni, dalla stessa mano che priva l’altro del suo diritto alla libertà e al benessere…

Scannatelo tu da solo, il mio figlio, Dio.
Ammazzalo come ti pare, ma anche quando me lo restituirai, non ti aspettare molto dal mio respiro di sollievo: non so far altro che ripeterti le solite frasi di circostanza:
Un canto di Gloria innalzo di fronte alla tua Maestà…

(suona il “Glory” dal midi; l’attore finge di dirigere l’orchestra, sottolinea col gesto lo scorrere della musica.

Se è necessario dividere in due parti la performance, sulle ultime note del brano l’attore esce di scena e si spengono le luci.
Rientrerà per la seconda parte sulle note del Gloria che sarà nuovamente diffuso in sala, seguendo le stesse modalità dell’inizio spettacolo.)


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CONTINUA CON LA SECONDA PARTE








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