MONTAGNE SACRE
Echi dall’Antico Testamento.


Monologo teatrale di Claudio Ronco,
per un attore violoncellista,
su musiche originali dell’autore e di J.S. Bach.


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SECONDA PARTE

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(Rientra in scena cantando, mentre scorre in sottofondo “Glory”:)

Hodu laAdonai ki thov ki le"olam h'assdo!
hodu le-lohey haElohim ki le"olam h'assdo!


Alleluja! Lodate Dio, perché Egli è buono, perché eterno è il Suo amore!
Ringraziate il Signore degli dèi: perché eterno è il Suo amore!

(riprendendosi e fissando la custodia con aria maliziosa:)

Se mi riduco a parlare a te, che sei solo una custodia vuota, forse il motivo è semplicemente nascosto dietro la più chiara delle evidenze: tu sei, comunque e indubbiamente, una “custodia”, e come tale “custodisci”, e quindi “conservi”... anzi, sei un’arca, che trasporta solennemente il suo sacro, o arcano contenuto... cioè fai ben più di quanto non abbia fatto lo stesso frutto delle mie carni e del mio sangue...
Vedi bene a che val la pena di parlare a te e al tuo vuoto, piuttosto che piangere...

Hodu laAdonai ki thov... ki le"olam h'assdo!
Lodate Dio, perché Egli è buono, perché eterno è il Suo amore!
se, forse, ma, perché!
Lodate Dio, se Egli è buono, se eterno è il Suo amore!
Lodate Dio! ... forse Egli è buono, se eterno è il Suo amore!
Lodate Dio! Ma Egli è buono? ma eterno è il Suo amore?
Lodate Dio, forse Egli è buono, ma eterno è il Suo amore!
Hodu laAdonai ki thov ki le"olam h'assdo!
Lodatelo? Ma perché? Perché Egli è buono? perché è eterno il Suo amore?
...Perché ebbe paura – no, ma hai riso... se hai riso... perché hai riso?... Forse ebbe paura...

(Canta con rabbia il Salmo 136 in ebraico, accompagnandosi col violoncello nella cantilena, sempre enfatizzando la parola “ki”:)

hodu laAdonai ki thov ki le"olam h'assdo. (...)
hodu laAdoney haadonim ki le"olam h'assdo.
le"osseh niphelaot gedolòt levadò ki le"olam h'assdo.
(...)

(smette di cantare e recita:)

Alleluja!
Lodate Dio, perché Egli è buono, perché eterno è il Suo amore!
Ringraziate il Signore degli dèi: perché eterno è il Suo amore!
Ringraziate il Signore dei signori: perché eterno è il Suo amore!
È il solo che compie meraviglie: perché eterno è il Suo amore!
Ha creato i cieli con sapienza: perché eterno è il Suo amore!
Ha disteso la terra sulle acque: perché eterno è il Suo amore!
Ha creato le grandi luci: perché eterno è il Suo amore!
Il sole, come sovrano del giorno: perché eterno è il Suo amore!
La luna e le stelle per dominare la notte: perché eterno è il Suo amore!

(recita ora il Salmo 118 come una cantilena, in costante accelerando:)

Lodate Dio perché Egli è buono, perché eterno è il suo amore! (...)
Nella mia amarezza io grido a Dio; (...)
Dio è la mia forza fra tutti, e io vedrò fuggire i miei nemici. (...)
Mi hanno assediato tutte le genti, ma nel nome di Dio le ho vinte,
nel nome di Dio le ho frantumate. (...)
Non morirò, ma sarò vivo, per cantare i prodigi di Dio;
Dio mi ha fatto soffrire, ma non mi ha consegnato alla morte.
Apritemi le porte della giustizia, voglio entrare per ringraziare Dio! (...)
La pietra disprezzata dai costruttori di case è diventata la pietra angolare. (...)

(calmandosi:)

...Lodate Dio perché è buono?... perché eterno è il suo amore?...

No, la fede non è umile, caro figlio! La fede è invece “cosa suprema”, come dice il tuo amato Kierkegaard!
Tu invece credi di credere! Tu credi di abolire e cancellare tutto ciò che credi di non poter sapere, abbassando la testa in umiltà, mettendoti al livello della gente comune, tappandoti le orecchie e gli occhi con l’ignoranza!
Ti ripugna l’enfasi sentimentale, la ridondanza di parole, e poi ti innamori di Kierkegaard solo quando si innalza nei suoi discorsi lirici!

Per te la fede è solo una bella “Sinfonia di parole”, composta da un illetterato in modo da non doverne capire neanche una, perché tutto quel che serve a te è di sentirne il suono, seguirne il senso con gli occhi dei tuoi genitali opportunamente insoddisfatti, e beartene!
Così hai l’illusione di aver capito tutto!

Se un giorno ti capitasse di sentire la voce di Dio che ti chiama:
«Isacco, Isacco! Prendi tuo padre, tuo padre naturale, il padre che ha copulato insieme alla madre da cui tu sei venuto al mondo, Abramo! Portalo dentro a un pozzo profondo, aprigli il cranio con un grosso martello e liberalo da quel suo ingombrante contenuto!», ecco, tu lo faresti senza indugio, dicendo «Signorsì sissignore, ho capito perfettamente! Vado, eseguo e torno. Quant’è bello e quanto è dolce ricevere ordini da te, che altrimenti te ne stai sempre zitto e invisibile!»
Tanto nei tuoi meravigliosi videogiochi si muore e si resuscita in perpetuo, finché c’è corrente elettrica!

E già: le tue parole sono sempre ben misurate e ben ordinate nei confini della prudenza e del buon senso, ma la musica no! Tanto quella è “astrazione” dalla realtà, non è vero? Quindi, per dare ordini aberranti a uno come te, basta darli in musica!
Non ti ricordi cosa avevi scritto sul foglio che mi hai lasciato sulla scrivania, attaccato allo schermo del computer, quando te ne sei andato via di casa?
Aspetta, te lo rileggo, che forse te lo sei dimenticato:

—Era di prima mattina, nella casa di Abramo tutto era pronto per il viaggio. Egli si congedò da Sara, ed Eliezer, il servo fedele, lo seguì per un tratto e poi se tornò a casa. Abramo e Isacco camminarono insieme fino a che arrivarono al monte Morià. Abramo preparò tutto per il sacrificio, calmo e tranquillo, ma quando si volse ed estrasse il coltello, Isacco vide che la sinistra di Abramo si contorceva per disperazione e un brivido percorse il suo corpo – ma Abramo estrasse il coltello.
Allora fecero ritorno a casa e Sara corse loro incontro, ma Isacco aveva perduto la fede. Di tutto questo nel mondo non si è mai fatto parola: Isacco non parlò mai con nessuno di quel che aveva veduto, e Abramo non sospettò mai che qualcuno l’avesse visto.—


È un frammento incompleto, copiato da Søren Kierkegaard: “Timore e tremore”. L’ho subito riconosciuto benissimo, anche se tu hai dimenticato di precisarlo. Bel libro; l’avevo letto anch’io, sai?
Ma tu non avevi bisogno di scrivere anche il nome dell’autore, visto che con tutta evidenza ti sei convinto di averla scritta tu quella storia, e che tutto il resto del libro –o di tutti i libri del mondo!– sia semplicemente il racconto di come Isacco perse la fede!

E io cosa avrei dovuto leggerci? La storia di come Abramo, ossia tuo padre, perse il figlio e poi pure la moglie, una cosa dopo l’altra, a ruota?
Ah no, caro mio!
Io non ho perso un figlio perché è penetrato in un altro mondo, ha cancellato il mio, l’ha superato, oltrepassato, trasformato!

Io ho perso il mio figlio unigenito e prediletto perché si è convertito a “un’altra religione”, a un’altra fede! Solo che “quell’altra fede” altro non è che la stessa di prima, ma dopo aver chiuso con solidi lucchetti tutte le parole nei loro precisi e immutabili significati, delegando a un indefinibile “altro” il compito di assumersene le responsabilità.
Io ho perso il figlio che mi ha gridato addosso:
«La tua non è una “Montagna Sacra”: è un artefatto, è un edificio umano. È la Torre di Babele!»

«Ah, questa poi! No! ognuna delle tue parole è una torre di Babele!— gli gridavo io — Neppure una torre di parole-cose, tutte immobilizzate, pietrificate in significati immutabili, ma addirittura una torre di lettere dell’alfabeto, cotte come mattoni nella fornace della tua arroganza e della tua paura!»

E sai cosa mi urlava dietro, allora?
«Non conosci neppure la Bibbia!», mi urlava, quell’ignorante!
Io, che gliela insegnavo ogni giorno! Io che gliela posavo sulle labbra come miele!
La parola della Bibbia!
Dabar! La parola-cosa dell’ebraico biblico!
Rabbino! Da te ho appreso a tradurla e capirla!
Dabar, mi hai insegnato tu, è parola di molteplice significato, e si traduce di volta in volta con le parole: parola, cosa, oggetto, fatto, avvenimento, rivelazione, comandamento...

Rabbino! Cosa spiegherò a mio figlio nei cinque minuti di concentrazione che è in grado di concedere a qualsiasi singolo oggetto o discorso? Che risposte darò alle sue domande semplici?

(finge di chiamarlo)

Rabbino? ci sei?

(fingendosi rabbino:)

«Con le parole-cose fabbricate dall’uomo e usate come mattoni si è fabbricata Babele e il Signore è sceso a dividere le genti del mondo con la confusione. Con le parole-cose date da Colui che ha creato il mondo, e Adamo a dare un nome a tutte le cose, il mondo può riedificare la casa del Signore...»

Oh, sibillino rabbino! Mio figlio pretende una risposta chiara! una risposta inequivocabile!

«Tu, musicista, tu vorresti rispondere in tal modo a colui che ti chieda cosa significa un brano musicale composto da te, o da chiunque altro sia degno del tuo rispetto di maestro di musica?»
«Che c’entra la musica in questo?» gli rispondevo io. E mi sembrava di sentire nettamente la voce di mio figlio nella mia...
«Papà, le parole devono essere chiare, devono restare attaccate al loro significato preciso, e dev’essere quello che tutti possono condividere: gente speciale e gente normale. Anche i più stupidi devono poterle capire con tutti gli altri. Ne hanno il diritto! Altrimenti che mondo sarà? Come farai a dar torto a chi si ribella perché è ignorante suo malgrado, isolato e povero, e quindi si conquista il mondo con la forza della rabbia? E poi, per liberare le parole, quando viene il momento giusto, c’è appunto la musica...»

Ah, figlio! Sì: c’è appunto la musica che vorresti tu!

(sarcastico e in crescendo di tono:)

Quella che non si banalizza con un “significato”, ma, attenzione! Quella che non si azzardi neppure ad essere “significante”! Musica per far stare un po’ zitto il cervello, il delizioso oblìo, l’oppio, il sonno ristoratore, sognare senza incubi e senza dover pensare! Ah sì: questa è LA MUSICA, consolazione degli afflitti! Musica taumaturgica! MUSICOTERAPIA!!...
Ma la musica non è oblìo! Non è per dimenticare, non pensare, galleggiare in un corpo leggero! È invece per la nostra memoria, è per ricordare che siamo a immagine e somiglianza di Dio, dimenticando, semmai, la nostra vanità!...

(calmo:)

No, rabbino, hai ragione tu: tutto si ripete, tutto si riproduce uguale a se stesso nel mondo! Ma questa è condanna solo per l’ignorante! È l’ignorante che è condannato a ripetere il suo errore errante!....

Condannati a costruire e ricostruire la torre di Babele!... Aspetta... cos’è che mi aveva scritto mio figlio?

(cerca nel computer la lettera del figlio)

...sì, eccolo qua:
«Papà, ascoltami: tutta la sapienza che tu vorresti trasmettere a me è una torre che pretende di toccare il cielo, ma è fatta solo di pietre pesantissime che una sull’altra ti allontanano dalla terra, e sotto, sulla terra, la gente ti scruta dall’inferno dei suoi giorni... è un piccolo passo, è un movimento minimo quello che trasforma una rassegnata attesa in rabbia e violenza che distrugge! Papà: tu devi camminare sulla terra, devi imparare a parlare la lingua dei più deboli!»

La lingua dei più deboli! Sì, quella degli idiotes dell’antica Grecia? quella degli illetterati, come Sant’Antonio del deserto?
Ma bene! benissimo! Ma non è già quello che continuano a predicare i preti? E non lo sta facendo quotidianamente la televisione con i suoi telegiornali e i suoi programmi del sabato sera?
Non ti sorge il sospetto che gli ignoranti che dominano il mondo abbiano fatto abbastanza danni?
Non ti tornano in mente le schiere di ignoranti cafoni che dopo aver ascoltato un’accorata predica di qualche frate esaltato, andavano tutti in massa a bruciare vivi uomini, donne e bambini ebrei perché erano il diavolo in persona? O quando col vessillo cristiano e la fede di Abramo sbarcavano in terre lontane e ammazzavano tutti quelli che non volevano diventare loro umili schiavi, premiati dalla promessa del paradiso, eliminandoli con armi e fuoco oppure con la sifilide che gli attaccavano con i loro concreti atti d’amore?
Prova a salire su un pullmann pubblico di lavoratori al mattino presto, in mezzo a gente comune di tutte le etnie possibili immaginabili, e prova un po’ ad ascoltare bene cosa dicono gli uni degli altri, il bianco del nero, il senegalese del marocchino, l’indiano del senegalese! Oh, quanto amore universale, appena un passo fuori dalle belle parole di saggezza dei programmi educativi della televisione!

Ah, ma senti come continua, nella sua interminabile lettera a papà:
«Come vuoi che accetti di scalare la montagna del tuo Bach o del tuo Beethoven un indiano, o un africano, o un arabo? Sei davvero così sicuro che la tua musica debba essere per forza universale, semplicemente perché una piccola parte del mondo, piena di arroganza e con in mano le armi più potenti, ha deciso di imporle “l’immortalità”?»

Già, come se io gli avessi insegnato a fare il missionario cattolico, a costruire ospedali e scuole per convertire gli indigeni alla religione di Bach e Beethoven!
Io gli facevo ascoltare il deejeereedoo degli aborigeni australiani con la stessa attenzione e lo stesso rispetto con cui lo portavo ai concerti della Società del Quartetto!

Gli insegnavo a capire che anche se non era lì alcuna melodia, se non poteva ascoltare altro che strani suoni, non poteva però accontentarsi di restarsene pacificamente affascinato dal mistero e accontentarsi del fatto di aver intuito che un mistero era lì, in quell’oggetto curioso e indubbiamente “bello”, davanti ai suoi occhi!

Gli spiegavo come le termiti scavano un albero, poi l’uomo ne taglia il tronco come a farne un lungo e grosso flauto, lo abbellisce con dipinti e cere, e lo porta con sé, negli interminabili tramonti o nell’aurora inafferrabile. Vi soffia dentro con una tecnica particolare, in modo che, mentre l’aria esce dalla bocca, il naso ne inspira dell’altra e la bocca non smette mai di soffiare. È così che l’alternanza di inspirazione ed espirazione temporaneamente s’interrompe, e con essa ogni alternanza degli opposti: il giorno e la notte, il caldo e il freddo, la vita e la morte... i suoni che si formano in quei legni sono prodotti dai canali delle termiti, innocenti o ignare compositrici di musica. Ogni deejeereedoo è diverso da qualsiasi altro, unico e irripetibile, e con esso ci si predispone ad ascoltare la voce segreta della terra e della natura madre, che parlerà all’uomo attraverso l’arte...
Dovrei amare tutto questo meno di una Sinfonia di Beethoven?
Non è forse questa indagine al di là del mio mondo sensibile che compie ogni grande musica?

(prende il violoncello e suona un’improvvisazione su tre note discendenti, di carattere contemplativo)

Gli echi della madre terra, dentro ai lunghi tunnel e nelle caverne scavate dagli insetti, dove io posso entrare, a patto di perdere per qualche tempo la mia natura duale e mortale... diventando strumento io stesso, visitando il mondo degli esseri elementari e ascoltando i loro messaggi di saggezza...

E a mio figlio questa faccenda degli echi dev’essere rimasta impressa, anche se, naturalmente, distorta e capovolta. Senti qua, scritto di suo pugno:
«Tu, papà, ascolti, leggi e interpreti la musica di Bach come fosse la voce della Bibbia. Tu ascolti queste voci come se ognuna fosse una sola e perfetta, immutabile ed eterna, ma è l’eco distorta di una folla vociante di fantasmi, in una valle troppo stretta e chiusa, contro pareti troppo ripide di montagne troppo alte!
Quella eco ti invade e ti esalta, ma è solo un ammasso confuso di suoni! Tu credi di capire tutto quello che senti, e così non ti accorgi di essere sordo a tutto quello che non è quell’eco. Così ciò che comprendi è solo per te e non puoi dividerlo con nessun altro.
Papà, noi entriamo e noi non entriamo negli stessi fiumi, poiché l’acqua che scorre in un fiume non è mai la stessa: me l’hai insegnato tu. E mi hai insegnato pure a ricordare, ma ricordare non basta, bisogna anzitutto imparare a dimenticare! C’è un mondo nuovo davanti e intorno a te, non puoi rifiutarlo, cancellarlo, abolirlo!...»

Bella roba, no? Una dopo l’altra, una citazione da Eraclito e un’altra da Rilke, naturalmente appiccicate ai suoi pensieri, senza sentire alcun bisogno di ricordarsi dell’autore, e magari ringraziarlo!
È perso nel labirinto di tutta la letteratura del mondo, frammentata, spezzettata e ricucinata, da Platone ai Dragon Balls con Tolkien e Buddha e chissà che altro in cima al mucchio, e fa la critica a me come biblista –fingendo di dimenticare che invece io sono un musicista– per cercare di dimostrarmi che sono affetto da solipsismo!

Ma non finisce qui! Senti:
«Cosa pretendi da me, papà? Non puoi caricare su tuo figlio tutta la colpa della fine di una cultura che tu vuoi credere perfetta ed eterna! Non puoi neppure attribuirmi la responsabilità di un mondo che non sente il bisogno né di fruire né di conservare l’arte o la sapienza del passato, e in particolare del nostro passato, della nostra storia, come se fosse l’unico luogo in cui trovare il modo giusto di vivere con saggezza!»

Ah basta, basta!
Non ne voglio più sapere niente di lui e della sua vita!
Ho perso già troppo tempo ad ascoltarlo e leggerlo. Per me è una storia finita, chiusa! Che viva come vuole e con chi vuole, è chiaro che non sarà con me.
E poi, insomma, giusto perché possiamo condividere qualche somiglianza nelle spirali del nostro DNA...
Io ho perso un figlio... ma un altro ne ho trovato, anzi: una figlia!

(rivolto alla custodia:)

Mi sembra di aver colto una scintilla di curiosità nel tuo sguardo, custodia vuota e taciturna!
Ebbene sì: ho trovato una figlia, ed è tempo di festeggiare...

(si versa da bere e alza il bicchiere per un brindisi:)


...Ah no, ma tu non bevi...
Brava! custode delle sane abitudini di vita: non bevi, non ti agiti, non urli, non parli, sei vuota dentro... camperai cent’anni senza problemi e tutti ti ammireranno e rispetteranno!
Complimenti! Lechaim!

(beve)

Ma se ti dirò un segreto, tu lo custodirai in silenzio?
No, scherzi a parte, meno male che ci sei tu a farmi compagnia... ad ascoltarmi parlare...

Lei si chiama Chiara, è una pianista eccezionale a soli 17 anni, ed è nata all’ottavo piano dello stesso palazzo in cui sono nato e cresciuto anch’io, due piani sotto di lei... nella città da cui sono fuggito quando avevo vent’anni, per non tornarci che un’unica volta nei trenta successivi della mia vita...

È tutto successo per un buffo caso: un mio amico pianista l’ha incontrata, chiacchierando fra di loro è venuto fuori che lui aveva suonato con me, e lei, a sentire il mio nome, si è illuminata in volto e ha chiesto il mio indirizzo.
Poi mi ha scritto una lettera bellissima, in cui mi dice... com’era?... ah, sì, di essere “cresciuta un po’ come sotto le sue ali d’artista”, perché tutti in quel palazzo mi ricordavano. O meglio, ricordavano le ore e ore di esercizi al violoncello tutti i giorni per quindici anni...
Lei è nata appena dopo la mia partenza, così in quel palazzo non si è mai smesso di sentir suonare musica... e Chiara mi ha raccontato di quella strana sensazione che tanto spesso le capitava di provare in quella casa, per cui era come se io fossi là, in qualche modo, a farle da maestro...

Chiara non ha perso tempo, mi ha scritto subito, è entrata subito nel vivo di questa bellissima storia. Io ho fatto altrettanto: non ho perso tempo e mi sono informato su di lei. Una carriera di pianista assolutamente incredibile, più unica che rara... un vero genio della musica...
E allora non c’era altro tempo da perdere. Le ho scritto questa lettera:

«Cara, una delle qualità che ho sempre amato di più nelle "persone di buona volontà", è quel bel fuoco per cui le cose si fanno subito, intensamente e nel modo migliore.
La mia vita si è imperniata e nutrita su questo genere di umanità –che non perde tempo a lagnarsi per come vanno le cose ma agisce con sicurezza verso il bene; che non si ritrae o protegge dietro alla prudenza, ma con prudenza muove i passi per non far del male a nessuno; che tiene gli occhi fissi all'obiettivo, ma sa adattarlo a ciò che nel frattempo può essere accaduto o cambiato–, sicché mi è cresciuto dentro una specie d'istinto essenziale, di fiuto animale, di "orecchio armonico" che coglie le risonanze più nascoste, e di queste doti vado fiero e felice nelle strade del mondo, che sono ormai troppe, troppo sature di tutto, troppo confuse, troppo disincantate... in una parola: prigioniere dei destini della paura e dell'insicurezza.

Perché ti scrivo queste cose, Chiara?
La ragione è inscritta nei “segni”, poiché –ci piaccia o no– essi sono presenze che ci indicano strade e percorsi, e lo fanno sia quando sono cartelli stradali messi in bella vista negli incroci, sia quando emergono con più o meno evidenza dai casi della vita, sparsi senza apparente ordine fra le cose del quotidiano affannarsi nelle faccende domestiche e sociali, così come nelle stanze segrete dell'inconscio.

Ora, scoprire che tu sei nata e abiti nella casa in cui io sono nato e cresciuto, fra i muri che hanno ascoltato per tutti gli anni della mia infanzia e della mia adolescenza il suono del mio destino; ma ancora più di tutto ciò, i tuoi straordinari 17 anni nei quali ti sei diplomata col massimo dei voti in Conservatorio, hai conquistato l’ammirazione di alcuni dei più grandi maestri...

(da qui legge lentamente, come ipnotizzato)

Maestri viventi dell’arte musicale, con la facilità del volo di un angelo hai trionfato nei concorsi internazionali là dove tutti gli altri perdono l’anima nel labirinto di paure e intrighi...

(si riprende:)


Eppure per me i tuoi 17 anni sono semplicemente un numero: 1 più 7, ovvero il numero 8, segno che per me indica una sola cosa: l’infinito delle altre realtà possibili.
E l’ottavo piano in cui tu sei nata, nel palazzo in cui anch’io sono nato e cresciuto per fuggirne poco prima della tua venuta al mondo, è lì, di fronte ai miei occhi, ad indicarmi con insistenza il suo messaggio criptato.

Prova a osservare:
un condominio di dieci piani (con venti appartamenti simmetrici) al numero 125 (1+2+5=8) in una strada che porta il nome di una montagna; un ragazzo inquieto, che vive la sua adolescenza al sesto piano di quel condominio appena costruito in una zona ancora periferica, fra larghi ritagli di campagna non ancora edificata, cementata, asfaltata, fra campi di grano o granturco e qualche albero giovane ma debole, come già cosciente di essere nato effimero, di dover scomparire ben prima di poter affondare le radici nel cuore della terra; un'adolescenza vissuta carezzando le foglie di quegli alberelli, i cespugli selvatici, l'erba rada e malaticcia coperta dalla polvere grassa dello smog non ancora "ecologicamente pulito" degli anni '60/70, quasi osservando in quella polvere, trasportati e trattenuti, i sogni semplici della gente comune, ormai tutti dominati e assoggettati da un demone potente, invincibile, trionfante: la televisione.

La scena di questo racconto è livida, oscura, silenziosa pur nel "continuum" assordante del suo sound track di motori perennemente in moto e di voci artificiali a contornare le immagini luminose dei tubi catodici in bianco e nero.
La visione non è molto lontana da ciò che tu vedi dalle tue finestre oggi, ma oggi è "a colori", e il suono è hi-fi...
I contorni lividi delle cose sono sempre là, immutabili, nelle notti illuminate dai neon perenni fra le macchine parcheggiate come animali nelle stalle, ognuna contenente qualche piccola traccia di individualità, negli oggetti inscatolati nell'involucro del miracoloso veicolo della "libertà di movimento" più grottesca, più tragicamente illusoria...

In questo racconto c'è un ragazzo al sesto piano che vive nel terrore di cadere, ossessionato dal senso di vertigine soffocante che prova nell'avvicinarsi ai balconi o alle finestre della sua casa, che vive odiando il grigio che lo attornia in tutte le cose (anche nei cieli più azzurri di primavera), che sale e scende ogni giorno con l'ascensore, e nei suoi sogni quella claustrofobica scatola lo rapisce in altri luoghi e più angosciosi, viaggiando non più in verticale, ma su linee orizzontali, fra mondi paralleli da cui non si può né salire né scendere...

Questo ero io, Chiara, che sulle scale e sugli arpeggi del mio studio musicale non vedevo altro che la statica illusione di un movimento senz’anima né corpo.
Perché suonare musica, allora?
La droga o le azioni terroristiche erano appena dietro l'angolo della vita di un adolescente di quegli anni, e oggi il nostro mondo non è cambiato affatto...

Camminavo nella notte senza mèta e senza futuro, cieco guidato da ciechi, per fuggire un mondo che mi imponeva l'omologazione della partita di calcio la domenica, della domenica sugli sci con gli scarponi alla moda, del conversare senza sosta su ciò che compiace l'interlocutore o ciò che esalta la vanità, ciò che unisce il gruppo poiché lo distingue e lo divide dall'altro gruppo: la sinistra o la destra, Bach o Brahms, Pollini o Michelangeli, Karajan o i Rolling Stones... oppure la sinistra E la destra, Bach E Brahms... ma niente cambiava di quel movimento orizzontale, schiacciante a terra, TERRI-FICANTE...

Queste erano le visioni che ho rivissuto, quando ancora non sapevo nulla di te, quella sera di anni fa in cui avevo deciso di tornare a passeggiare nella strada in cui tu sei nata, in cui il destino ti ha fatto abitare. Era con me mio figlio Jacob di cinque anni, solo perché non avrei saputo dove lasciarlo in mia attesa.
E quando il mio animo era ormai perduto nell’angoscia, proprio in quel momento, proprio mentre tutto stava crollando intorno a me, stava esplodendo, bruciando, devastando... la piccola mano di Jacob aveva preso la mia, inaspettatamente. E la carezzava, la tirava a sé. Mi guardava con tranquillissima dolcezza –qualcosa di indescrivibile, di profondamente saggio era lì: lo si vedeva nel suo sguardo...–, poi mi diceva: “Papà, tu sei triste... non devi essere triste. Adesso tu mia dài la mano, e passeggiamo insieme, così diventi felice, perché io ti proteggo da tutti i cattivi che ti fanno triste!” E tutti gli incubi si scioglievano come ghiaccio nell’acqua corrente. Scivolavano via da me, tornava a correre un sangue caldo nelle mie vene, ero pervaso dalla gioia, fino alle lacrime... senza ragione...

Eppure tutto si era convertito proprio per quella sua semplice presenza innocente; tutto si era ribaltato, capovolto: tutto in me saliva e scendeva vorticosamente, in un impeto gioioso, energetico. Tutto in linee di movimento verticali, come accordi di cembalo o d’organo, sopra e sotto la melodia, ognuno vivo e luminoso in sé, ognuno aperto e proteso verso “l'altro” accordo.
Salire e scendere e ancora salire, non come chiusi in un ascensore che “imprigiona” nel movimento al piano cui è destinato, ma un assoluto spazio di “assenza di peso”, nel quale poter risonare col mondo, anzi: con infiniti altri mondi possibili, mondi luminosi di speranza.

Quella sera, stringendo la piccola mano del mio Jacob-Giacobbe, mi sono sentito invaso della musica di Debussy, e ho cominciato per la prima volta a raccontargli di quella scala che, nel sogno di Giacobbe figlio di Isacco e nipote di Abramo, sale e scende al cielo:

“Giacobbe ebbe un sogno: ecco che una scala era rizzata sulla terra, e la sua cima raggiungeva il cielo, e gli angeli di Dio vi salivano e scendevano”

(Da questo momento l’attore imbraccia il violoncello e leggendo i testi li accompagna o commenta, improvvisando accordi e brevi melodie, eseguite senza mai interrompere la lettura)


" ...Il eut un songe: Voilà qu'une échelle était dressée sur la terre et que son sommet atteignait le ciel, et des anges de Dieu y montaient et descendaient!..." (Genesi 28:12)

"...Le papillon, blanche étincelle,
Qu'en ses détour et ses ébats
Poursuit un papillon fidèle,
L'un volant haut et l'autre bas;

L'ange qui descend et qui monte
Sur l'escalier d'or voltigeant;
La cloche mêlant dans sa fonte
La voix d'arain, la voix d'argent;

La mélodie et l'harmonie,
Le chant et l'accompagnement;
A la grâce la force unie,
La maîtresse embrassant l'amant!..."


(Théophile Gautier, "Contralto", 1849)

Guardavo la facciata grigiastra del palazzo al numero 125, nelle luci e ombre dei lampioni stradali, e l'occhio delimitava l'arco dal primo al sesto piano, come un esacordo poggiato là, fra il DO del piano della terra e il LA al quale avevo accordato i miei anni di crescita. I dieci piani, allora, erano le sephirot dell'albero della vita, caoticamente mischiate fra loro, affacciate al loro doppio, maschile e femminile in unico corpo, unito dal taglio delle scale centrali, in quella forbice interrotta dai pianerottoli, dove sfuggivo il risucchio di quel sali-scendi penetrando la mia claustrofobica paura dell'ascensore. Sotto di me, sotto la mia “sesta”, la luminosa presenza della “quinta”, della dominante di DO: SOL, che grida dalla sua luce, con la voce dell’antico maestro aretino, Guido, Maestro dei Maestri, Guida delle Guide:
«SOLve polluti... LAbii reatum...» ...il reato delle labbra, della parola, che non può altrimenti risolversi che nel discioglierla in musica...
E più avanti ancora, a quei piani superiori che incutevano in me timore e rispetto:
La-SI, come Sancte Iohannes...
SI che sale al DO superiore, la settima nota SI e il suo intervallo di quinta, il FA, unica fra tutte le quinte a non essere “giusta”, esatta proporzione armonica di numeri, unica quinta “diminuita”, unico intervallo instabile nella sequenza di quinte formate sulle singole note della scala, quella nota, il Fa, nel scendere al grado inferiore mostrava il gesto della compassione, della pietà divina.
Nel suono dolcissimo del suo scendere al MI, si ascolta la nota SI che sale al DO, poiché è la naturale soluzione dell’accordo di settima di dominante, edificata sulle fondamenta del basso di SOL:
Fa che scende al MI, come MIra gestorum, appoggiata, guidata dal luminoso SOLve polluti, mentre Sancte Iohannes sale a DOmine Deus...

Dominanti appresso a dominanti, quinta dopo quinta nel sacro cerchio di 12 suoni, salendo e scendendo sulla scala fra il cielo e la terra, e ancora salendo e scendendo sui gradini delle ottave, si svolgeva il computo armonico che mi liberava dagli incubi della mia città degli “anni di piombo”, da cui ero fuggito viaggiando per terre lontane, ma sempre portandomela appresso, quella città, come un ineliminabile bagaglio, sempre ripercorrendone i percorsi segreti, tracce inscritte nei frammenti dei miei ricordi, dei ricordi dei miei compagni di adolescenza morti con la siringa nel braccio o con il contratto del lavoro fisso, del mutuo per la casa e per la macchina e per la famiglia e per la tivù nuova...

(smette di suonare)

Che sarebbe stata la mia vita, se fossi vissuto al quinto piano, o al terzo, o all'ottavo?

Ma ancora più in alto di qualsiasi segno, dal più semplice al più complesso, la chiarezza di questo simbolo: il numero 8, il numero del Nome Santo, del Tetragramma impronunziabile, l’ottava superiore perfetta...
un semplice 8... scritto con il gesto che unisce ciò che è sotto a ciò che è sopra, in un abbraccio carico di mistero e di speranza eppure leggerissimo... senza alcuna “gravità”...

Questa memoria ti dedico, Chiara, amata Chiara...
Te la dedico affinché tu ne senta il dolore intenso, ma anche la serenità che ne segue.
Ma ancor più perché non mi è possibile far tacere dentro o fuori di me questa voce insistente che mi grida dentro: «Tu sei suo padre!»...

Sì, Chiara... ragazza dalle mani di un angelo celeste... Non posso tacere... non posso tacerti la mia ossessione. Leggo di te, apprendo di te, dei tuoi progressi, del tuo crescere in bravura e in saggezza; ti osservo, ti ammiro, e ti amo come una figlia, quella figlia che non ho avuto... anzi: quel figlio...

E da quella memoria che tu hai fatto riemergere in me, riemerge ancora altra MEMORIA più lontana, primordiale, che io conservo e da cui ricevo la forza per scriverti.
Ascoltami: così come gli animali selvatici sanno dove cercare e trovare i punti nello spazio della natura in cui riposare e soffermarsi, come se la terra fosse per loro percorsa da una rete di linee intersecanti e convergenti, anche per noi c'è la stessa opportunità: un “web”, una rete di tracce, di segni, i quali indicano i percorsi della vita, oppure della morte. Chi pone se stesso su un palcoscenico diventa un faro, un segnale, un richiamo: positivo o negativo, verso la rete di quei segni invisibili. Come scriveva Italo Calvino, nelle sue “città invisibili”:

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”


Questo scriveva Calvino. Ma se questo io l’ho capito, non è stato dalla mia dura esperienza di marito e di padre, dall’inferno che è stata la mia vita coniugale, l’errore e l’inganno di aver preteso di costruire una famiglia dove non era destino ne dovesse crescere una. È stato invece il liberarmene che mi ha aperto gli occhi. Ed è con questi nuovi occhi che ti ho vista, per accorgermi di come tu sia nel mio segreto destino.
Per questi motivi dedico a te questa mia nuova Sinfonia per orchestra d’archi, scritta per le risonanze delle corde degli strumenti d’Apollo e di Davide il salmista, che ho intitolata “Senso” perché tu possa salirne con le tue pure emozioni le spirali verso il cielo, raggiungerne la cima, non verso una sapienza nuova, ma verso l’unico, il vero amore.

Purtroppo, non è un’orchestra vera a fartene ascoltare il suono, ma solo la miseria dei suoni artificiali dei nostri computer casalinghi, e neppure dei più sofisticati, perché oggi nessuno vuole più pagare costosi orchestrali in carne ed ossa a scopi così poco commerciabili...
Né io posso pagare qualcosa in più della mia frugale mensa quotidiana, cui rubo tutto ciò che posso per destinarlo alla bolletta della luce per il mio vecchio, ma miracolosamente ancor funzionante, computer portatile da moderno cavaliere errante in cerca del Graal...

Quindi non mi resta altro interprete della mia musica al di fuori dell’umiliazione di un’orchestra virtuale, fatta di numeri senza coscienza e senz’anima –zero e uno, luce e tenebra, vivo e morto, in infinite variabili d’insiemi–, ma anche il mondo più desolato avrà anima, luce e vita dal tuo ascolto amoroso, se solo tu vorrai tendere l’orecchio appena un poco verso ciò che io ti ho qui indicato.
Ti abbraccio forte. Tuo affezionatissimo Maestro,
Francesco.”

(si ascolta il midi di “Sense” mentre l’attore si prende il viso fra le mani. Al termine del brano, il midi continua riprendendo da capo, con la voce di un giovane uomo che legge il resto della lettera del figlio, da poco prima del punto in cui aveva smesso di leggere il padre:)

«Cosa pretendi da me, papà?
Non puoi caricare su tuo figlio tutta la colpa della fine di una cultura che tu vuoi credere immortale! Non puoi neppure attribuirmi la responsabilità di un mondo che non sente il bisogno né di fruire né di conservare l’arte o la sapienza del passato, e in particolare del nostro passato, come se fosse l’unico posto in cui trovare il modo giusto di vivere con saggezza!

E poi, la nostra storia è anche il Novecento, è anche oggi, con i suoi massacri disumani, con la bomba atomica, con l’inquinamento che uccide il pianeta, con i terroristi suicidi, con la gente chiusa nelle case davanti alla tivù, con la solitudine tremenda di un mondo senza più nessuna fede nell’invisibile...

Papà, non amo l’epoca in cui sono nato né più né meno di te.
Non amo rappresentarmi con le figure con cui mi rappresenta l’arte del mio tempo, e neppure come mi rappresenterei io se mi illudessi di vivere solo ed esclusivamente nella realtà concreta.

Sono un essere che cammina sulla terra, ma che la percepisce solo attraverso la virtualità, la finzione... sono una forma vivente cresciuta col latte dei cartoni animati e di una fantasia pre-confezionata, nonostante i tuoi sforzi per restarmi sempre vicino con le tue storie per togliermi dal cono di luce della televisione... io sono una forma di vita biologica nutrita di stimoli elettrici!
L’illusione è tecnologicamente perfetta, e alla fine mi è impossibile accettare l’idea che sia solo illusione. Eppure a volte succede, quando arriva il dolore fisico, o la sofferenza psicologica del terrore di morire...

Ecco, allora io faccio come tutti: mi riempio, mi circondo di un’arte, anzi, di un artificio che occupa tutto lo spazio vuoto dentro di me e intorno a me, per sentirmi bene e non provare dolore. Ascolto musica violenta e ritmata, perché elimina il senso di vuoto del silenzio, mi riempio gli occhi di sensazioni visive forti, buttandomi sul divano davanti con un videogioco per ore e ore, fino alla nausea, e poi sto così male che se non crollassi nel sonno pesante potrei gridare come un drogato in astinenza!...

Il resto è buttarmi a capofitto nel lavoro, eccitandomi con l’idea del guadagno, di cosa posso comprare e di dove posso andare in vacanza.
Potrei cercare di guarire dalla mia nausea facendo opere di bene e di carità per gli sfortunati del mondo?
Non ne sono capace, papà, perché più forte del mio bisogno di sentirmi bene è la sensazione che tutto il mondo intorno a me sia nient’altro che un mostruoso errore, e l’unica cosa giusta sarebbe farlo finire al più presto.

E allora lo vedi bene, papà: io ho bisogno di te, perché tu sei l’unico che conosce un’altra mia storia possibile, che può ricordarmi “chi io avrei potuto essere altrimenti”. Perché sei l’unico che l’abbia veramente desiderato...

Ricorda cosa dice l’Ecclesiaste, papà:
“Tutti i fiumi vanno al mare e non si riempie mai; (...) Tutte le cose si stancano, l’uomo di parlare, l’occhio del vedere, l’orecchio dell’udire. Quello che fu è quello che sarà, ciò che è accaduto è ciò che accadrà, non c’è nulla di nuovo sotto il sole. C’è una cosa di cui si dice «Guarda, questo è nuovo!», ma essa già fu nei tempi che ci precedettero. Non rimane ricordo degli antichi e neanche dei posteri che verranno rimarrà ricordo in coloro che vivranno in seguito”

Io non ho un altro padre al mondo che mi abbia cresciuto dall’innocenza alla ragione, e tu non hai un altro figlio a cui hai dato il mio nome e la mia storia!
È assurdo illudersi del contrario: così noi due siamo condannati a cercarci sempre nel posto sbagliato, a ripetere sempre gli stessi errori?
Solo tu puoi liberare me del mio destino di solitudine, e solo io posso liberare te, papà!

La montagna verso cui vorremmo salire è un luogo che possiamo raggiungere solo insieme; pensaci, papà...»


(si spengono le luci e l’attore esce di scena)

finis

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Claudio Ronco, Venezia, 13 giugno 2003.

Dedicato a Franco e Alessandra Moretti.






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