claudio ronco
Salvatore Lanzetti


Sonate a Violoncello Solo e Basso Continuo


op.I n.5-6-7-8-9-11-12
Nuova Era Records, 1991.
cod 7048

Claudio Ronco
Stefano Veggetti
Diana Petech
Joachim Held

 

 

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Invito a un ascolto difficile  

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Itinerario di un lavoro
Claudio ronco

 

 

I- Il personaggio.

«... malgrado le apparenze intimiste e sagge, questa musica può essere situata tra le arti estreme: in essa si esprime un soggetto singolare, intempestivo, deviante, persino folle, se, con un'ultima raffinatezza, non nfiutasse la maschera gloriosa della follia».
(Roland Barthes: "ll canto romantico" 1976, in "L'ovvio e l'ottuso', ed. Einaudi, Torino, 1985).

 

Di Salvatore Lanzetti si può dire poco più di quel che è possibile trovare su un qualsiasi buon dizionario di musica: nato a Napoli intorno al 1710 e morto a Torino intorno al 1780 (il suo vero cognome era Lancetti, ma nell'ltalia del nord tutti pronunciavano "violonzello"...). Allievo del Conservatorio di S. Maria di Loreto a Napoli, è stato violoncellista e compositore attivo prima a Lucca (dove suonò con F. M. Veracini), e poi alla corte di Torino nel 1727/28, e dal 1760 alla morte. Fu a Londra fra il '39 e il'54, o il'56, e suonò anche in Sicilia, Francia e Germania. È considerato uno dei primi grandi virtuosi di violoncello. Pubblicò almeno sei raccolte di Sonate per violoncello e Basso Continuo (ma l'op. II è nient'altro che l'op. I, rimescolata e trascritta anche per il flauto), e un metodo: "Principes de l'application du Violoncelle par tous les tons" all'incirca nel 1770, ad Amsterdam. Altre Sonate rimangono manoscritte.

La gentilissima Signora Marie Therèse Bouquet, musicologa della Sorbona, mi ha consolato confessandomi che alle scarne notizie su questo autore non poteva aggiungere che poco o nulla: tutt'al più delle domande... Tuttavia mi ha segnalato ben due testamenti, redatti dallo stesso Lanzetti nel 1750, a pochi mesi di distanza 1'uno dall'altro: il primo durante una grave malattia, e il secondo prima di partire per un viaggio in Francia, completamente ristabilito. Da questi si apprende che possedeva una considerevole fortuna in azioni e beni mobili e immobili, che aveva un fratello, Daniele, agente teatrale ben conosciuto in Italia (Vivaldi lo incontrò nel 1736 a Ferrara), e un altro, Luigi, il cui figlio Domenico era violoncellista e compositore apprezzato. Si sa che nel 1737 sposò la sorella dei Besozzi (i celebri oboisti di Torino), ma che già nel '48 lei chiese e ottenne il divorzio per "sevizie..." So inoltre che a Torino era molto apprezzato, e nel 1727 riceveva uno stipendio annuo di 1.200 lire (più o meno quanto un primo violino e direttore), più altre 200 per "provedersi d'una abitazione" Infine, pare sia stato il primo a eseguire un solo di violoncello ai Concert Spirituel di Parigi, il 10 e il 31 maggio del 1736, l'anno di pubblicazione, ad Amsterdam, della sua opera prima: le Sonate di questa incisione. Di qua in poi non si può andare oltre, al momento in cui scrivo, se non con la lettura proprio di questa sua pubblicazione musicale, sul cui frontespizio, sotto il nome, fa risaltare orgogliosamente la sua origine: "Salvatore Lanzetti, Napolitano"

Sono queste Sonate a dimostrare che Lanzetti è stato fra i primi virtuosi a far progredire la tecnica violoncellistica verso la conquista dei più difficili colpi d'arco (balzati, picchettati, martellati ecc.), dell'esecuzione di passaggi in doppie corde, con ingegnosi disegni a due voci dove si impongono diteggiature ardite e complesse, e soprattutto della padronanza e maestria nell'uso dei pollice "a capotasto", una delle evoluzioni più importanti della tecnica violoncellistica, capace di ampliare mirabilmente l'estensione del gioco di questo strumento, fino agli acuti estremi dei soprani.
Quanto alla sua carriera, forse fu inibita dallo scarso interesse che il violoncello riusciva a suscitare in quell'epoca: rimaneva pur sempre un "basso", e in basso era la servitù, la plebe. Poter salire all'Olimpo dei suoni più alti, essere "principe" o "angelo" per pochi, brevi passaggi, forse non richiamò neppure la curiosità di chi poteva accorgersi dell'ambiguità sessuale di un tale strumento: "angelico e sublime" (o morboso) come il canto dei castrati. Insomma, era troppo presto: i suoi committenti non avevano ancora fatto la Rivoluzione francese (tutt'al più l'annusavano nell'aria e se ne preoccupavano) e forse Lanzetti, da vero napoletano -o così come crediamo debbano essere tutti i napoletani- di fronte alla necessità di convertire il gusto altrui e gli altrui pregiudizi, oppose una nobile e poetica pigrizia, o si abbandonò a una melanconica, forse sofferta disillusione. Non so altro. Rimangono solo un metodo didattico di scarso interesse, le poche Sonate per violoncello che io credo straordinarie, e un ritratto a sanguigna in cui appare tutta la fierezza della sua "napoletanità" e dove sembra di incontrare un uomo dallo sguardo disincantato, un poco amaro, ironico, ma anche straordinariariente folle, se solo la follia avesse potuto far parte del suo mestiere di "Musico Virtuoso di Corte", proprio come il "gesto" provocante, esasperato, con cui suona il suo violoncello.


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II- L'interpretazione

«... Qui l'interpretazione è intesa solo come il potere di leggere gli anagrammi del testo (...), di far sorgere sotto la retorica tonale, ritmica, melodica, la rete degli accenti; e l'accento è la verità della musica, ciò che muove 1'interpretazione» (da R. Barthes: op cit.)

 

La Sonata del Sei-Settecento si presenta invariabilmente (eccezioni a parte...) come due pentagrammi paralleli: nel superiore una linea melodica più o meno completa di ciò che serve sapere per eseguirla, e nell'inferiore un'altra più o meno priva di indicazioni o suggerimenti su ciò che serve per accompagnare la prima. Quest'accompagnamento è, di fatto, più cose in una: il Basso Continuo contiene, nascosto nella sua linea melodica, un Basso di Fondamento, che è buona regola saper riconoscere a colpo d'occhio e far risultare con chiarezza all'ascolto. Il Continuo può avere o meno, scritte sopra le note, le indicazioni numeriche per realizzare l'armonia, ma in ogni caso resta scritto sempre solo il minimo indispensabile per realizzare un'esecuzione -ovviamente con una grande varietà di soluzioni possibili- sicché l'autore, soprattutto in questo, deve inevitabilmente separarsi dal totale possesso deila sua creazione, dalla sua idea più o meno precisa di cosa avrebbe voluto o desiderato che fosse. Tutto ciò rende controversa l'opinlone sul come si dovrebbe realizzare il Continuo: improvvisando su formule ben esercitate e appropriate allo stile e al gusto dell'autore? Inventando in modo estemporaneo sonorità, situazioni e sviluppi musicali? (questo avendo in mente che la Sonata barocca, generalmente, non è scritta pensando all'eternità, ma per durare il tempo di poche stagioni). Oppure concertando con cura l'esecuzione di un accompagnamento ben articolato, rifinito attentamente in ogni particolare, per offrire ad ogni brano un significato preciso, chiaro, invariabile?
Probabilmente tutte queste cose: davvero non posso credere che per due secoli gli esecutori si siano rifiutati di concertare e preparare accuratamente il Basso Continuo: credo piuttosto che a volte l'abbiano anche sviluppato quanto un'orchestrazione in miniatura, così come possono far immaginare certi accompagnamenti per tastiera scritti da Bach, Haendel e altri. Nell'esecuzione di queste Sonate non ho aspirato a tanto, né avrei avuto fiducia nella mia capacità di riuscirci nei tempi di un'incisione: un Compact Disc, oggi, e poco più di un effimero. O almeno: è il gran numero di dischi che vengono prodotti a renderlo tale (se non altro perche diventa "regola" investire sempre meno energie nel produrli). Eppure anche questa è musica che meriterebbe uno studio lungo, articolato fra diverse esperienze e mentalità musicali, così come si è fatto per quegli autori che sono diventati miti e modelli: Beethoven e Mozart non s'è mai cessato di eseguirli, di studiarli; il loro "spessore" deriva in parte anche da questa costante applicazione. Ma Purcell, Vivaldi, Bach, hanno atteso generazioni prima che musicisti di un'epoca diversa li recuperassero, e un buon paio di secoli perché si tentasse di riproporli in modo fedele al loro autentico linguaggio; e per la prima pubblicazione discografica di un Lanzetti, io non sono in grado di proporre altro che un'esecuzione appassionata, ma meditata in pochi mesi e realizzata in pochi giorni, di fronte a microfoni ben meno attraenti di un pubblico vero e presente. Ho cercato però di concertare in qualche modo il Basso, usandolo come una potenziale orchestra: approfittando cioè di tutte le combinazioni sonore che sono stato capace di immaginare e mettere in atto. La scelta di cembalo e tiorba offre impasti timbrici molto diversi fra loro? Bene, me ne servo per far risaltare dei frammenti particolari, o per esaltare delle soluzioni retoriche (ad es la malinconia di uno sviluppo in minore), o ancora per isolare momenti musicali in cui cerco un senso speciale, e desidero sia reso con maggior chiarezza. In ogni caso, è il secondo violoncello l'unico vero strumento per il Continuo di queste Sonate: solo questo è una vera seconda voce, o terza, quando la parte del solo duetta da sé. Al secondo violoncello ho chiesto di eseguire il Basso cercando di compiacermi o contrastarmi, unirsi o separarsi dal mio discorso musicale, e anche di armonizzare il più possibile con dei bicordi, com'era in uso all'epoca. Ho preferito scriverli, piuttosto che lasciarli improvvisare, perché questi completano e arricchiscono il gioco di doppie corde del solo, e possono farne proprie le arditezze, come se al Basso ci fosse un imitatore di Lanzetti. In alcuni casi, poi, ho scelto di far suonare il secondo violoncello all'ottava inferiore, come un contrabbasso (ad es nell'Allegro della VI Sonata, dove lo strumento, per l'occasione, è accordato un tono sotto); in altri all'ottava superiore (le parti in chiave di soprano della XII e vari passaggi della IX). Sono certo non si tratti di un arbitrio: anche questa possibilità dovrebbe venir contemplata fra quelle che l'estrema semplificazione cui è ridotta la scrittura del Continuo lascia alla professione dell'esecutore. Scrivere anche un solo bicordo su una parte destinata a più di uno strumento, creerebbe confusione, e così pure se si segnassero legature di articolazione e fraseggio: confonderebbero la lettura del Basso cifrato. Potrei portare altre piccole giustificazioni tratte dall'esperienza pratica, ma basti dire che intendo il Basso Continuo come un luogo in cui tutti i mezzi e gli "artifizi" plausibilmente in uso in un'epoca e in una scuola devono essere ammessi; e intendo tutto ciò che posso apprendere dalle parti solistiche dei virtuosi, anche le più eccentriche

Con questo in mente, accetto la copia di una tiorba costruita nel primo Seicento per delle Sonate di cent'anni dopo, ma so che è stata usata per tutta l'epoca del Basso Continuo, e forse solo per questo. Il cembalo di questa incisione è la copia di uno strumento fiammingo piuttosto tardo, ma non dissimile da quelli che Lanzetti poteva trovare all'epoca di queste Sonate; e poi -perdonate la brutalità della mia confessione- perché solo quello era disponibile nei giorni in cui abbiamo inciso. I violoncelli, però, sono rigorosamente restituiti a quel che oggi crediamo esser stata la loro condizione originale, con archi copie d'epoca (quella giusta) e corde di budello, con tutto il loro carico di qualità e di problemi. Il diapason scelto è il 440, perché quello più probabilmente in uso nel nord Italia durante la prima metà del '700 (ca. 445), e la sala di registrazione è uno studio moderno, ma ha le dimensioni di un teatrino barocco; due soli microfoni messi a ragionevole distanza mi è sembrato riproducessero sufficientemente bene una privilegiata posizione d'ascolto.
Infine, il mio approccio a questi brani. Io posseggo l'edizione di Parigi, che è senza data, ma suppongo sia la seconda, presumibilmente stampata dall'editore Le Clerc negli anni 1738 o '39 (la prima dovrebbe essere quella del 1736, di Amsterdam). Questa raccolta propone quattro prime Sonate brevi di media o poca difficoltà (quella delle Sonate di Vivaldi o Marcello, per intenderci), abbastanza convenzionali, ma molto graziose (soprattutto la III, con un incantevole Minuetto). Dalla quinta Sonata in poi, invece, diventano composizioni drammatiche, ricche, virtuosistiche, come se le prime fossero destinate ai dilettanti e le altre ai professionisti (in fondo è comprensibile: a quell'epoca c'erano più dilettanti che professionisti fra gli acquirenti di edizioni musicali). Due Sonate, l'ottava e la decima, sono certamente pensate per un violoncello a cinque corde; ciononostante l'VIII l'ho eseguita sulle abituali quattro (e la decima non entrava nel CD...). Nelle altre, anche i frequenti passaggi acuti sembrano ideati per un normale violoncello, con un uso evoluto del pollice-capotasto, comunque indispensabile anche eseguendoli con cinque corde. Lo stile segue una formula abbastanza comune in quegli anni: una commistione di gusto francese e italiano, ma con diversi momenti (ad es. l'Adagio dell'VIII Sonata) che si direbbero scritti negli anni di Boccherini e Haydn (o a imitazione di certa musica tedesca, come quella di J. C. Bach): il gesto galante, la "leggerezza" delle frasi, la loro linearità, sembrano già "classiche", ma sulla datazione non vi sono dubbi. Altrove la scrittura è bizzarra per le asimmetrie dei ritmi (Minuetto della V Sonata, sviluppo centrale del Largo della Vl), o nel frequente interrompere le melodie con attese, o con accordi arpeggiati di cui non è chiarito il modo d'esecuzione. I Ritornelli sono presenti in meno della metà dei brani, e mai nei movimenti lenti o cantabili. I suoi Adagi, Andanti e Larghi, infatti, seguono percorsi emotivi ben evidenziati nella scrittura e nell'invenzione delle frasi: non credo sopporterebbero alcuna ripetizione non motivata dal loro progetto poetico. Né tantomeno vi si troverebbe alcun spazio -negli Adagi quanto negli Allegri- per "ritornellare" con diminuzioni o abbellimenti significativi: credo che Lanzetti lasciasse questo genere di cose alla musica di stile corelliano, e la sua idea del comporre è lontana da tutto ciò. Scrive, ovviamente, da virtuoso di violoncello, così che ogni idea sembra nata dal suo strumento: per questo immagino che prenda gusto nell'attribuire valori precisi a certi suoni in certe posizioni sulla tastiera; ad esempio: il si bemolle centrale sulla prima corda (nota lievemente innaturale, perché la mano cerca abitualmente il la che lo precede), è un suono che ritorna invariabilmente in quasi tutti i movimenti delle sue Sonate, sempre a generare una tensione, uno stress drammatico, sia quando deve essere "gridato", che quando si può "sussurrare". O ancora: nei moltissimi passaggi a due voci del solista, spesso una nota è doppiata dal Basso. Verrebbe voglia di lasciarla suonare all'altro violoncello, così da eliminare il rischio di eseguire sgradevolissimi unissoni non perfettamente intonati. Tuttavia, intonandoli, l'effetto è meraviglioso, e grazie a un virtuosismo ben nascosto. È vero: in Lanzetti le maggiori difficoltà sembrano celarsi alle orecchie superficiali, piuttosto che dannarsi in "effetti speciali"; buon segno, ma peggio per lui, che viveva in un'epoca troppo spesso superficiale, almeno in musica. E infatti è suonando questa musica, più che leggendola, che mi sono accorto della sua natura: è musica fatta di gesti, movimenti del corpo, pulsazioni, fiati tranquilli o agitati, di desiderio di "essere" e "parlare". È danza, canto, visione, tutto quel che può fare un corpo. È per questo che ho smesso di cercare il "senso logico" delle frasi nel loro sviluppo strutturale, nella loro valenza retorica, nella rete degli accenti agogici, e ho cerrato solo più il valore dei miei gesti nell'atto di eseguire le note scritte; vi ho trovato quel "corpo" vivo, reale, che si muove secondo una perfetta coerenza con la sua natura, e pronuncia frasi, frammenti di grande poesia. Ho cercato solo più le "azioni" di quel corpo nascosto dietro ai codici della scrittura, dentro alla trama degli accenti, che sono tutti quei suoni densi, forti, carichi di "intenzione", che generano il movimento. A questi ho consegnato tutta la mia capacità di concentrazione, la mia emotività, la mia volontà di esprimere qualcosa che nasca da me stesso. E ho creduto di interpretare Lanzetti.


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III- Il linguaggio

«... poiché sol tanto che vogliate voi risalire alcun poco verso l'origine di lei (la musica), trovarete una fonte di cognizioni filosofiche non volgare viva perenne inesausta.» (Decio Agostino Trento: prefazione al "Trattato di Musica.. " di G. Tartini; Padova, 1754)

 

Forse io non sono capace di cercare altro, nel1e arti, che i segni dell'inquietudine. Forse è perché quei segni risvegliano il mio desiderio di arte, o forse perché sono semplicemente segnali elementari, universali, di un'attenzione che si sposta verso l'inconscio, come un ascolto che si rivolga in modo incontrollabile ora al contenuto e al senso del discorso,e ora al solo suono astratto della voce, con la sua catena illimitata di significanze. E per trovare queste inquietudini non ci sono periodi storici migliori o peggiori di altri: se le si cerca, va bene il Barocco più parruccone quanto il Romanticismo più tormentato. Perché -com'è noto- l'opera d'arte è simile all'essere umano che la osserva: corpo e anima, conscio e inconscio; soggetta al tempo in cui articola la propria esistenza: mutando, comunicando, significando; in breve: vivendo e sommando esperienze.
E in musica l'esperienza dell'ascolto può svolgersi seguendo un tempo "lineare", come nella narrazione, dove il presente è variamente carico di passato e di futuro, ma procede verso una meta (e dall'ideazione della Forma Sonata, lungo tutto il Romanticismo, questa è la maniera); oppure avvenire in un tempo "circolare', idealmente fermo, dove una sintesi suprema delle cose viene offerta in un'apparente immobilità, -il cui simbolo, o l'artificio è l'azione ciclica- paragonabile a quella di una statua allegorica, assorta nell'atemporalità dei suoi messaggi. In quest'ultimo caso, allora, solo l'individuo che la osserva può renderla dinamica, traducendola nella propria attività intellettuale ed emotiva. Così è -miscelandosi variamente- in ogni arte; o, almeno, mi pare che solo questo possa far iniziare la sua decodificazione e fruizione: dall'astratto verso il concreto, o viceversa, con i risultati che la nostra cultura e la nostra sensibilità sanno trarne. Dunque è così anche in musica: ineffabile nella sua estrema astrazione, nel suo partecipare all'idea di uno spazio-tempo proprio degli dèi e non dei mortali, o concreta, "fisica", perché simile a un corpo pulsante, gaudente, sofferente. Anch'essa finisce comunque col percorrere la via che la conduce all'opposto della sua condizione iniziale: nell'assenza di un "racconto" articolato nel tempo e nella "materia" dell'umanita (una Fuga di Bach, ad esempio), affiora una trama interiore, un "viaggio", un avvicendarsi di eventi emotivi che narrano qualcosa; dove la musica sviluppa situazioni identificabili (è "descrittiva" per effetto retorico: le associazioni [corno/caccia] diventano Allusioni o Metafore, le somiglianze [tremolo di violini/fremito, tremolo di Bassi/terrore] sono simili ad Annominazioni... insomma, catene caotiche e incontrollabili di potenziali Isotopie -ovvero figure in cui si possono leggere più significati- tenute a freno solo dalla strutturazione retorica generale o da un titolo), oppure immediatamente riconducibili a una realtà (come certi suoni gutturali del saxofono jazzistico, che com-muovono violentemente chi ascolta, perché sente vibrare nella sua stessa gola quel suono), ci si può scoprire vaganti nella naturale astrazione del "narrare" in musica, verso un'erranza pura, assolutamente libera. Così in Vivaldi come in Shostakovitch. Perché -ma è meno noto- l'opera d'arte è simile alla ricerca di un artista, alla sua eventuale coscienza -o incoscienza- che Arte, più che altro, sia solo l'atto del cercare o del trovare, dell'attendere l'evento artistico ideale, o perfetto. Quando io studio le mutazioni, i percorsi del linguaggio musicale attraverso la storia, ho l'impressione di attendere qualcosa: i frammenti che credo di trovare sono sempre stimolanti, perché in qualche modo mi appartengono intensamente; tutto ciò mi sussurra un semplice segreto: è tutto dentro di me, decodificabile come un microcosmo. Il mio linguaggio dovrò riconoscerlo simile a quei progressi o a quelle digressioni della storia, perché io stesso sono "strutturato" in quel modo. È il risultato delle sedimentazioni regolari, delle costanti sovrapposizioni di vicende ed esperienze nella storia della nostra civiltà: ognuna continua ad appartenerci partecipando a un tutto insieme caotico e organizzato; qui ogni frammento può essere isolato, ma continuare ad agire nel tutto senza consumarsi. Ogni storia -collettiva o personale- è "trasparente" nel sovrapporsi a un'altra. Osservare le "metamorfosi" di un Vivaldi in un Beethoven, allora, è veramente guardarsi in uno specchio (con tutta la sua componente di vanità). E Lanzetti? Lanzetti è un personaggio del suo tempo, della Storia, che nella sua totalità è irrecuperabile - ma anche del mio, se la "maschera" di cui mi rivesto per eseguirne l'opera (strumenti autentici, linguaggio autentico) non mi annulla come individuo. E se una maschera non può essere trasparente (ne risulterebbe annullata anche nel suo valore rituale), può tuttavia generare dei nuovi codici, che una volta decodificati non rinviano più a un mondo -a un luogo "esterno", storico o simbolico che sia- ma a un'interiorità, dove ogni significato è possibile: il Teatro che sposta la sua ottica dall'individuo mitologico all'individuo "concreto", nella sua totalità. E Lanzetti è proprio questo: un musicista teatrante, narratore. Fa procedere il suo racconto in un tempo ricalcato sulla percezione della vita, coerente con la razionalità del corpo e l'irrazionalità dell'anima, o della mente. La sua musica è dionisiaca (dall'uomo verso il dio) e non apollinea (dal dio verso l'uomo): ingenera un ascolto panico nel senso greco: nell'angoscia, nel timore indefinito che gli antichi attribuivano alla presenza del dio Pan nella natura. Sembra volersi esprimere in una forma quasi "letteraria", sviluppando e ordinando idee che somigliano a complesse figure retoriche; (un esempio per tutti: l'Antanaclasi o Reflexio. La si trova più volte, ma basti andarsela a sentire nell'Adagio Cantabile della V Sonata: una frase musicale breve, concisa, viene espressa e poi scompare. Riaffiora solo al termine di altre frasi, che sviluppano un discorso proprio, separato. Nel riaffiorare, il suo "senso" è percettibilmente mutato, e chi ascolta si interroga: che significa? che sta accadendo? perché torna a ripetere cose che mi sembrano diverse?). Ora, io non so capire quale sia stato veramente il livello culturale di Lanzetti: a quei tempi studiare non era semplice, ma la musica era richiestissima, quindi si lavorava molto e si ripeteva molto; ciò significa che molti aspetti "colti" della sua musica possono esserci entrati benissimo per caso, o meglio: per un ottimo istinto d'imitazione. Tuttavia mi piace credere che le sue scelte (anche se inconsapevoli) nascano dal desiderio di narrare in modo tragico attraverso l'ambiguità della sua maniera (italiano/francese, galante/inquietante, giocoso/tragico), per contrapporsi a quelli che facevano musica solo in modo compiacente: per "dilettare". Cercare, insomma, e scegliere quella che sarà la "crisi" nell'accezione romantica: quella che decenni dopo il pittore Füssli descriverà in un bell'aforisma come: «il momento centrale, il momento dell'attesa, la crisi; ecco il momento che conta, pieno di passato, carico di avvenire...». Se è stato così, allora è per questo che Lanzetti scrive per le sue mani e braccia che sanno suonare il violoncello: corpo e anima strettamente legati l'uno all'altra rimangono come sospesi in un attendere assoluto, come unica e inappellabile condizione dell'essere umani. È questa la doppia realtà del mistico: non desidera nulla di più.
E Lanzetti è un Virtuoso del Settecento, preoccupato -per mestiere- di rendere naturale a se stesso ciò che deve sembrare trascendentale al suo pubblico. Il suo lavoro, ovviamente, non può essere troppo dissimile da quello che la sua epoca pretende, così come il linguaggio della sua arte deve assimilare la Retorica in uso per poter comunicare al suo pubblico. Dunque il suo essere violoncellista è quel che deriva dal suonare il violoncello in quegli anni: accompagna strumenti e voci in teatro o nelle Camere; corrisponde, lusinga, dialoga col solista; costituisce scena, ambiente, spazio e misure per il cantante impegnato nel Recitativo o nell'Aria da Camera col Continuo. Può duettare con le voci dei bassi, dei tenori, persino dei soprani: sa diventare un loro sostituto, ed è così inevitabile che finisca col comprendere quale immensa forza espressiva sia nascosta nella "sostituzione" di una voce generata da ossa, cartilagini, muscoli, viscere, umori e tessuti -tutti vibranti e partecipi di un suono udibile nella sua totalità da altri corpi simili- con la voce di uno strumento vagamente antropomorfo, se maneggiato ad arte. Il corpo riconosce sempre il senso dei propri suoni, e in quest'occasione il gioco di sostituzioni ha delle potenzialità formidabili; perché, per dirlo con Barthes, «se esiste un significato dei fenomeni sensibili, è sempre nello spostamento, nella sostituzione, in breve: nell'assenza, che si manifesta con più evidenza» (op. cit.). E ne scaturisce una catena infinita di altri significati, che l'intuito e l'esperienza di un uomo di spettacolo conosce bene e sa sfruttare.
È poi ovvio che il virtuoso strumentista finisca coll'ideare musica sul suo suono e sulla sua personalità, e quindi comporre cose che somigliano alla sua stessa persona mentale e fisica: "autoritratti" (ancora la componente della vanità...). Così se il violoncello di Lanzetti "canta", non è solo perche ha a modello il canto, ma soprattutto perché, essendo stato educato fra i migliori cantanti di teatro, come quest'ultimi non articola i suoni in frasi musicali, ma pronuncia un testo su dei suoni; ossia: il suo violoncello "parla". E parla perche è diventato, in qualche modo, un corpo vivo, pulsante, completo anche di un "idioma" in cui parlare: il suo stile.
Questo violoncello e la musica scritta per lui, attraverso un linguaggio retorico ancora perfettamente efficace, si insediano in un "mondo" parallelo (completo di una propria Natura e Cultura), sicuri della decodificabilita dei loro messaggi, poiché articolati in una realtà somigliante, seppure metafisica
L'orecchio, dunque, cerca di captare dei "segni": «ascolto come leggo, ossia in base a certi codici», osserva ancora Barthes. E se il violoncello di Lanzetti "parla" per raccontare, anche la sua musica -il suo "racconto"- diventa corpo che si muove, agisce, ascolta e procede sommando esperienze. Mentre tutto questo avviene, se ne percepisce la verità, perché tutto è riconoscibile nell'autentico scorrere della vita, ricondocibile alle sue naturali direzioni. E fa sì pure che l'esecutore si debba offrire come un'individualità: autentico, unico, perfettamente umano: né sublime, né divino. Chi esegue guida chi ascolta attraverso la sua personale esperienza delle cose che appartengono a una realtà comune, come in un teatro iperrealista: "ama con me, perche io amo; prova la mia sofferenza su di te, perche io sto soffrendo" potrebbe dire. E io cerco di "pronunciare" ogni frase che suono, cerco di immaginare il suono come "corpo" che si china, si stira, si slancia, si rattrappisce, parla; perche, come sa bene chi ama la Danza, in un modo che percepisco intensamente e che mi affascina, ogni mozione del corpo si "rovescia" subito in movimenti dell'anima.


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IV- Il percorso

«L'inconscio, strutturato come un linguaggio, è l'oggetto di un ascolto particolare e insieme esemplare: quello dello psicanalista.»
(R. Barthes; op. cit.)

 

Ho meditato a lungo se pubblicare o no ciò che segue (molti si sentono intastiditi dal voler leggere la musica per immagini e vorrebbero sentirsene llberi), ma anche il Dio della Bibbia, seppure immateriale, senza forma, si deve servire di mani, occhi, orecchie per essere capito e seguito, e poi, soprattutto, questo è un mio percorso personale, interiore, quasi segreto, spesso nascosto dietro a un'esecuzione apparentemente meno drammatica; ma proprio di queste idee mi sono servito per farmi capire dai musicisti che mi hanno accompagnato, e grazie a queste "tracce" abbiamo vissuto insieme un'esperienza musicale. Dunque lo pubblico, e se è una colpa, ricada pure su di me. (Tuttavia, a prova del fatto che questo sia poco più di un gioco, vi invito a programmare il vostro lettore CD con altre sequenze di brani, per "costruire" Sonate diverse. Un esempio: 17, 22, 20, 2, 18, 23 - 1, 15, 3 - 21, 12, 8, 10 - 11, 9, 13 - 7, 8, 5, 13 - 14, 4, 6, ecc.).
Viene utile il vocabolario greco per ordinare la successione di avvenimenti durante l'esecuzione in questo disco (e anche questo è un suggerimento di Barthes). C'e un fatto: pragma; un caso: tyché; una risoluzione: telos; una sorpresa: apodeston; e un'azione: drama. Tutto infatti avviene come in teatro: si prende il disco, si mette nel lettore, ci si siede di fronte alle casse, e il sipario si apre: noi seguiamo gli avvenimenti, riceviamo i messaggi; quando finirà ricorderemo, avremo l'impressione che sia avvenuto qualcosa dentro di noi. Il pragma, il fatto sonno io che suono il violoncello, i miei colleghi, i loro strumenti. Il tyché, il caso, è il modo in cui la lettura delle Sonate comincia a trovare delle direzioni, delle corrispondenze, dei "segnali" di significato: la Sonata barocca è abbastanza aleatoria da poter diventare anche l'opposto di quel che si è creduto di voler proporre. Io trovo per una buona dose di caso i suggerimenti su come dirigere gli avvenimenti musicali; cercarli per vie razionali potrebbe essere solo un inganno. Il telos, la risoluzione, avviene necessariamente: in questo le idee musicali trovano una loro concretezza, una finalità; ciò che ascolto ora ha un senso più preciso, poiché dargli un senso, ora, non è più solo un desiderio, ma una necessità: non riesco ad accettare l'astratto, se non l'ho raggiunto attraversando il concreto. L'apodeston, la sorpresa, è l'avvenimento destabilizzante, il primo a generare la "crisi", a spingermi violentemente verso l'azione; ma è anche simile al risveglio della coscienza, alla rivelazione eccitante: spiega, apre nuovi orizzonti; il desiderio è di proseguire, lasciarsi coinvolgere dai fatti, agire. Il Drama, l'azione, lo si vive allora pienamente, lo si accetta senza limitazioni, vi si partecipa in prima persona. Forse, in musica, la prima regola per persuadere il pubblico è quella di accendere in chi ascolta il "desiderio" di musica, e forse proprio quel desiderio è l"'azione". Tutto ciò avviene, in ogni caso, tanto nell'atto del suonare quanto nella materia della Sonata stessa. Bene, quel che segue è il mio percorso attraverso le sette Sonate di questo disco.
C'è nel ritmo della musica barocca qualcosa di incalzante, inesorabile, come se si sforzasse di rappresentare il tempo cui è soggetto ogni essere vivente. Se la musica, in sintesi, è ritmo e melodia, allora la melodia è l'anima: libera, potenzialmente incondizionata, ma legata temporaneamente a un corpo per sua natura prigioniero del tempo: il ritmo. Il Barocco parrebbe non stancarsi mai di giocare con quest'idea, variamente ordinandola in figura retorica: Allegoria, Similitudine, Paragone Metafora. Il ritmo -o la sua assenza- diventa quindi 1'elemento fondamentale di questa musica (mentre nel Romanticismo il "corpo" potrebbe essere anche la melodia: il tema). E nell'Adagio Cantabile della V Sonata succede appunto di iniziare senza un vero ritmo: due corone d'attesa, scritte nella linea del Basso, dissolvono nel nulla l'abbozzo ritmico iniziale. E come non avessi un corpo, ma solo un "desiderio" di corpo: io non ho ancora forma, sono solo un vago pensiero: mi sollevo in cerca di un cielo, e il Basso Continuo mi richiama -ritmicamente!- a terra. Dopo la seconda corona ci sono quattro trilli, come tremori nervosi: mi sembra di scuotermi di dosso il mio torpore: ora ho un corpo, ed entro con energia nella "macchina" ritmica. E anche con rabbia: ecco il primo dei si bemolli acuti, che devo suonare come se mi si stringesse un grido in gola; e subito dopo un camminare quasi doloroso, a testa china: ora ho un corpo, e si muove tra la fatica, la sofferenza del vivere; procede ora accettandola, ora rifiutandola, fermandosi e correndo. Si scopre fiero, e desideroso di amore, di tenerezza. Si lascia trascinare (tenta appena di frenarlo) da un movimento del Basso, maestoso, impetuoso, enfatico. Si abbandona ancora, si rialza: cammina ancora dolorosamente a testa china; si ribella, e tornano nuovamente le corone d'attesa: due, come prima, ma quel corpo, ormai, esiste, e non posso che accettarlo. C'è una pausa coronata: un silenzio che mi sembra allarmato; poi leggo: ''Volta''(altrove è scritto "Segue" o "Volti subito"), e proseguo. Mi sono accorto che è il ritmo evidenziato, rigoroso a essere inquietante, ed è il perno su cui si costruisce tutta l'efficacia drammatica del brano. L'Allegro lo recupera con la stessa funzione, ma all'inizio sembra separarsi nettamente dal movimento che l'ha preceduto, ed è qui che io osservo il primo segnale veramente significativo dell'inquietudine di Lanzetti: inizia come un movimento brillante, virtuosistico; per tutta la prima parte si sviluppa come una commedia di carattere leggero: un dialogo malizioso fra amanti, un rincorrersi di eccitamenti frizzanti e dolci; poi, nella seconda parte, comincia a tormentarsi: lo stesso incipit, ora in do maggiore (una terza più acuto e quindi enfatico; in retorica un'lperbole) si fa aggressivo, agitato. Tutte le frasi diventano o dolorose o più concitate; ritornano i trilli ribattuti sulla stessa nota. I giochi d'archetto, che all'inizio erano acrobazie gioiose, ora si eseguono fra le corde estreme, con rabbiosa fatica; tutto si esaspera, e non sembra giungere ad alcuna conclusione: solo il ritorno alla tonalità d'inizio, con una frase di convenienza, per annullare, cancellare un discorso che stava per diventare insopportabilmente grave. Ed è come finisse nel nulla, nel vuoto: c'e un'aporia, o un'ellissi del pensiero (una reticenza, l'Aposiopesis), e la si percepisce nettamente: tace, solo per pudore. Qui è richiesto il Ritornello anche della seconda metà, ma non potrei mai ripeterla: mi convinco che c'è solo per convenzione di simmetria, ma nessuno la vorrebbe. In quel non-concludere sono appeso a un filo: mi è solo possibile cadere a piombo nel Minuetto. E mi pare inizi proprio dal nulla, o venga da un altro silenzio; voglio i due violoncelli soli per tutta la prima parte; il cembalo entra nel maggiore, a confermarne il colore gioioso. Poco più avanti suono un duetto a solo, dove il Continuo mi rincorre in modo aggraziato. Nel Da capo tutto sembra collocarsi al posto che gli compete: una Sonata galante, in elegante livrea, per un pubblico di buona società: servito e divertito.
E galante mi sembra la VI Sonata quando ne inizio l'Allegro. Galante e serena, come il passeggiare in un parco fra una tranquilla borghesia sorridente. Mi viene in mente certa musica celebrativa di Elgar: "unproblematic", sicura di sé, con la coscienza tranquilla. Mi muovo tra frasi affettuose: ciò che suono mi rassicura, mi dà piacere, racconta di piaceri. Ma il Largo che segue è subito una melodia intensamente malinconica; procede per poco, poi rimane un attimo in sospeso (c'è la corona), e improvvisamente e sostituita da una figura totalmente diversa: una discesa cromatica, danzata su quartine regolari e puntate, leggere -l'immagine che mi viene in mente è di una carrozza in tranqullla corsa- eppure cariche di una sottile agitazione: indefinibile, in bilico fra un senso di stanchezza, di disillusione, e un gesto di fortissimo affetto, quasi doloroso. Si conclude, e ritorna il tema malinconico: ora è tormentato: si contorce, sembra non risolvere mai, ma vive di una sua sublime sensualità. Non vorrei più dovermene allontanare: dimenticare la mia meta. Altra corona, e torna il rollìo della carrozza, col suo ritmo simile a un'ossessione, a una trance. Ho forse viaggiato in carrozza tutto il tempo? Sognando a tratti, e allontanandomi dal luogo dove colei che amo era presente, rendeva la mia vita piacevole col suo essermi vicino? C'è una corona adatta a una cadenza, per pormi queste domande, appena prima dell'ultima nota del Largo.
Il percorso armonico della Sonata è semplice ed efficace: si bemolle maggiore il primo movimento, e sol minore il Largo, che chiude sulla sua dominante, dolcissima nel risolvere col ritorno del si bemolle nel movimento finale; Lanzetti usa quasi sempre questa formula. E il finale è una Gavotta con sei variazioni: qui, su un Basso elementare, ripetuto sempre uguale, ho l'idea di giocare intorno a un'ossessione. In queste variazioni non so trovare altro che amarezza, e l'accetto così com'è: un'ossessione, appunto, o tutt'al più un monologo su un'ossessione (ma come potrebbe essere un dialogo, se il viaggio mi ha portato lontano dalla mia amante?). Giungo alla conclusione senza essermene liberato: continuerò a portarla dentro di me, ossessivamente.
Anche la VII Sonata inizia con un movimento galante (è Retorica: si chiama Captatio Benevolentiae); e ricco di idee, di sorprese, di gesti brillanti e curiosi. Ma non ha conclusione: si riversa (o tramuta), invece, in un fugato trascinante: suonandolo mi sento come risucchiato nei vortici di una danza frenetica. Inaspettatamente, a metà, si trasforma: esce come dal nulla la tonalità minore, con una frase che somiglia a uno scioglilingua da fattucchiera napoletana (per questo lo suono con le "notes inégales": non per renderlo francese, ma per dargli quell'effetto di musica popolare, quel certo "swing" un po' magico un po' primitivo); poi si colora di tinte fosche, come un Sabba dipinto da Salvator Rosa, e il ritorno al maggiore e solo un capovolgimento delle luci: niente rinscirebbe a frenare la corsa delle note: e io non posso cedere, frenarmi, se non in un accordo ancora una volta sospeso nel vuoto: davanti a me, il Largo in mi minore, e l'inerzia della "fuga" da cui giungo che mi comprime. Qui c'è una lunga nota, mentre il Basso inizia un movimento regolare, lento, in ampliazione; poi un trillo (deve crescere lentamente in tensione: portare la voce), e poi una melodia così intensa, così appassionata da doverla gridare con tutto il corpo, fino a che il sangue pulsa sul pulsare del Basso (la dinamica indicata qui è il forte, da prendersi alla lettera: con forza fisica). Ma immediatamente tutto è interrotto: si legge: "piano, Arpeggiato", e la stessa sequenza di battiti del polso si ripete nel vuoto, nel deserto, nell"'assenza" impressionante della melodia. Ho provato un senso di smarrimento la prima volta che l'ho suonato, poi ho amato quell'assenza più di ogni riapparire della melodia, che pure è splendida; dove scompare, sembra ancora più presente, e m'incanta col suo segreto. È un dialogo col nulla? o è un atto voluto e cosciente di sostituire "presenze" con "assenze", per salire più in alto, toccare con mano un'astrazione ancora più sublime della musica stessa? La traccia, l'artificio di quel "vuoto", gradualmente perde il suo effetto nel procedere del Largo, e diventa anch'essa presente, concreta, sentimentale. E con questo elemento mutante (all'inizio è la linea del Basso, poi diventa l'assenza di melodia, infine viene suonato dal violoncollo solista, a due voci) che si arriva alla conclusione: un'intensissima corona. Dopo, voglio che esploda il Rondò, ed è un Rondò quasi satanico: è subito la trance, l'ossessiva nenia della danza primitiva: non inizia e non finisce: io non ne ascolto che un frammento: c'era, e continuerà ad esserci. È una danza antica come l'uomo: rappresenta l'eternitè degli dèi. Ma è pure quasi la rivelazione di quel che il fugato -dietro l'apparente austerità della forma- nascondeva: magia delle proprie origini?
L'VIII Sonata è un gioco sottile: sta sospeso al filo delicato della corsa dell'arco in velocissime terzine, in apparente contrasto con l'indicazione "Allegretto', riferita alla pulsazione tranquilla delle armonie e delle idee musicali. C'è qualcosa di sereno, infatti, in queste ultime, di agitato nelle prime: un'agitazione che, se può essere gioioso eccitamento (la Natura amica, l'attesa dell'amante), è pure un'inquietudine sottile (la musica indiana ha un Raga molto simile: Lalit; immagina un principe all'alba del giorno del suo matrimonio). Il secondo movimento è un Adagio; maestoso all'inizio (ingresso trionfale di Ninfe in festa?) e affettuoso-amoroso nello sviluppo. Io ho scelto di eseguirlo come un duetto amoroso col cembalo. Mi sembra un dialogo di gesti teneri e sensuali; il cembalo riesce a trovare un che di femminile, innocente, argenteo; quei lunghi sincopati con dolcissime risoluzioni fiorite, mi sembrano, cosi, lunghi abbracci di amanti. E nell'Allegro finale ritorna l'agitazione, questa volta solo più drammatica: è tormento, concitazione: è la desolazione e disperazione dell'amante abbandonato. Ho cercato di trovarvi altre cose, ma ho dovuto cedere a questo violento Anticlimax
E questa desolazione, questa disperazione, sono quelle che ritrovo nella IX Sonata: un pesante senso di dolore, di fatica. Già l'Adagio sembra farlo proprio, esaltarlo fino al pianto, al grido di angoscia. Nell'Allegro prosegue quasi con la rabbia di chi vuol cacciare il demone del tormento: cercare, anche piangendo su se stesso, di addolcire il dolore, ma finire col gridarlo tutto, abbandonarsi ai lamenti. Paradossalmente, quell'urlare alla paura della morte è un grido di vita, e se ne riconosce tutta la dignità umana. Sembra non trovare alcun percorso: solo sentenze acefale, spezzate come colonne funebri. Qui Lanzetti, per poter concludere, scrive una brevissima frase di maniera, talmente in contrasto con tutto ciò che la precede, da suonare sarcastica (io l'ho addolcita suonandola due volte: non ne sopportavol'eccessiva brevità; ma in Retorica questa è l'Antifrasi: dirige all'opposto di ciò che afferma). Intuisco il probabile motivo di quella scelta: per chiudere questo movimento si sente bisogno di un troncare netto e deciso, e per questo c'è bisogno di un linguaggio totalmente diverso: l'attore ha ecceduto, è diventato uomo vero, ha sofferto realmente; ora ritorna attore; fa l'inchino, e la scena cambia. Ed è un Rondò pieno di malinconia dolce ed agitata sino alla follia. Nel momento in cui la voce del violoncello deve suonare agli acuti estremi, ho voluto che suonasse solo il cembalo all'ottava superiore: così mi è parso di rendere meno feroce l'effetto musicale, anche se un po' me ne pento: quando lasciavo il Basso "a loco", e suonava pure il secondo violoncello, l'impressione di solitudine nella mia parte era straziante, ma per me era eccessiva. Viene poi il Da capo, teneramente. Se si deve ripetere l'inizio del Rondò, tanto vale recuperarvi un senso di serenità e di pace (ma se c'è una figura retorica in questo, e la Dubitatio: che sia il pubblico a scegliere il senso di questo finale).
Nell'XI Sonata l'esordio somiglia a una sinfonia fiera, chiara, sonora. Sembra di imitare il gioco di solo e tutti di un'orchestra da camera. Lo sviluppo è vivace e sereno, un po' come nella VI Sonata. E ancora una volta un movimento così rassicurante, persino convenzionale, prosegue per sconcertare l'ascoltatore: un Adagio bizzarro, breve, intensissimo, e frammentato da accordi arpeggiati e ribattuti nel forte; corone, e dinamiche in estremo contrasto. Io ho pensato di farlo somigliare a un "quasi recitativo', evidenziando quest'idea con brevi cadenze sulle tre corone. Questo "recitare" mi ha portato a un profondo senso di solitudine, incolmabile, persino violento. La frase finale dell'Adagio si chiude in una penetrante sospensione patetica, e il violoncello solo inizia un Allegro fugato, in piano, ben diverso da quello della VII Sonata. Qui la melodia che devo suonare a mezza voce mi appare infinitamente dolce e piena di tristezza: mi sembra allora di avere intuito giusto: c'è un grande senso di solitudine. Allora anche qui voglio i due violoncelli: soli. E chiedo agli altri due strumenti di attendere la ripresa del tema per suonare insieme a noi. Poi tutto si riversa in un altro Adagio, questa volta brevissimo: sembra solo voler ripetere il finale di quello di prima (è quasi uguale!), per cercarne un nuovo sviluppo. E questa volta si sviluppa in un Rondò, quasi grottesco per come si appesantisce e cerca di essere maestoso. Convenzionalmente dovrebbe essere ripetuto dopo ogni variazione, ma in questo caso mi sembra che Lanzetti non l'abbia desiderato: le variazioni sono scritte di seguito, e solo alla fine si legge "Segue il primo Rondò sino al segno" La giustificazione forse è debole, ma le variazioni sembrano venire da un "mondo" tutto diverso dal primo Rondò, e cercarsi l'una dopo l'altra. Così, tra affetti languidi e ubriacati dal ritmo dolce della melodia (sembra più un Siciliano che un Rondò), si arriva al minore: ed è il più patetico, il più straziante, il più amaro che immagino si possa scrivere per il violoncello. Tornare al primo Rondò -massiccio, pesante, quasi goffo- significa così poco che mi accorgo di portarmi dentro ancora intatti tutti i sentimenti che lo precedono: quel finale si richiude come uno scrigno di ferro e legno massiccio, pieno di cose preziose.
I.a Xll Sonata si apre con fanfare trionfanti: la tonalità di Re maggiore aiuta: sonora, vitale come nessun'altra sul violoncello. Un "motto" fiero e festoso (mi hanno detto che è uguale a un concerto per violoncello di Boismortier; chissà chi ha copiato?) suonato in unisono dà l'idea dell'orchestra, e il solista vi si sovrappone con splendente virtuosismo, fra guizzi di luce. È la Sonata che fa maggior uso della voce di soprano, in modo brillante e ingegnoso, giocato con humor, malizia e buon gusto. Tutto si conclude senza cambiar di tono, senza troppa severità, e pare la Sinfonia prima dell'apertura del sipario. Anzi, sono certo che voleva esser questo, perche l'Andante Cantabile che segue sembra veramente una scena pastorale. È cosi pieno di elementi descrittivi, tutti disposti ordinatamente, chiari nei loro significati retorici, che mi è impossibile non cedere alla tentazione di rappresentarla come un dipinto: nella cornice di due grandi alberi frondosi, vicino a una siepe compiacente, due giovani amanti: lei sembra abbandonarsi sull'erba e invitare all'amore; lui tende la mano verso di lei come cedendo al suo desiderio, ma il suo sguardo è rivolto allo sfondo. In questo una valle lontana, attraversata da un fiume sinuoso. Da un lato due suonatori di corno alzano il loro strumento, mentre due cervi fuggono impauriti; li segue una muta di cani, e i cacciatori a cavallo. Ora non so più se lui, l'amante invita lei ad alzarsi e seguire la sorte dei cervi (con tristezza? chi ama pensa con disprezzo alla morte), o se lei gli chiede di non guardare, di dimenticare le lotte della vita e abbandonarsi alle gioie spensierate dell'amore. Mi sembra di sentire, suonando, il richiamo dei corni, il correre dei cani e il fuggire dei cervi, il loro cadere sopraffatti fra rumori di soddisfazione e vittoria. Mi sembra di vedere l'amante alzarsi o chinarsi, chiamare o lasciarsi chiamare dalla dolce sensualità di lei. Il tutto immobile, eppure vivo, dinamico nei segreti delle sue allegorie. Segue il Minuetto più amoroso di tutta questa raccolta di Sonate: pieno di una luce così serena e piacevole che non ho saputo fare a meno di renderlo concertato fra tutti i nostri strumenti. Ognuno ha il suo turno per giocare con le sue frasi innamorate, belle come l'armonia della vita che la musica si complace di imitare. O forse belle come la follia, perché, come osservava Barthes, «il musicista è sempre folle, al contrario dello scrittore, che non può mai esserlo, perché è condannato al senso».

Post Scriptum.


Tutto il lavoro di questo disco è nato e cresciuto leggendo Roland Barthes. Era quindi inevitabile che si riversasse in questo scritto, anche se in massima parte inconsciamente. Dov'è citato, lo è in modo perfettamente infedele al senso originario, in una lettura trasversale che certo avrebbe gradito, e che mi auguro abbia gradito anche il lettore.
C. R.

 


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