«Sì sì, ch'egli è vero, ò del vero Apollo santissime & beatissime Muse, che de' passaggi delle vostre lire, & de' versi vostri le contrade del celeste Parnaso risuonano.»

G. B. Marino, op. cit. pag. 112)

 

«[...]"Sì, è vero, amato fratello, —rispose— è vero". Il capitano Halvorsen e la signora Oppegaarden si trovarono improvvisamente vicini in un angolo e si scambiarono quel lungo, lungo bacio per il quale non avevano mai trovato tempo durante il segreto, titubante amore della loro gioventù. [...]»

(Karen Blixen, Babettes Gaestebud, "Il pranzo di Babette", versione italiana di Paola Ojetti; ed. Einaudi 1997)



 

 

«Il gregge del vecchio decano era formato da gente umile. Quando, più avanti nella vita, ripensarono a quella serata, a nessuno passò mai per la mente di essere stato esaltato per il proprio merito. Compresero che la grazia infinita di cui aveva loro parlato il generale Loewenhielm era stata loro concessa, e non se ne stupirono nemmeno, perché era stato il compimento d'una speranza sempre viva. Le vane illusioni di questa terra s'erano dissolte come fumo davanti ai loro occhi, ed essi avevano veduto l'universo come realmente esso è. Era stata loro accordata un'ora del millennio.»

(Karen Blixen, ibid.)

«Ma qual sì vario & pellegrino accento modula il Rosignuolo, il qual con sillabe articolate non descriva con l'agilità della humana lingua; & non si scriva con la velocità della penna? intanto che, non pure gli orecchi ascoltino, ma gli occhi stessi trascendendo il proprio obietto, veggiano il canto.»

(Emanuele Tesauro, «Il cannocchiale aristotelico»
Torino, 1670, pag. 167)


 

«Ptr.. r..r.. ring - twing-twang -prut-trut- 'tis a cursed bad fiddle. -Do you know whether my fiddle's in tune or no? -trut.. prut. - They should be fifths.- 'Tis wickedly strung- tr...a.e.i.o.u. -twang.»

(Laurence Sterne, «The life & opinions of Tristram Shandy...», Vol.V, cap.15; Londra 1761)

 

«Through all the world there goes one long cry from the heart of the artist: Give me leave to do my utmost!»

(Karen Blixen, Babette's feast; Skaebneakdoter 1958 by Gyldendalske Boghandel, Nordisk Forlag A/S)

 



 

 

«Maledetta voce umana, violino di carne e di sangue, cavata dai sottili strumenti di Satana e dalle sue mani sagaci!»

(Vernon Lee, "La voce malefica", da "Hauntings", 1892; ed. Sellerio, 1982; trad. A Brilli)

«Si dice che Paganini fosse "affascinato" dalla propria resistenza al dolore, al limite di un masochismo patologico. Esiste una testimonianza in cui si racconta del giorno in cui si era fatto cavare tutti i denti, perché da troppo tempo gli causavano continui dolori; Paganini, con la bocca sdentata grondante sangue e schiacciata in un sorriso diabolico, girava per casa suonando sul suo violino passaggi d'insuperabile virtuosismo e d'incredibile difficoltà.»

(C.R.)

Attendi!
C'è un guardiano oltre quella porta.
Larve leggere,
ma spiriti grevi, che ti vomitano addosso.
Solo la mente dolce
può dormire tra i fantasmi.

C.R.

 

 

 

 

 

«Si direbbe che la voce umana è qui tanto più presente quanto più è delegata ad altri strumenti, le corde: il sostituto diventa più vero dell'originale; il violino e il violoncello "cantano" meglio -o, per essere più precisi, cantano più del soprano e del baritono, perché se esiste un significato dei fenomeni sensibili, è sempre nello spostamento, nella sostituzione: in breve, nell'assenza, che si manifesta con più evidenza.»

(Roland Barthes, "Il canto romantico", in France-Culture, 12 maggio 1976; trad D. De Agostini)

 

«...Ma io voglio portare a memoria le pagine in cui Elie Wiesel descrive l'angoscia dei testimoni al processo di Norimberga, il processo in cui il nuovo mondo civile cercava di tradurre in parole e concetti l'orrore vissuto nella carne e nell'anima dai sopravvissuti all' "Olocausto", alla shoah.
Uomini e donne che erano stati denudati, straziati, "disanimati" dalle leggi di un governo la cui etica era deviata, impazzita; con quel dolore atroce su tutto il loro essere, quella ferita che avevano appena cominciato a nascondere nell'intimo, a celare dietro un terapeutico pudore; con quel recente sollievo che li faceva sperare in un ritorno possibile alla vita, alla "normalità" di un lavoro, una casa, una famiglia; quella gente doveva raccontare, descrivere ciò che era successo, perché la giustizia degli uomini potesse "fare il suo corso", perché "i popoli potessero capire".
Là, ogni parola doveva confrontarsi con la responsabilità terribile di
"rappresentare" veramente, inequivocabilmente la realtà: «I sopravvissuti, reticenti, davano risposte approssimative, aggiravano l'argomento,», scrive Wiesel, «oppure rimanevano in silenzio.»
Per pudore, dice, di cose spesso troppo dure per esporle alla luce, per toglierle dall'intimo segreto
con cui si aveva l'impressione di potersi proteggere; ma anche per timore: «soprattutto per timore. Timore di suscitare l'incredulità, di sentirsi dire: avete l'immaginazione malata, quello che descrivete non può essere accaduto. Oppure: tentate di intenerire la nostra pietà, di mercanteggiare le vostre sofferenze. O peggio: timore di venir meno a una missione, di tradire l'esperienza unica imprigionandola dentro parole logore, nefaste. Timore di dire quello che non deve essere detto, di voler comunicare con la parola ciò che sfugge alla parola, di cadere nella trappola della bugia facile.
Ciascuno di loro doveva, ad un certo momento, subire la tentazione di stringere le labbra e adottare un mutismo assoluto. E trasmettere la visione dell'olocausto alla maniera di certi mistici, sottraendola al linguaggio.
Se tutti avessero taciuto, l'assommarsi dei loro
silenzi sarebbe stato insopportabile: il mondo sarebbe diventato sordo.
»

(C.R. - Elie Wiesel, Al sorgere delle stelle, p. 160; trad. A. M. Guerrieri, ed. Marietti, 1985.)

 

 

 

 

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