Maria

«Harmonico, e flebile Laberinto di toni, e suoni per le orecchie negli animi sottentrò; diluviosa tempesta di lumi, e colori inondò per gli occhi: in grado tale, che sembrarono gli Uditori, ò dall'eccellenza degli oggetti resi insensati, ò quasi astratti dà i corpi, insensibilmente felici»


Girolamo Matranga, Le solennità lugubri e liete, Palermo 1666, libro II, pag.44.

 

Un amico molto caro, scrittore e poeta, mi aveva invitato alla presentazione di un suo libro di poesie dedicato alla moglie, Maria, morta l'anno prima d'un cancro incurabile. Fu una morte tragica, inattesa, prematura, perché era un'artista dal talento eccezionale, e non aveva avuto tempo per quel che voleva dare.
Forse anche al mio amico quel tempo non era stato sufficiente: per amarla, dopo quel distacco quasi dedicava ogni suo giorno a far vivere le opere d'arte che Maria gli aveva lasciato, come un solenne pegno d'amore, un'ultima promessa. Così era per quel libro di poesie, e io accettai di suonare per il pubblico della presentazione.
Appena arrivai, mi corse incontro per farmi subito conoscere colui che, diceva, era la persona a cui doveva la maggior riconoscenza: il prete cattolico che aveva seguito Maria nelle ultime settimane di vita.
C'era ancora molto tempo prima dell'inizio della presentazione, e mentre il mio amico si occupava di accogliere gli altri invitati, io e il prete cominciammo a parlare dell'arte di Maria. Dopo poco, gli dissi che non avevo fatto in tempo a incontrarla: la conoscevo solo attraverso le opere che il marito aveva raccolte e conservate; gli chiesi quindi di parlarmi di lei, di raccontarmi come era avvenuto il loro incontro.
Mi spiegò allora che passava tutto il suo tempo libero avvicinando persone malate o prossime alla morte, per rendersi disponibile al loro riavvicinarsi o scoprire la fede nei momenti di maggior crisi. Commosso e affascinato, gli chiesi di parlarmi ancora della sua vocazione.
Lui cominciò a dirmi della forza straordinaria che riceveva per quella missione: un'energia meravigliosa, inesauribile: quella di Gesù, che poteva manifestarsi anche attraverso la persona più umile, e che compiva il miracolo della conversione, della salvezza. Continuava a parlarmi con enfasi di questa presenza che lo invadeva e lo usava, finché mi sembrò di ascoltarlo ripetere ossessivamente solo più il nome di «Gesù!»e la parola «amore!».
Volli fermarlo -certo, forse lo feci con eccessiva brutalità-, dicendo: «Perché lei ha bisogno proprio di quel nome, per trovare la forza dell'amore? Non ne esistono forse altri, al mondo, tutti, uno per uno, dotati di questo stesso potere, ma solo per chi può crederci con fede sincera?»
Rimase qualche istante interdetto, ma poi sorrise, rispondendo subito che Gesù era l'amore, che tutto l'amore del mondo era nel Cristo figlio di Dio, che Gesù aveva sacrificato se stesso per amore dell'uomo, e per questo il suo dolore era amore, il suo nome era amore, amarlo ed imitarlo era l'amore... «No!» lo interruppi ancora; «So perfettamente che fino a qualche mese prima della sua malattia, Maria era un'atea, e so benissimo che non era pronta a una morte così improvvisa, inattesa! E per conoscere Dio non c'è solo Gesù Cristo! Va bene anche Budda, c'è Krishna, c'è... non ho neppure la minima idea di quanti ce ne siano, ma sono tutti nomi che rimandano all'Amore con la "A" maiuscola, e vanno bene per tutti quelli cresciuti nella fede in Dio, anche parlando lingue diverse dalla mia e dalla sua!»
Sorrise ancora, e mi disse che tutto ciò era certamente vero, ma che tutta quella gente era in errore, e che avrebbe potuto essere salvata solo dall'assoluta innocenza della loro fede; a noi, però era data la lingua e la parola di Gesù Cristo Salvatore, e a noi era dato pure il dovere della conversione di noi stessi e del mondo.
Gli domandai con estrema irritazione: «Ma se un israelita vuole morire nella sua fede, alloravuol dire che morirà lontano dall'amore
Su quel punto non sorrise più. Mi guardò fisso negli occhi e mi chiese se ero ebreo. Risposi con una provocazione: «Quando verrà il Messia saremo tutti ebrei!»
Rimase in silenzio, e io continuai: «Che bisogno c'è di legare l'amore solo al nome di Gesù, di negarlo ad altri profeti dell'amore? Perché per agire con la forza dell'amore dovremmo nutrirci proprio di quel nome? Non le viene mai in mente quanta sofferenza, quante guerre, dolore, incomprensione, di quanto "errore" ha creato il nome di Gesù nel mondo?»
Si alzò, senza più guardarmi, e andò via con gesto di disprezzo, senza dire una parola.
Quando tornò il mio amico mi chiese dov'era il prete. Risposi con grande imbarazzo, dicendo che l'avevo solo visto uscire di fretta, che forse aveva qualche impegno urgente. Io non volevo, non potevo rovinare quel momento così importante per lui: tacqui, e poi andai sul palco a suonare.
Mentre al violoncello cantavo un'appassionata melodia ebraica, continuavo a chiedermi: «chi sono io, per arrogarmi il diritto di offendere un uomo che dedica tutta la sua vita agli altri, col sacrificio della sua libertà? Perché devo distruggere quel nome, se quel nome gli dà la forza di compiere quegl'atti meravigliosi che io non ho la forza per affrontare?»
Però capivo bene che quel nome, pronunciato con tanta foga, era solo la rappresentazione del fallimento della sua fede: un vitello d'oro, che si vede, si tocca, si innalza al pubblico applauso. Dietro a quegli atti d'amore c'era un inganno, c'era un'energia d'amore dispersa nel potere del nome di un idolo, vessillo di guerre di conquista, orrore di massacri senza fine.
Poi tornavo ancora al rimorso: ogni giorno gli atti d'amore lui li aveva compiuti! Quel prete non aveva alcuna colpa per la storia della cristianità! Lui era redento dalla qualità delle sue azioni, e non da quei nomi che pronunciava con eccessivo, ma perdonabile fervore!
O forse no: neppure nell'azione più pura, più innocente, era possibile creare una verità "al di sopra" della parola...
Non so rispondere.

 

Claudio Ronco

(Da: "Il violoncello errante", © C.Ronco 1998)