Caro amico,
nei giorni che sono seguiti al nostro ultimo incontro ho troppo spesso comunicato con te e con gli argomenti e le cose che mi avevi detto in quell’occasione, in assenza però della tua presenza e della tua voce... D’altro canto mi confonde quel nostro dibattito fra le necessità immediate di sopravvivenza spicciola, individuale, e i grandi temi di sopravvivenza planetaria che pure vedo bene quanto e come si intreccino e –appunto!—si confondano.

Il giorno della tua visita, quando ti ho lasciato al treno per Padova, mi sei apparso simile a una curiosa figura impregnata di metafore. Ti osservavo in piedi davanti al treno, con un bagaglio di falsi cristalli (il plexiglass) destinati a “cristallizzare” in modo estetico alcuni oggetti della tua casa; di uno in particolare mi si era presentato –casualmente, nel laboratorio che te l’aveva realizzato– l’aspetto definitivo: il contenitore/vetrina della vecchia macchina fotografica a soffietto. Ecco: quell’apparecchio la cui funzione primaria aveva ormai cessato di essere praticabile, diventava lui stesso oggetto da osservare, in un curioso ribaltamento dei valori per il quale l’immagine bidimensionale alla cui produzione era stato destinato (per di più bi-cromatica, data l’età di quello strumento!) era ora tridimensionale nell’esser divenuto oggetto da ammirare congelato in vetrina, ma in questo guadagno di dimensioni avendo perduto la vita…
Ora è come se d’un colpo, guardando quella vecchia macchina fotografica entrare nella sua scatoletta trasparente e protettiva, io ci fossi entrato con lei, diventando io stesso ciò che essa appariva ai miei occhi.
Più o meno questa è la sensazione che continuo a portarmi dentro, in relazione però a tutto quel che ci siamo detti, e non solo alla visione di quello strumento diventato obsoleto, qual è un vecchio apparecchio industriale non più utilizzabile.

Il plexiglass a volte ricorda il cristallo, perché gli somiglia; sebbene si sciolga o bruci al calore (non so esattamente come si comporta quel materiale), stranamente non mi ha mai portato alla mente il vetro, che dovrebbe essere un “liquido” allo stato “solido” quando osservato nell’ambiente in cui l’uomo può vivere, ovvero alle temperature che ne “arrestano” la forma e congelano l’aspetto. Questa è l’altra metafora: le mie conoscenze di musicista classico ora mi appaiono come immobilizzate nella loro solidificazione –simile, e solo simile quindi a una “cristallizzazione”—causata dall’essere poste nell’ambiente che non permette loro di scorrere come liquidi nelle cose del mondo, da queste prendendo forma e direzione. Né alternativa è possibile, senza che l’eccessivo calore necessario alla liquefazione di una tale materia riduca drasticamente i limiti di sopravvivenza degli organismi quali siamo io e la mia intelligenza…

Per meglio intenderci:
quando l’architetto Pierluigi Nervi, più o meno negli anni '50, scriveva queste parole: "Il fatto di poter creare pietre fuse di qualunque forma, superiori alle naturali, poiché capaci di resistere a tensioni, ha in sé qualcosa di magico.", può pur essere che pensasse occasionalmente al miracolo del “calore” dell’intelligenza di un Michelangelo nell’atto di scolpire il marmo, ma sostanzialmente pensava solo e positivamente al materiale che in un punto della storia della nostra civiltà ha permesso la definitiva svolta tecnologica del pensiero estetico ed etico: il cemento armato.
E con il cemento armato cessa il controllo sulla fantasia dell’uomo che nella storia era stato esercitato dai naturali limiti dei materiali e dei “moduli” entro tali limiti realizzati, come il mattone d’argilla cotta o cruda, la pietra di fiume grezza o lavorata, il legno e così via, in una storia di edificazioni architettoniche che fu sempre possibile demolire e riciclare… Siamo dunque giunti al punto in cui gli “edifici” della nostra intelligenza liberata dalla costrizione dei limiti posti in natura, non saranno più in grado di essere trasformati in altro che squallide e mortifere rovine?
In una lettera a un amico mi era capitato di scrivere, proprio in relazione alla nuova libertà della fantasia dell’architetto, ottenuta grazie al cemento armato:
“…Con un clavicembalo antico ben restaurato non è necessario suonare solo musica del passato, e la musica del passato non è necessariamente estranea al mondo presente, o capace di parteciparvi solo in modo d’una nostalgia. Inoltre un clavicembalo può suonare insieme a qualsiasi altro strumento a misura d’uomo, mentre una chitarra elettrica o una tastiera elettronica necessitano di uno spazio e di un ambiente condizionati dall’amplificazione; allo stesso modo, un edificio costruito in mattoni e legno ha dei limiti strutturali che lo pongono in relazione a quella “misura d’uomo” nella quale infinite altre culture possono convivere o coesistere, in ragione di un principio “amoroso” di avvicinamento e scambio d’esperienze, fondato sull’idea di ibridazione piuttosto che sulla contaminazione, ispirato al rispetto sociale piuttosto che alla sopraffazione del più forte sul più debole; in breve, contribuendo alla costruzione di città dove sia possibile difendere l’umanità dai danni e dalle tragedie della con-fusione grazie alla fusione delle diversità in edifici d’intelligenza compassionevole e saggia, si può sperare in un mondo che smetta di scegliere più o meno inconsciamente il suicidio di massa... Qui sta il nocciolo della questione: alcuni “strumenti dell’arte” dell’architetto come del musicista, dello scrittore come del pittore e così via, sono violenti e causano morte, mentre altri posseggono il dono della leggerezza come quello della profonda visione, della meraviglia e dello stupore come della grazia e della varietà, esprimendosi in una bellezza che si posa sul mondo con la carezza dell’amante e lo sguardo ricettivo e fertile dell’amato.”
Ma certo non tenevo conto del fatto che ANCHE con una semplice voce umana non “amplificata” (nel senso più ampio di questo termine, che può pure significare una voce “amplificata” dai media…) si possono far danni irreparabili all’umanità e all'intelligenza…

Così, in piedi di fronte a te presso un treno in partenza, a queste due prime metafore si aggiungeva la terza: con tre sacchi di plastiche varie in mano, il mio amico se ne parte da me, viaggiando verso l’incontro con i miei nemici simbolici, anzi, con i miei “carnefici”…: i minimalisti in musica, l'avant-garde di Terry Riley o di Philip Glass, l'ipnosi del somigliante a tutto e a niente … fin troppo facile vedere e capire che la loro “lezione” nel mondo della musica è quella che mi esclude, mi appiattisce, in una parola: mi annulla.

E non solo metaforicamente: dei miei anni d'insegnamento di etnomusicologia a me non è rimasto altro che un’unica allieva. Si chiama Beatrice ed è una laureata in Fisica che lavora come meteorologa, conservando in sé un profondo desiderio di musica. A lei continuo a dar lezioni, purtroppo senza nulla poter pretendere che possa sollevarmi dal problema quotidiano del mio sopravvivere “stringendomi” su me stesso e riducendo i miei bisogni,  o “allargandomi” nella società del lavoro con nuove e imprevedibili attività.

Beatrice prosegue il suo cammino nel corso di etnomusicologia, e quando inciampa nell’assurdo chiede aiuto a me. Uno dei casi più grotteschi è quello dell’obbligo allo studio dell’armonia complementare, che nello specifico caso di coloro che sono stati ammessi a questi corsi, basa l’esercizio della composizione a tre o quattro voci omoritmiche sulle conoscenze a livello zero di teoria musicale degli studenti. Il risultato di quell’obbligo è grottesco in quanto che la soluzione all’evidente, prevedibilissimo problema non è stata l’eliminazione di tale materia di studio o un numero sufficiente di ore e di studi preparatori per poterla affrontare, bensì la riduzione di essa a un livello che nessuna mente onesta può definire “accettabile”. Insomma, un mostruoso bluff che tuttavia impegna in un gran numero di ore di lezione docenti e studenti.
Ma Beatrice si è resa conto che l’armonia di base avrebbe voluto impararla per davvero, sicché mi ha chiesto aiuto…

Per insegnargliela non ho usato le note musicali, per lei ancora troppo “chiuse” nell’ancor incomprensibile mondo del “discorso musicale”, bensì le parole poste in ritmica sequenza e costrette al gioco delle rime. Nei primi successi di questa trasversale didattica (ma per nulla nuova, essendo null’altro che quel che praticavano i Classici…) mi è capitato di scorgere un messaggio che in qualche modo avrei voluto lasciarti fra le mani quella sera, alla stazione ferroviaria, affinché tu l’aggiungessi al peso di quelle tre borse di plastica, verso il teatro al quale eri diretto e nel quale Beatrice, senza che io te l’avessi detto, non soltanto ti aveva lasciato il tuo biglietto all'ingresso, ma pure ti aspettava, invitata da me a cercarti tra la folla, presentarsi e conoscerti.
Ma se Beatrice non fu in grado di rintracciarti fra i troppi convenuti, se io non riuscii a spiaccicar parola di quel mio pensiero durante tutto il tempo del nostro pur breve incontro… bene, oggi voglio offrirti uno stralcio della mia lezione d’armonia e contrappunto, al fine di farti intendere anche le parole che avevo desiderato dirti riguardo alla follia che stavi per confermare con il tuo viaggio verso il conservatorio di Padova, quella sera, nel quale si sarebbe consumato ancora un altro rituale di annichilimento del pensiero musicale, con la benedizione e l'azione di Terry Riley, in un mondo che ormai non concede e non riconosce più alcun valore reale a critiche o grida di protesta.
Permettimi quindi di “rigirare” quella lezione a te, così rispondendo per la prima volta a quella gradita richiesta che tu un giorno di qualche anno fa mi avevi espresso, con speranza –mi rendo ben conto!—di apprendere qualcosa sulla musica dell’India e non altra, ma che io oggi, come allora, voglio intendere come Musica e basta.

Qui la lettera con la mia lezione; per introdurla ti basti sapere che in modo giocoso io ho costretto Beatrice a un prolungato dialogo in rime baciate, prolungando così di qualche giorno le libertà carnascialesche e il loro scopo e valore: quello di rivoluzionare ciclicamente il mondo, ad ogni crisi, con la cura della follia…

Con grande affetto d’amico, tuo Claudio,
Venezia, 8 marzo 2006.

continua con Beatrice


 


 

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