2 Sì amica mia, è vero...
E in qualche modo io e te, nel tuo ascolto, stiamo “facendo l’amore”.
Ed è questa soddisfazione profonda che sentiamo entrambi, e che ci riempie, a indicarlo. E anche il senso della “sospensione”, che in un certo senso è levità, leggerezza. Anche questo è essenziale all’amore.
Per un violoncellista, portare il suo strumento a contatto col suo corpo, ancor prima del suonarlo, è un gesto pieno di significato. Egli l’appoggia al cuore, lo accoglie fra le proprie gambe, dilata il proprio corpo in un abbraccio intenso, avvolgente, dispone le dita sui tendini tesi delle corde, pronte a riceverne il tocco sicuro nel misurare, dividere, soppesare, infine fa cadere il braccio e l’arco verso quel contatto sublime con la corda che produrrà voce in miracolosa espansione...
Tutto questo ogni amante della musica lo riconosce, lo ammira, ne gode e lo associa all’atto del far l’amore, offrendo una metafora all’osservazione di una gestualità che nessun altro strumento di musica, seppur nobile, può palesare con altrettanta evidenza alla vista. In quei gesti e quei movimenti del corpo, l’arte, che sospende l’usuale percezione delle cose, ne sposta la visione all’udito.

2E dunque è il pubblico —il suo ascolto attento, la sua partecipazione commossa— a divenire l’amante del concertista. E anche questa è cosa nota e ripetuta, fino a renderla sottintesa, poi ovvia, e infine trascurata. Così il concertista calca le assi del palco in solitudine, e si mostra allo sguardo dei convenuti come separato, allontanato da un invisibile muro che divide il suo spazio dal loro. Quel muro è situato esattamente sulla linea di confine, più o meno evidenziata dal teatro o dalla stanza, tra la prima fila di spettatori e la scena. Se non è un confine invalicabile, ciò accade proprio per effetto della sua precisa delineazione; a volte io l’ho percepito simile a un fossato riempito d’acqua torbida, o a un fiume o un canale lento e fangoso che in qualche modo dovevo poter attraversare. In entrambi i casi, c’è un’acqua immaginaria che spaventa, poiché cela invisibili abissi, imprevedibili pericoli nascosti dalla sua opacità.
2Nel suonare in concerto pubblico, spesso la mia attenzione si concentrava sul desiderio di renderla trasparente, sicura.
Allora fissavo gli occhi sullo spazio tra le due sponde e immaginavo di sollevarmi, di tenermi sospeso fra quelle come diventassi un ponte lanciato nell’aria con la stessa grazia d’un colpo d’archetto a colpire le corde del violoncello, quando si improvvisa un calmo preludiare. E immediatamente accorrevano al generarsi di questa illusione tutte le linee curve e le forme del mio strumento, abitudinaria visione troppo spesso inutilmente presente di fronte ai miei occhi: il ponticello ritagliato con sapienza di Architetto e di Pontefice, per trasmettere, per comunicare alla cassa la vibrazione della corda... 2
E sotto i piedi del ponticello, il rigonfiamento della tavola armonica, come leggero “arco di ponte” appoggiato agli archi delle fasce... anch’esse “ponti”, altri e ribaltati per rovesciare le direzioni dei pesi, spostare la direzione della gravità, e opponendosi congiungere mondi paralleli e capovolti, per racchiudere un universo nello spazio fra i due volti speculari e nascosti del violoncello...
E nel volto nascosto l’ “arco di ponte” del fondo, viso senza occhi, o schiena incurvata nello sforzo, opposto e connesso allo sguardo frontale e aperto della tavola, per effetto del vibrare di quella sottile e nascosta colonna di legno, eccitabile quanto una corda tesa, che chiamiamo “anima”,
forse perché si posa là dove un’arte centenaria, istruita dall’orecchio, sceglie e stabilisce di volta in volta d’appoggiarla, presso il punto preciso in cui gli archi di ponte di tavola e fondo iniziano a scendere, l'uno verso l'altro e insieme verso il centro invisibile dell’energia... E quella si espande in ogni direzione, scaricando i pesi nella voluta del riccio, o nelle curve ritorte e complesse dei fori armonici, o nelle linee del corpo di colui che ne trae musica...
2E ancora l’archetto, impugnato dalla sua mano... “ponte” anch’esso, coi piedi appoggiati sulla linea bianca dei crini di cavallo, presi a prestito dalle loro ondeggianti, inquiete, sensibilissime code. Crini non più scompigliati al vento delle corse eccitate, ma raggruppati e tesi, a carezzare la vibrazione della corda, e spingerla, frenarla, percuoterla, proiettarla nel suono...
E l’ “arco di ponte” dell’onda del suono s’innalza, s’inarca, svetta, si slancia, si riflette, scavalca le barriere...

Mi accadde così, da queste sospensioni del mio pensiero, che nel meravigliarmi di tutto ciò un giorno finii col trattenere troppo a lungo il braccio dall’atto di iniziare il concerto. Nell’imbarazzo, anziché tacere e conservare nel segreto dei miei ricordi quella visione, io abbassai l’arco allontanandolo dalle corde, e rivolsi la parola al mio amante, il Pubblico.

2Alzandomi e indicando il bordo del palco, la linea di confine fra me e loro, mostrando i nostri spazi divisi, dissi: «C’è un ponte che congiunge la mia alla vostra isola, il ponte che gettiamo insieme io e voi...».
Tutti sentirono come una lacerazione, un dolore sottile che si insinuava nel profondo, con la coscienza della distanza, del distacco. In quella particolare qualità del silenzio io continuai: «...È il suono del mio violoncello. Esso è come un ponte, e appoggia sui due estremi contrapposti della mia tecnica musicale e del vostro desiderio di ascoltarne il suono, proiettato oltre le nostre distanze...», così iniziando a far vibrare le corde nella mia prima frase di musica.
Al termine del concerto io narrai loro una storia.

L’anello della sposa

1In una notte d’ottobre, a Venezia, passeggiavano due amici cinquantenni e una donna. Vestivano eleganti abiti da sera, e la donna, avvolta in un manto di seta azzurra, portava vistosi orecchini di brillanti, al collo una massiccia collana di cristalli e perle, ma alle dita solo un anello: la vera d’oro del suo matrimonio. Camminava taciturna, ancora giovane com'era, quasi in disparte, come volesse sottrarsi con discrezione e timore all'intenso dialogare dei due uomini.
Di quelli l’uno, padre di due figli, si era appena separato dalla moglie, e l’altro, dopo due divorzi strazianti e un lungo periodo di solitudine, aveva appena sposato in terzo matrimonio la donna che passeggiava con loro.

All'apparenza erano una coppia fiera, serena, pienamente soddisfatta nonostante la differenza d'età. Pur tenendo segreto il suo pensiero, l’uomo da poco separato vi percepiva però un tarlo, un difetto, una paura. Taceva la sua curiosità per quel fatto, così come riservava per se stesso il racconto del dolore ancora intenso che gli avvelenava l’animo.
L’altro, invece, col gesto di chi vuol esser vicino all’amico sofferente poiché pensa di riconoscervi i tratti di un dolore già provato su se stesso, si insinuava senza pudore nell’intimità dell’amico, insistendo nel domandargli di raccontare la vera storia della sua separazione.

Passeggiavano di notte, in una Venezia autunnale a tratti lugubre tra le sue pietre vischiose d’umidità. Già da ore vagavano fra calli e campielli, decisi, o rassegnati, a veder sorgere l’alba sulla laguna. Ormai anche la donna aveva abbandonato ogni discrezione: stuzzicavano entrambi l’amico per fargli raccontare il fallimento della sua vita matrimoniale. E forse ci sarebbero riusciti da un momento all’altro, nel rilassarsi dei modi, con la complicità della luna, nel silenzio della città addormentata.
Ma l’amico non dava segno di cedere. Abilmente, cambiava discorso, scherzava scapolando le loro domande, iniziava e mai finiva lunghi racconti su tutt’altri argomenti.1

Nel gironzolare a caso giunsero all’ampio ponte in legno dell’Accademia, e in mezzo a quello si fermarono appoggiandosi alle sponde, come fanno tutti per ammirare la chiesa della Salute, le possenti volute a spirale della cupola, in quella notte illuminata dalla luna riflessa nell’acqua. Inaspettatamente, di fronte a tanta maestosità, la donna si sedette a terra ripiegando la seta del suo vestito sotto le ginocchia; si distese poi sulle travi di legno grezzo e impolverato come fossero preziosi tappeti e cuscini, e invitò gli uomini a imitarla.


Prima imbarazzati, poi divertiti, i due amici accettarono l’invito e furono accanto a lei, incrociando le gambe impacciate dalle scarpe da sera, provando e riprovando posizioni accucciate, finché risero di quello strano gesto, riuniti come a un picnic sull’erba nel mezzo di un ponte veneziano a tarda notte.
Ecco che inaspettatamente, in quel preciso momento, l’uomo che fino ad allora aveva evitato di parlare di sé sciorinò una dopo l’altra in un fiume tutte le parole che descrivevano il ricordo e la coscienza della sua separazione. Rivisitò i litigi, gli equivoci, la violenza dell’odio espresso a parole e a pugni e a schiaffi, il dolore dei figli, le notti insonni, gli incubi affannosi, le parole che feriscono, gli avvocati che invadono la vita, gli amici che consigliano, le urla, gli sguardi dei vicini di casa, la paura della solitudine, la rabbia, l’orgoglio, la disillusione, il senso di colpa.

I due sposi ascoltavano stupiti, in assoluto silenzio. Lei teneva gli occhi fissi a terra, e con le dita rivelava un’inquietudine, giocherellando nervosamente con la vera d'oro del suo matrimonio: la toglieva e la rimetteva all’anulare prima di una mano e poi dell’altra, la tastava e soppesava, la faceva girare e dondolare fra pollice e indice. In un nulla, l'anello scivolò via da quelle dita in un’ellissi troppo veloce anche per l’occhio, evitò lo slancio della mano a bloccarne la caduta, e infine scomparve nel toccare il suolo.1

Seguì un silenzio terribile.
Ognuno, senza quasi respirare, fissava gli occhi sul punto tra le assi consunte di quella piattaforma sospesa sull'acqua, dal quale intravedeva appena il luccicore del canale, attraverso un pertugio allungato, poco più largo dell’anello che pareva averlo attraversato con precisione infinitesimale.

Era impossibile credere a ciò che era successo: come poteva essere caduto proprio in quel punto, in una fessura così piccola, l’unica tutt’intorno a loro? Cerchiamolo, dev’essere rotolato qui vicino! —si ripetevano agitati— dev’essere finito più in là, da un’altra parte! Non può esser caduto in quel buco! L’occhio si è ingannato, è stata la penombra... o forse si è infilato tra le pieghe del vestito! Alzati! Cercalo! Trovalo!

Finché fu certo che a quell’anello, per disgraziata casualità, non poteva esser successo altro che centrare e attraversare l'unico punto dell’universo da cui non era più possibile recuperarlo.

Mentre lei già piangeva, il marito si tolse la vera gemella. Reggendola fra due dita penetrò rabbiosamente il vuoto della fessura, ne misurò tutte le dimensioni, constatò che c’era appunto lo spazio necessario a rendere possibile un fatto così incredibile. Strinse fra i pugni il suo anello, senza più rimetterlo al dito.
La donna rimase a guardarlo, immobile nello spavento. Voleva uno sguardo, un cenno, una parola. E da quel silenzio sfogò in un grido disperato, stringendo i polsi del suo uomo, avvinghiandosi a lui, soffocando in singhiozzi la rabbia, implorando perdono.
Lui la guardava con disprezzo, poi fissava il vuoto, poi ancora quella fessura, con l’espressione severa di chi legge un segno oscuro del destino e ne considera peso e volume.


1Il loro amico si allontanò, incapace di agire, consapevole di aver assistito a qualcosa di tragicamente profondo. Capiva che forse proprio il suo racconto aveva aperto le porte alla coscienza dolorosa di una paura che si voleva segreta.
Ebbe in quel momento l’idea, il desiderio di togliersi la vera nuziale che ancora testardamente continuava a portare al dito, e portarla a loro in dono. L'afferrò con decisione ma, nell’atto di sfilarla, rimase immobile: comprese di essere sul punto di consegnar loro null’altro che il simbolo di un matrimonio fallito.
Nuovamente pensava di volersi stringere a loro, offrirla in dono all’amico perché fosse lui a darle un senso nuovo: la vera d’oro come segno di una ricostruzione, di una rinascita. Voleva chiedere a quell’uomo, che tanto ora gli somigliava, di unire i due anelli superstiti, comprenderne l’inutilità, il cessato valore; e infine avrebbero potuto gettarli via, insieme all’altro, nel vuoto di quella stessa fessura da cui era scomparso il primo, in una sorta di improvvisato rituale, una follia benedetta dall’amicizia, per benedire in qualche modo un nuovo inizio...
Sì —pensò a quel punto —, i Dogi veneziani sposavano il mare col rituale solenne di gettarvi un anello...

Si mosse deciso verso la coppia di amici, ma fu sufficiente un solo frettoloso sguardo al viso disperato di lei, alla maschera di lacrime che lo deformava, perché subito gli apparisse evidente quanto sarebbe stata inopportuna una simile intromissione.

Lui stesso, ora, non riusciva a cacciare dagli occhi la visione della donna che era stata sua moglie e madre dei suoi figli: l’anello del loro matrimonio gliel’aveva gettato in faccia, con disprezzo, con infinita, incomprensibile crudeltà. Non poté far altro che allontanarsi nuovamente, mentre i due sposi, vinti dalla disillusione, si chiudevano al mondo.


1Scese le scale del ponte, lo sguardo trattenuto in disparte da quella scena di dolore, e già si accorgeva di un senso di distacco, di indifferenza verso le tragedie della vita; un nuovo, inatteso stato di tranquillità, insensibile al dolore e apparentemente inattaccabile, forse neppure immorale. Pensava al fatto appena accaduto e non riusciva a togliersi di mente l’idea che la donna del suo amico si fosse sposata solo per interesse, per paura d’invecchiare in solitudine, nella fatica del lavoro e delle incertezze. Legarsi a quell’uomo ricchissimo non le doveva esser stato difficile, considerando quanto era reso fragile dai suoi matrimoni falliti; bastava sposarselo per tempo, prima che la sua bella femminilità cominciasse ad avvizzire, la pelle, i seni, le mani a perdere freschezza; non c’era bisogno di alcuna complicata strategia...
Sì, questa gli pareva essere la verità più probabile. E fu pensando queste cose che si fermò sulla riva del canale, poco lontano dal ponte. Accese una sigaretta, fissò gli occhi sul lento muoversi dell’acqua nel Canal Grande, lasciò scorrere in libertà i suoi pensieri, si abbandonò al piacere di quella nuova calma del suo spirito.

Lo scosse un grido soffocato, primitivo, carico di presagi di morte. Alzò gli occhi in quella direzione, dov’era lei, sulla sommità del ponte, con le mani premute sul volto, sola. E in quell’istante vide: l’arco del ponte, nel suo riflettersi sull’acqua, mostrava l’immagine di un anello perfetto.

Tutto ritornò ad agitarsi in lui. Risalì concitato i gradini di legno, raggiunse la coppia di amici travolgendoli in un abbraccio. La voce che gli si esauriva in gola, gridò: «Il vostro anello! Non l’avete perduto: l’anello è qui, è questo ponte! È l’arco che diventa cerchio nel suo specchiarsi nell’acqua, dove ritorna su se stesso, congiunge il sopra al sotto, riflette ogni cosa in ciò che le si oppone!»

1Tratteneva le mani della coppia fra le sue. La voce gli si calmò: «È quest’arco di ponte, dove siamo ora. Se vi allontanate appena e lo guardate in distanza lo vedrete subito: i suoi piedi poggiano sulla sua stessa immagine capovolta, riflessa nell’acqua...»
Gli amici si alzarono, seguirono con lo sguardo l’amico che si muoveva verso il punto in cui era caduto l’anello. Lui continuò, con affettuosa dolcezza: «Questo è il luogo e il momento più vero del vostro sposalizio: l’anello di matrimonio è un anello fra l’aria e l’acqua, a consacrare ciò che temevate di aver perso...». Rimase a lungo in silenzio, poi riprese: «Quest’acqua ne conserverà per sempre il segreto...»


Sulla sommità del ponte, i due uomini si strinsero l’un l’altro con gesti gravi, trattenendo la donna appena fuori dal loro cerchio. S’inchinarono a terra, e mentre lei, ritta nel mezzo, allargava le braccia poggiando teneramente le mani sulle loro teste, carezzandone i capelli con tocchi lievi, affondandovi le sue mani nude, consegnarono al ponte i due anelli d’oro, lasciandoli scivolare nel vuoto fra le dita di legno di quelle vecchie travi.
Separandosi in rispettoso silenzio, si incamminarono nella notte, soli.

 

Questa storia ti dedico stanotte, notte di Shabbat.

 

 

 

 

Claudio Ronco,
Venezia, 16 luglio 2002

 



(Dedicato a Emanuela e Antonella, Muse sorridenti e luminose.)

“[...] Il ponte veneziano presenta sistematicamente la “scala doppia”: a ogni salita corrisponde una discesa.
«Si sale allora da un lato per pioli che sono “scienze”, cioè gradi di conoscenza corrispondenti alla realizzazione di altrettanti stati, e si ridiscende dall’altro lato per pioli che sono “virtù”, cioè i frutti di questi stessi gradi di conoscenza applicati ai loro rispettivi livelli»
[...]”

 

 (René Guénon, Simboli della scienza sacra, trad. it. Milano, 1987, pp. 123-124;
in: Giuseppe Sinopoli, Parsifal a Venezia, Marsilio 1993, pag.55)


“[...] Mi accorsi di aver superato innumerabili ponti costruiti con scale ascendenti e discendenti. La scala è un simbolo assiale, riconduce all’Asse dell’universo; cosicché salire una scala equivale simbolicamente all’ascensione dell’essere lungo l’Asse del mondo. I gradini o i pioli corrispondono ai diversi livelli o stati dell’esistenza universale, mentre i due montanti che li delimitano lateralmente equivalgono «alla dualità dell’ “Albero della scienza” o nella Cabala ebraica alle due “colonne” di destra e di sinistra dell’albero sefirotico» (R. Guénon, Simboli, pag. 291), rispettivamente quella della Misericordia e quella del Rigore. [...]
Ascendere una scala è così rinascere ogni volta a un più alto livello di conoscenza e a un più elevato stato ontologico. La scala è, come nel caso di Giacobbe, un ponte “verticale” innalzato dalla terra verso la sommità del cielo. [...]
Il ponte è anch’esso legato alla simbologia del passaggio. La forma originaria della simbologia del ponte può essere considerata una fune, una trave, oppure una lama sottile tesa tra le due rive che rappresentano due stati dell’essere... Dalla simbologia del ponte nasce la funzione del pontifex (da pons e facio), il Mediatore tra il mondo sensibile e il sovrasensibile, il sommo sacerdote che officiava il culto. Il passaggio figurato del ponte era il passaggio dalla morte alla vita, dalla terra al cielo. Questi mondi, separati dalla Manifestazione universale rappresentata dal fiume-canale, sono congiunti dal ponte. Il ponte equivale quindi simbolicamente all’Asse del mondo che congiunge la terra al cielo. [...]”

  (Giuseppe Sinopoli, Parsifal a Venezia, Marsilio 1993; pp. 56-57, 61.)

 

"Giobbe[...] è assalito da una turba di chiacchieroni che lo stanano dalla sua solitudine durante tutta la durata dell'eclissi divina. [...]
Ah, se fossero venuti soltanto per consolarlo, se il versetto 13 del capitolo II del libro di Giobbe si fosse prolungato fino all'inizio del capitolo XXXVIII, se apprendessimo adesso che i suoi amici «sedettero accanto a lui in terra, senza che nessuno gli rivolgesse parola perché vedevano che molto grande era il suo dolore», se questo silenzio degli uomini fosse stato la sola replica alle grida di Giobbe [...] allora, potremmo trovare naturale e persino benvenuta questa presenza silenziosa degli uomini accanto all'uomo abbandonato dalla parola di Dio. [...] Ma gli amici di Giobbe rompono questo silenzio della simpatia [...] e appena sentono urlare Giobbe per la prima volta, intonano il contrappunto della parola, e impegnano con Giobbe un dialogo sfibrante. [...] Quei quattro uomini si danno il cambio, si alternano, per tessere di volta in volta reti loquaci in cui desiderano sorprendere Giobbe come in una trappola. Il loro obiettivo è di ottenere la confessione. Occorre a tutti i costi che nel processo, Giobbe sia costretto a dichiararsi colpevole. [...] Gli amici di Giobbe sono profondamente convinti che al silenzio di Dio non ci sia nessun'altra motivazione che la colpevolezza dell'uomo. Dio tace perché l'uomo è colpevole. E se, nonostante lo spiegamento di una retorica varia e persuasiva, gli amici non riescono a far sì che Giobbe condivida la loro convinzione, se non ottengono la sua confessione, perlomeno vengono lasciati liberi di parlare abbastanza a lungo perché qualcosa del loro veleno si insinui nello spirito del lettore."

(André Neher, L'esilio della parola,
dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz
, Marietti, 1983, pag.44-45)

 

 

 

 

 

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