«Li-Shmor, Conservare-osservare»
Un concerto di Claudio Ronco, in quattro quadri,
per violoncello solo,

con musiche di J.S. Bach e David Popper.

 

 

«Li-shmor, Conservare, osservare».

parola, musica, numero.


Li-shmor
, in ebraico, è il verbo che si usa per dire sia "conservare" che "osservare". L'etimo forse è lo stesso di "servo", ovvero "swer", nelle lingue primitive, che indicava il guardiano del gregge, e da cui deriva, in ultima analisi, anche la parola "Conservatorio", ovvero l'unico luogo in cui ancora si studia e si esegue la musica di autori come David Popper.
Perché dunque un violoncello solo vuole occupare la scena di un teatro indagando ancora -o indugiando- nella musica di Bach, solo per frammentarla e metterla a confronto con quella di un virtuoso di fine Ottocento ormai dimenticato da tutti i programmi concertistici, e fa ciò, infine, appellandosi a un titolo che riferisce il tutto alla cultura ebraica?
Ci sono sempre stati tempi in cui la musica rappresentava il momento privilegiato di comunicazione con l'invisibile, l'impalpabile, l'ineffabile; là dove la parola iniziava a manifestare il suo fallimento, era certamente la musica a realizzare una comunicazione capace di spostarsi "oltre" l'esperienza emotiva articolata nello spazio e nel tempo dell'uomo, per penetrare così nell'idea del "tempo" di Dio, senza un prima e senza un dopo, senza inizio e senza fine. Erano tempi, quelli, in cui la comunità umana si riuniva ritualmente nel canto e nella danza, e in queste arti ogni movimento del corpo o del suono musicale si rovesciava in movimento dell'anima, libera dal peso della materia fisica, fluttuante oltre lo scorrere del tempo.
In quello spazio e in quel tempo -dove il ritmo è pulsazione dell'anima, il suono armonico ne è il corpo, la melodia l'identità e volontà- la musica rappresentava ciò che gli antichi chiamavano "
Anima Mundi".
Ogni mondo che si è formato nel corso della storia dell'uomo è cresciuto nella contemplazione delle armonie che andava individuando fin dalla sua nascita, e ha definito e maturato la sua identità appropriandosi e organizzando in linguaggio le combinazioni di segni e di suoni che rimandano a quella memoria. Poi, proprio come accade ad ogni essere vivente, anche i mondi invecchiano, e poco a poco i rituali con cui i segreti e i codici dell'anima possono essere conservati finiscono col frammentarsi, senza più riuscire a corrispondere ai ritmi della quotidianità.
Solo i saggi si sforzano di
conservare e osservare quelle strutture armoniche, di applicarle con metodo; ma quando i loro sforzi sono vanificati da una società ormai troppo divisa, o fratturata, ciò che inevitabilmente accade sembra essere la fine di un mondo, la morte di una cultura, un vuoto, un buco nero. È accaduto agli egizi, ai greci, ai romani, e ciò che è risorto dalle loro ceneri non ricomincia solo dalle parole o dalle idee sopravvissute o restaurate: là dove si è prodotto un vuoto, ciò che resta della vita può essere solo quel che è più vicino all'ineffabile, e forse a Dio. Ed è forse qualcosa di molto vicino alla musica, perché scaturisce da quelle invisibili e perfette corrispondenze che chiamiamo "Armonia".
Immaginare dunque Dio che guarda e legge nella "composizione" di se stesso per generare i mondi, è qualcosa che in diversi modi appartiene a tutte le culture antiche: esse capivano bene come qualsiasi creazione dell'intelligenza o della fantasia dell'uomo altro non è se non variazione e contemplazione del Creatore attraverso la percezione sublime del suo creato. È in questo modo -nel riconoscere la bellezza di quelle opere- che l'uomo impara, per riflesso, a riconoscere Dio.
Così è soprattutto per la tradizione mistica ebraica, che guarda alla Bibbia, la
Torah, non solo come a una narrazione etica -per fascinosa o criptica, finita o infinita essa possa apparire- ma come alla "partitura" in cui Dio ha "guardato" per creare i mondi naturali e soprannaturali, e dunque come alla "cifra" dell'universo stesso, dove le lettere dell'alfabeto si combinano fra loro in parole, nello stesso modo in cui gli atomi si combinano in molecole e le molecole in cellule, e così via, nella nostra terra, dove nulla si crea e nulla si distrugge.


In un tempo in cui il mondo antico pareva finire per sempre, nell'Occidente ricco e dominante sul resto del mondo, intorno alla seconda metà del secolo scorso, un musicista di grande talento, David Popper, virtuoso di violoncello, aveva preferito la fama e il successo internazionali all'umiltà del ghetto ebraico in cui era nato, figlio di uno dei cantori delle sinagoghe di Praga. David abbandonò le tradizioni della sua famiglia, e forse dimenticò davvero la sua identità ebraica, almeno fin verso la fine del suo secolo, quando cominciò a scatenarsi l'ondata di odio e violenza che ha devastato la nostra "moderna e civile" Europa. Morì nel 1913, vent'anni prima dell'inizio della
Shoah, e fra il 1902 e il 1905 compose i 40 Studi op.73 per violoncello solo. Com'era inevitabile in un'epoca di transizione e decadenza qual era l'inizio del nostro secolo, anche quelle composizioni dovevano misurarsi e rapportarsi a un modello classico, ovvero un "centro" dal quale derivare il loro significato; per i violoncellisti dell'Ottocento, quel centro era rappresentato dal gruppo delle sei Suites di J. S. Bach per violoncello solo, composte intorno al 1720. L'opera di Popper guarda dentro e oltre il testo bachiano, e nel far ciò guarda anche dentro e oltre il suo tempo, diventando una meditazione intensa e profonda sul senso e sulla memoria della nostra cultura musicale.
Popper ha guardato nella musica di
Bach come avrebbe potuto guardare nella Torah: in cerca di una bellezza ineffabile che attraesse l'anima nelle direzioni del divino. Oltre la parola, i nomi, i valori dei numeri e delle loro permutazioni possibili, il rituale della musica è soprattutto il rituale della memoria più profonda: quella che indaga sul segreto dell'origine della vita, osservando e conservando, nel meraviglioso paradosso del rinnovare se stessi nell'atto di ripetere -virtuosamente o virtuosisticamente contemplando- le variazioni d'aspetto dell'immutabile.

 

 


Claudio Ronco, Venezia, marzo 1999.

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