Contrappunti del Silenzio


«...pensai che Argo ed io facevamo parte di universi differenti; pensai che le nostre percezioni erano uguali, ma che Argo le combinava diversamente e costruiva con esse altri oggetti; pensai che forse per lui non esistevano oggetti ma un vertiginoso e continuo giuoco d'impressioni brevissime. Pensai a un mondo senza memoria, senza tempo...»

Jorge Luis Borges, dalla novella: L'Immortale,
in El Aleph, 1952, trad. F. Tentori Montalto, ed. Feltrinelli, 1959.

 

Ora, di fronte a una televisione sempre più potente e invadente, che si muove avvolgendo e condizionando tutta la superficie del globo, mi si perdoni se improvvisamente prendo un tono più leggero, o scanzonato, per sopportare il peso degli argomenti, osservando che il primo punto che traballa è la faccenda della "intera umanità" che viene condizionata da questi fenomeni. Noi la mettiamo in causa necessariamente ogni volta che il nostro discorso tocca problemi di portata planetaria, tanto di carattere biologico quanto culturale, e anche senza giungere all'assurdità di impastarci in una sorta di generale solipsismo per cui tutto esiste solo perché esistono gli esseri umani, o perché alcuni esseri umani hanno creduto di svelare la verità definitiva, continuiamo a parlarne proprio come facevano (e spesso fanno) i papi di Roma, prendendo l'umanità tutta come un bel blocco unico, che prima o poi sarà omogeneizzato da qualcuno o qualcosa. Ma in effetti è proprio così?
Voglio dire: di fatto, le distanze culturali e sociali fanno sì che solamente una parte minore dell'umanità —intesa come l'insieme degli esseri umani viventi ora sul pianeta terra– sia in condizioni di comunicare così come noi intendiamo questo termine, cioè usando mezzi tecnologici più o meno sofisticati e un linguaggio univoco condiviso da tutti gli utenti; la restante maggioranza "comunica" in modo radicalmente diverso, perché costretto in uno spazio privo di tecnologie, estremamente povero ed ermeticamente chiuso. Se così non fosse, noi non potremmo essere ricchi, buoni, intelligenti e benestanti –in una parola abusata: "civili"–, poiché non avremmo più i miliardi di schiavi che producono per noi senza consumare nulla di quel che ci serve per mandare il pianeta a rotoli.
Nella parte minoritaria e benestante dell'umanità, dove noi siamo potenzialmente in condizione di poterci leggere e parlare con serena severità intellettuale, in rispetto delle grandi tradizioni dialettiche della nostra cultura classica, siamo giunti infine a "comunicare" in linguaggi assai diversi e pressoché incompatibili, in virtù degli efficientismi sistemi di condizionamento dei cervelli, per i quali, se la televisione è lo strumento ideale, funzionano però benissimo anche internet dei blog e delle chat, la telefonia mobile e i messaggini con gli emoticon, o in modo più tradizionalista la lettura quotidiana dei quotidiani d'informazione sullo sport della politica e sulla politica dello sport. In un tale mondo si finisce con l'ascoltare solo chi "parla come parlerei io", e colui che vuole salvarsi o proteggersi dalla realtà deve avere i soldi per pagarsene un'altra, oppure una formidabile fantasia, o vivere in eremitaggio, anche se in grandi città, condividendo le sue meditazioni solo con coloro che possono essere raggiunti grazie a qualche tecnologia addomesticata. Tutto ciò, naturalmente, solo nel tempo libero che può donare alla sua anima un essere umano impegnato nella lotta per la propria sopravvivenza nel mondo, scoprendo forse così che l'unica vera ricchezza rimasta è quella di avere del tempo...
Per tornare tristi e compunti, cito nuovamente Umberto Eco del 1983, in un passo ancor più chiaro e agghiacciante sulla televisione e la trasparenza:

«Entra in crisi il rapporto di verità fattuale su cui riposava la dicotomia tra programmi d'informazione e programmi di finzione, e questa crisi tende sempre più a coinvolgere la televisione nel suo complesso trasformandola da veicolo di fatti (ritenuto neutrale) in apparato per la produzione di fatti, da specchio della realtà a produttore della realtà.»
(op.cit. pag 170)

In uno straordinario racconto di Borges, l'autore ci spiega che a Buenos Aires «lo Zahir» (così è intitolato il racconto) «è una moneta comune, da venti centesimi», ma che è anche molte altre cose, fra cui: «in Persia, un astrolabio che Nadir Shah fece gettare in mare» o: «nella moschea di Cordova, secondo Zotenberg, una vena del marmo di uno dei milleduecento pilastri», e altro ancora, ma soprattutto: «l'ombra della rosa e lo squarcio del Velo», poiché «Zahir, in arabo, vuol dire notorio, visibile; in questo senso, è uno dei novantanove nomi di Dio; la gente, in terra musulmana, lo usa per "gli esseri e le cose che hanno la terribile virtù d'essere indimenticabili e la cui immagine finisce per render folli gli uomini".» E folle diventerà, nel racconto, il narratore che allontanatosi dalla veglia funebre della donna che aveva inconsciamente amato, si ferma a bere un'aranciata in una "mescita" notturna, dove quella monetina gli verrà data in resto e gradualmente, insospettatamente, dopo esser stata spesa nell'intento di liberarsene insieme a una prima, incomprensibile ossessione, diventerà una presenza costante in lui, un'immagine incancellabile dalla sua memoria, l'inizio di una mortale follia.
Quale tremenda metafora è questa, se lo "Zahir", il "notorio", il "visibile", oltre alle altre molte cose che Borges ci ha detto essere, fosse anche la televisione?

«[...] secondo la dottrina idealista, i verbi vivere e sognare sono rigorosamente sinonimi; di migliaia di apparenze, me ne rimarrà una; da un sogno molto complesso, passerò a uno molto semplice. [...] Quando tutti gli uomini della terra penseranno, giorno e notte, allo Zahir, quale sarà il sogno e quale la realtà, la terra o lo Zahir?»

Jorge Luis Borges, Lo Zahir, in El Aleph, 1952,
trad. F. Tentori Montalto, ed. Feltrinelli, 1959.

 

continua


 

immagini:

Globo di corteccia, "Acqua per il Pianeta",
Sud Africa, fuori Cape Town, 2001; fil di ferro unito a corteccia, diametro 30cm.

coll. René Clemencic, Vienna

 

 

 

 

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