Contrappunti del Silenzio

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«Per perdersi in Dio, i sufisti ripetono il loro nome o i novantanove nomi divini finché questi non vogliono più dire nulla: io desidero percorrere tale via. Forse finirò per logorare lo Zahir a forza di pensarlo e ripensarlo; forse dietro la moneta è Dio.»

Jorge Luis Borges, Lo Zahir, in El Aleph, 1952,
trad. F. Tentori Montalto, ed. Feltrinelli, 1959.

 

Allontanandoci, anzi "spostandoci" da un televisore (o da un blog volgare) che ci trasmette nozioni e sensazioni dalle quali potremmo aver imparato a proteggerci con una nuova intelligenza, al bel mezzo di una comunicazione condotta negli spazi di una razionalità intellettuale misurata e prudente, può capitarci di non ricordare affatto, o di non tener conto di come anche il ragionamento riflessivo sia "un’arte", una “tèkhne” intesa a muoversi nello spazio astratto del pensiero "spostando" gli oggetti e i soggetti senza sosta, per poter proteggere il loro significato da congelamenti che inevitabilmente condurrebbero all'annichilimento o all'alienazione. Com'era stato argutamente detto da Carmelo Bene: "Il significato è un sasso in bocca del significante", ma solo quando, appunto, il significato delle cose resta l'unico e univoco rapporto che noi intratteniamo con esse.
In tutto ciò, il vero pericolo consiste nel confondere gli oggetti e i soggetti pertinenti a uno spazio del "possibile" (o del virtuale) con quelli del "reale" e del "presente". In uno di questi casi, pertinente all'opera artistica, ma non solo a quella, l’identificazione del sé con il personaggio mitologico rappresentato su una scena teatrale —cosa che non è mai stata esperienza priva di qualche rischio– è diventata un pericolo autentico negli attuali percorsi della produzione e fruizione di un'opera d'arte antica o moderna, poiché siamo una società privilegiata in cui la condizione generica della "psicologia delle masse" è caratterizzata, appunto, da un onnipresente, alienante solipsismo.

E' a questo punto del discorso che ritorna insistentemente alla mia memoria un precetto talmudico col quale cerco di confrontarmi all'inizio di qualsiasi comunicazione: “Così come vi è l'obbligo di dire ciò che sarà compreso, allo stesso modo vi è obbligo di tacere ciò che non sarà inteso” (Talmud, Yevamot, 65b). Borges, nella sua novella intitolata "L'Aleph", nella quale ci "dice" il suo incontro con il mitologico punto dell'universo in cui tutto ciò che è esistito, che esiste e che esisterà, ed è stato presente, reale e contemporaneo davanti ai suoi occhi, scrive: «comincia qui, la mia disperazione di scrittore. Ogni linguaggio è un alfabeto di simboli il cui uso presuppone un passato che gli interlocutori condividono; come trasmettere agli altri l'infinito Aleph, che la mia timorosa memoria a stento abbraccia?». Elie Wiesel, in un suo libro del 1970 il cui titolo "Entre deux soleils" ("Tra due soli", che nella versione italiana è diventato "Al sorgere delle stelle") fa riferimento alla notte, che fin dalla sua prima esperienza letteraria come sopravvissuto allo sterminio degli ebrei d'Europa era stata il simbolo della sua vocazione alla testimonianza, ci pone di fronte al problema centrale del "comunicare se stessi", come attori nel teatro del mondo e di fronte al sorgere terrificante di un immenso silenzio: egli descrive l'angoscia dei testimoni al processo di Norimberga, il processo in cui il nuovo mondo civile cercava di tradurre in parole e concetti l'orrore vissuto nella carne e nell'anima dai sopravvissuti all' "Olocausto", alla Shoah. Uomini e donne che erano stati denudati, straziati, "disanimati" dalle leggi di un governo la cui etica era deviata, impazzita; con quel dolore atroce su tutto il loro essere, quella ferita che avevano appena cominciato a nascondere nell'intimo, a celare dietro un terapeutico pudore; con quel recente sollievo che li faceva sperare in un ritorno possibile alla vita, alla "normalità" di un lavoro, una casa, una famiglia, quella gente doveva raccontare, descrivere ciò che era successo, perché la giustizia degli uomini potesse "fare il suo corso", perché "i popoli potessero capire".
Là, ogni parola doveva confrontarsi con la responsabilità terribile di "rappresentare" autenticamente, inequivocabilmente la realtà: «I sopravvissuti, reticenti, davano risposte approssimative, aggiravano l'argomento,», scrive Wiesel, «oppure rimanevano in silenzio.»
Per pudore, dice, di cose spesso troppo dure per esporle alla luce, per toglierle dall'intimo segreto con cui si aveva l'impressione di potersi proteggere; ma anche per timore:

« soprattutto per timore. Timore di suscitare l'incredulità, di sentirsi dire: avete l'immaginazione malata, quello che descrivete non può essere accaduto. Oppure: tentate di intenerire la nostra pietà, di mercanteggiare le vostre sofferenze. O peggio: timore di venir meno a una missione, di tradire l'esperienza unica imprigionandola dentro parole logore, nefaste. Timore di dire quello che non deve essere detto, di voler comunicare con la parola ciò che sfugge alla parola, di cadere nella trappola della bugia facile.
Ciascuno di loro doveva, ad un certo momento, subire la tentazione di stringere le labbra e adottare un mutismo assoluto. E trasmettere la visione dell'olocausto alla maniera di certi mistici, sottraendola al linguaggio.
Se tutti avessero taciuto, l'assommarsi dei loro silenzi sarebbe stato insopportabile: il mondo sarebbe diventato sordo.
»

Elie Wiesel, Al sorgere delle stelle, p.160;
trad. A. M. Guerrieri, ed. Marietti, 1985.
(Entre deux soleils, Ed. du Seuil, Paris 1970)

Nella mia agitazione nel cercare una voce che possa comunicare attraverso questi silenzi, nei giorni in cui mi aggiravo fra gli appunti di ciò che sto scrivendo, ho avuto la tentazione di iniziare il mio scritto con queste parole, scritte all'uomo che tace, che non accoglie più alcun invito alla crisi, che si compiace del "già detto" come di qualcosa che ha già compiuto la sua funzione:

«Ormai rassegnato ad aver l’aspetto di un pedante profetuncolo, quando osservo un gruppo di esseri umani consumati e consumatori discorrere di sport o della politica detta in tivvù, oppure nei dialoghi degli adolescenti, panicamente afflitti dall’affannarsi nel dire e fare le cose che riceveranno l’approvazione del branco, oppure quando assisto ancora, come in tutta la mia vita, a quella violenza terribile che si compie quando un orchestrale, spesso senza accorgersene, si mostra un poco al di sopra degli altri e immediatamente viene umiliato dal gruppo (un’orchestra è fin troppo palese metafora di società civile…), io ho l'impressione di incontrare la vera origine della "morte di Dio".
Il sonno della ragione genera mostri… questa è la ragione per cui la nostra "civiltà della ragione" è popolata di mostri? Questa è la ragione per cui si ascoltano e si leggono non più le parole dei Saggi, distillate e sublimate dall'ineffabile profondità delle origini del nostro pensare, ma quelle di chi “parla come parlerei io”? I saggi sono solo “sputasentenze”? Le religioni sono solo fonte di guerre imbecilli o inutili, obsolete, arroganti certezze sul come si deve stare al mondo? L’informazione è veritiera solo se non è condizionata dal potere, ed è sicuramente possibile che possa esistere un’informazione assoluta, inequivocabile e libera? Gli ebrei si aiutano fra loro? Ci sono troppi “popoli eletti” sulla terra? La saggezza moderna consiste nel non dire mai qualcosa che possa in qualche modo legarci a una nostalgica dipendenza dal passato? Le cose del mondo sono sempre buone e cattive allo stesso tempo, a seconda dell’occasione in cui avvengono e del punto di vista?
Non è sulla base di queste premesse che scrivo qui la mia lezione...»

 

goya

Bene, non ho usato quelle premesse, ma non ho potuto ignorarle o dimenticarle. Perché se il mio obiettivo non è una Captatio Benevolentiæ fine a se stessa, ma un'indagine nel profondo di un mistero che forse si nasconde in tutte le cose del mondo, e che forse possiede il dono di essere universalmente comprensibile, nel mio discorso deve almeno poter sopravvivere integralmente il movente che l'ha generato, affinché la strada che sarà percorsa non sia solo quella delle strategie del mio superbo inconscio, ferito nel suo orgoglio di musicista "classico", ovvero di "Umilissimo Servitore della Maestà dell'Arte Immortale", ormai fuori luogo e fuori tempo...

A questo punto il problema è sostanzialmente ristretto a quello di una "retorica", inevitabilmente e perennemente presente in qualsiasi forma di comunicazione. Dunque, stringendo ancora di più il fuoco, il problema torna ad essere quello trattato dagli Antichi, sulla ricerca e formulazione di una retorica che "non insegna sul giusto e sull'ingiusto". Ma questa retorica deve tener conto di ciò che ci aveva ricordato Borges: «Ogni linguaggio è un alfabeto di simboli il cui uso presuppone un passato che gli interlocutori condividono». E dunque: nella società del futuro, quale "linguaggio", ovvero quale "retorica" potrà assumersi l'incarico di tradurre efficacemente tutti gli idiomi per rendere possibile un globale intreccio delle comunicazioni, se già i primi strumenti di comunicazione di massa conducevano con pieno successo all'annullamento della molteplicità di pensieri, e quelli attuali sono soltanto più efficaci nel giungere allo stesso risultato?

continua

 

 

immagini:

Giampietro Carlesso, Mater-Bi, 1999
bronzo e pietra lavica, cm. h.320 x 100 x 60

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Francisco Goya y Lucientes,
"Il sonno della ragione genera mostri"
acquaforte e acquatinta, ca. 1800/10

 

 

 

 

 

©claudioronco2006