La Creazione Infinita

quaderno di appunti

 

Scrittura e Silenzio

«Siamo una pluralità che si è immaginata di essere un’unità»

(Nietzsche, Frammenti Postumi, 81)

 

«Selon diverses considerations, on peut dire que le son grave est plus son que l'aigu, car il se fait par des corps de plus grande estendue; il se peut entendre de plus loing, etc. Mais il est dit fondement de la musique principalement pource qu'il a ses mouvements plus lents et par consequent qui peuvent estre divisés en plus de parties»

(Descartes, "Lettere a Mersenne", 1629-1631;
in "Correspondance du P. Marin Mersenne",
a cura di P. Tannery, C. De Waard, R. Pintard, Paris 1945, II, p. 333)

"Secondo diverse considerazioni, possiamo dire che il suono grave è più 'suono' di quello acuto, perché è dato da corpi di maggiore estensione; si può sentire a maggiori distanze, eccetera. Ma questi è detto fondamento della musica soprattutto per via dei suoi movimenti più lenti, che per conseguenza possono essere divisi in un numero maggiore di parti"

Da: Maria Tasinato, L'occhio del silenzio.
ed. Esedra, Padova 1997.

[...] questo è da capo il regno del grande racchiuso nel piccolo, del magnum in parvo, che poi Nietzsche intende come multum in parvo, in quanto, si potrebbe aggiungere, multi in parvo. Là, in uno scorcio di tempo, il solo [tale è il titolo della trentatreesima poesia della raccolta "Scherzo, malizia e vendetta" anteposta a "La Gaia Scienza" di Nietzsche] scrive —per altri che sono solo «ombre»— fingendo di dare istruzioni su come leggerlo — su come leggersi.

vive la propria somma descrivendo da sempre se stesso, dando allo scrittore e al lettore (che sono in lui e con lui) il medesimo consiglio: «reagire lentamente», divenire «amici del lento» [Nietzsche, Frammenti Postumi, 88-89]. La fretta suggerita dal raccourci, in quanto scorciatoia, si traduce nel percorrere lentamente un itinerario (già) decurtato. Estrema lentezza e balenante rapidità sono, poi, entrambe, il segreto di uno stile di scrivere e di leggere, stile indispensabile per chi scriva o legga, appunto, un segreto.

Si tratta di dar vita a tale insostenibile ritmo facendo esistere contemporaneamente il subitaneo e il langsam: la puntuale estaticità del pensiero e l'allungarsi e il dilungarsi della scrittura in un acrobatico esercizio di guizzante pazienza. Questo indescrivibile movimento è il medesimo che irrompe lentamente nella più solitaria delle solitudini. La stessa andatura è ripresa dall'eterno ritornare, dal demone suggerito: alla subitanea rivelazione dell'attimo fa seguito l'esasperante (ri)susseguirsi dell'indicibilmente piccolo e grande, e senza distinzione, nell'esigua strettoia della clessidra. Una clessidra (Sanduhr) che misura il tempo attraverso il passaggio della sabbia (Sand) e che richiama lo spettacolo sempre ripetuto delle onde. Il terribile segreto della clessidra è di venire sempre di nuovo capovolta e quello, identico, delle onde è di reiterare all'infinito lo stesso movimento senza approdo: «Bizzarra sorte quella dell'uomo! Vive settant'anni e suppone, durante questo tempo, di essere qualcosa di nuovo e mai esistito — e invece è solo un'onda nella quale il passato dell'uomo si muove (...) egli si ritiene libero ed è però solo un meccanismo d'orologio caricato senza neppure la forza di vedere questo meccanismo chiaramente e nemmeno, quindi, di cambiarlo come e in quello che vorrebbe». Tale è la sorte, sia del piccolo uomo, ignaro e illuso, sia di colui che ha carpito alle onde il loro ripetuto e ripetitivo segreto: costui in più sa che la volontà (Wille) è onda (Welle).La sua esistenza di volente, che il demone ha per sempre (felicemente) dannato, suggerisce, allora, un altro apparato di misurazione: all'orologio a sabbia (Sanduhr) si sostituisce quello —più antico— ad acqua (Wasseruhr), all'interno del quale l'uomo appare ancora più indivisibile dagli eventi, piccoli o grandi, della sua vita e del passato che, anche per sua volontà, rivive in lui.

 

Dall'immagine si prosegue in un altro percorso
(A. Palladio, Basilica di S. Giorgio, Venezia; il Coro, dietro l'Altar Maggiore)

 

L'immagine della clessidra ad acqua inabissa nel mondo —perduto— degli antichi, spalancando il sipario sugli agoni della Grecia, là dove la retorica, in un lasso di tempo rigorosamente misurato, dava pubblico spettacolo di sé. Era quello del discorso scritto e velocemente recitato, dove non era importante ricercare la verità, quanto trionfare grazie ad un'ingegnosa menzogna. Per Platone (secondo Nietzsche responsabile di aver calpestato gli istinti agonali della polis) era l'esecrabile regno dell'inganno donde doveva tenersi lontano il filosofo per non mescolarsi coi mariuoli (Theaet. 172 c-173 c). Là, l'uomo poteva riuscire vincitore solo adatandosi al carattere fraudolento della klepsydra: in accordo con questa doveva rubare (kleptein) l'acqua (hydor) all'avversario, ovvero far sì che la stessa acqua scorresse per l'altro inutilmente. Siffatto ladro si avvaleva in tutti i sensi di una scrittura sull'acqua, volgendo a suo vantaggio la condanna da Platone pronunciata contro la graphe.

Questa antica scena agonale sembra, però, presentare delle insanabili discrepanze con quella della scrittura-lettura nietzscheiana. Dal palcoscenico, dove si svolge la prima, rimane esiliato il logografo: colui che per un altro, con un lungo e minuzioso cesello (Phaedr. 278 c-e), ha composto il discorso scritto e ad un altro lo ha consegnato, affinché velocemente lo legga. Nel caso di Nietzsche, sempre secondo la particolare angolatura della presente interpretazione, tale alterità e separatezza tra scrittore e lettore sembrerebbe non sussistere, anzi parrebbero convergere in uno solo anche altri personaggi, che pure facevano parte della scena agonale: il giudice e il pubblico.

Si tratta, tuttavia, di una coincidenza fittizia e illusoria perché niente è meno unitario del soggetto, che Nietzsche ha svelato esser luogo di convegno di molti. Il solitario, poi, che ha accolto con gioia la tentazione del demone, è divenuto un essere in preda ad una continua metamorfosi e, in più, sente continuare in sé il moto ondoso e ondulatorio del passato dell'umanità. E, ancora, ogni momentanea coesione è, per di più, dissolta dall'esser l'uomo intimamente contessuto di oblio: quel benefico-terribile dimenticare che tutto divora, anche l'attimo abnorme. L'oblio lo protegge sì dal disperante ritorno all'identico («il peso più grande»), ma anche lo deruba della sua più alta felicità. In queste fatali vacanze della consapevolezza, il caso, e non l'uomo, da capo capovolge la clessidra e la goccia d'acqua (il granello di sabbia) se ne avvede sempre in ritardo, quando ormai sta precipitando. [...]

(pagg. 95-98)

 

[...] La scrittura autobiografica in somma è il contiuo sforzo di conciliare due movimenti inconciliabili: quello di una memoria, che esige l'oblio della progressione della vita, e quello della coscienza, che esige l'oblio di questo movimento regressivo. [...]

(pag. 100)

 

 

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