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Dabar: la parola-cosa.

La parola scritta o detta ha ancora un grande potere, ma solo perché è cosa di cui è più facile "appropriarsi", accrescendo così l'unica energia che sembra esserci rimasta, ovvero l'imperioso desiderio di un "sé", quando non la più vana vanità.
C'è intorno a noi un mondo tormentato dal dolore e dalla solitudine, ed è così grande che le nostre sempre più deboli ragioni di giustizia e civiltà quasi si esauriscono nella consolazione di poter curare qualche malattia in più di quanto non si potesse qualche decennio fa, e di poterlo fare liberandoci dalla sofferenza fisica.
L'arte, la poesia, la spiritualità non possono essere chiuse dentro nel ristretto spazio dell'individuo, né possono continuare ad esprimersi solo nei frammenti scampati all'oblio delle tradizioni: le parole che ci possiamo ancora comunicare sono solo segni, indicazioni di percorsi possibili, ma se noi diventiamo incapaci di una "lettura musicale" della partitura del mondo, al di là dei nostri destini, ciò che si accende in noi rischiara ancora per un po' la nostra notte, ma non giungerà all'alba di un nuovo sole.

Nella saturazione soffocante della nostra epoca, il silenzio è solo fallimento e morte, il compromesso è solo sconfitta e capitolazione. Resta il pressante bisogno della voce leggera della verità, voce sottile che cattura il nostro ascolto profondo. Solo quella voce ci deve attirare a sé, ricondurre alla vita, far nuovamente sorgere il sole al mattino. E non c'è nulla di scontato in questo...

C.R.


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©claudioronco2006