ALEPH

La lettera ebraica Aleph si trova nelle tastiere dei nostri computer (Macintosh!!!...) digitando il tasto della virgola mentre si tiene premuto il tasto "option", col font Symbol:

È buffo osservare che, se scritto con altri font, quell'Aleph è un punto interrogativo capovolto, come si usa in spagnolo: ¿

E con gli Zapf Dingbats, che mio figlio di dieci anni usa per divertirsi a criptare le sue lettere segrete ai membri del suo club esclusivo, l'Aleph appare come un 1 cerchiato:

 

Questa è l'unica lettera ebraica presente nel mondo non ebraico, ed è presente nelle tastiere dei computer poiché essa è usata nella matematica moderna per indicare il primo numero transfinito, che rappresenta la cardinalità o potenza dell'insieme infinito dei numeri naturali:

= {1..., 2......, 3......, ......n, ...};

 

In ebraico, questa lettera è semplicemente il numero 1, anche se è possibile penetrarla verso infinite vertigini. Si può osservare il suo disegno come risultante di due Yod messe una sopra e una sotto a una Vav trasversale (in: Sefer ha-Temunah, "libro della figura", anonimo del XIII secolo, scritto in Spagna o forse in Provenza), ovvero due 10 intorno a un 6 (i giorni della Creazione, o delle Creazioni del mondo attuale e del mondo a venire), così offrendo alla lettera Aleph anche il valore di 26, che è lo stesso del nome tetragramma sacro di Dio YHVH (10+5+6+5).
In un antico Midrash talmudico, intitolato "l'alfabeto di Rabbi 'Aqiva" (Alfa Beta de Rabbi 'Aqiva, di cui si ha notizia a partire da IX secolo), si legge: «Se non ci fosse l'Aleph non ci sarebbe la Bet, se non ci fosse la Bet non ci sarebbe l'Aleph, se non ci fosse la perfetta Torah non esisterebbe il mondo, e se tutto il mondo non esistesse non esisterebbe la perfetta Torah». Così, in una visione terribile e ineffabile, gli antichi rabbini ci mostravano i segni della Creazione, prima che divenissero suoni, e, come suoni, parole, comunicazioni emotive, linguaggio di sentimenti, vita...

Il testo che ha trasmesso questa visione è il Sefer ha-Yetzirah, i "libro della creazione", o "della formazione", che tradizionalmente si vuole attribuire al Patriarca Abramo, Avraham Avinu, e che può essere datato fra il II e l'VIII secolo, in ambiente ispanico o provenzale.

Dice il Sefer ha-Yetzirah:


"prima dell'uno che numero puoi contare?"

 

     
Vivendo come me, qui a Venezia, con la Cabala si potrebbe davvero perdere la testa, anzi: la Cabeza. In fondo, qua ci si muove più che altro scivolando sull'acqua che di quando in quando traspare, e trasparendo ci fa meditare sul mondo di sotto e su quello di sopra.

Nel Medioevo e nel Rinascimento, in questa curiosa città c'erano sì dei cabalisti, ma erano tenuti a freno dalla comunità ebraica (che all'epoca si chiamava Università delli Hebrei) e un grande rabbino come Ramchal (Rabbi Mosè Chaim Luzzatto, vissuto a cavallo fra XV e XVI sec.) benché nato nel territorio veneziano, fu costretto a emigrare ad Amsterdam, per poi partirsene con tutta la sua famiglia per Gerusalemme dove, appena sbarcato, venne trucidato con moglie e figli. Da Amsterdam, per contro, inviarono agli ebrei veneziani il dono dei bellissimi lampadari in bronzo che ancor oggi fingono di illuminare gli ambienti delle nostre sinagoghe.

Quindi il
Sefer ha-Yetzirah, a Venezia sembra che sia stato meglio tenerlo nascosto in casa, conservato con cura sotto la protezione delle seguenti citazioni talmudiche:


«Chiunque riflette su queste quattro cose, sarebbe meglio non fosse mai venuto al mondo: su ciò che è in alto, ciò che è in basso, ciò che è davanti, ciò che è dietro» (Mishnah Hag.II,I)


e anche:

«Non ricercare quel che è troppo difficile per te e quel che ti è nascosto non cercar di scoprire. Applicati a ciò che ti è permesso ma non ti occupare delle cose segrete» (Talmud Hag. 13a).


Comunque, per occuparsene era necessario il digiuno, l'esercizio costante alla meditazione trascendentale attraverso il controllo del respiro e del battito cardiaco, e in ultimo accettare il rischio di impazzire:

«Quattro uomini salirono fino al Paradiso: Ben 'Azay, Ben Zomà, Elishà Ben Abuyà, Rabbi Aqibà. Rabbi Aqibà disse loro: quando sarete giunti ai gradini di puro marmo, non gridate "acqua, acqua". Ben 'Azay contemplò e morì; Ben Zomà contemplò e impazzì; Elishà Ben Abuyà tagliò le piante; Rabbi 'Aqibà si ritirò in pace» (Talmud Hag.14b)

Interrogarsi sulla creazione, inevitabilmente comporta o seri rischi per la salute mentale, o il rischio di perdere ogni capacità di stupirsi o meravigliarsi per il mistero dell'esistenza, finendo nella fossa mortale di noi stessi, senza speranza di risalire: tutto ciò significa "ricadere nel caos". Per questo è conveniente consigliare all'essere curioso non solo la prudenza, ma anche la solida protezione di una struttura viaggiante, come un'armatura, o un "carro":
Merkabà.


Il Talmud (Hag.12a) ci ricorda che:

«Dieci cose furono create il primo giorno: Cielo e Terra, Deserto e Vuoto, Luce e Tenebre, Aria e Acqua, e la divisione fra Notte e Giorno».

Queste prime dieci realtà archetipali sono lo strumento creativo di cui si serve En-Sof, l'ineffabile, per creare i suoi mondi, ed esse sono chiamate Devarim, ossia i "lemmi", i detti-parole.
A queste aggiungendo le 22 lettere/consonanti/numeri dell'alfabeto ebraico, si hanno le "32 vie della saggezza" di cui parla il Sefer ha-Yetzirah nel suo famoso incipit:


«(I) In trentadue misteriosi sentieri di saggezza ha scolpito YHWH Sebaot, Dio d'Israel, Dio vivente e Re del mondo; Dio di potenza, pietà e misericordia "che risiede in eterno nelle eccelsità e il cui Nome è Santo". Ed Egli ha creato il suo mondo con tre forme di espressione: con il numero, con la lettera, e con la parola.»

(Quest'ultima frase è: «be-sepher, w-sephar, we-sippur». Gadiel Toaff fa notare che «sono indubbiamente derivate dalla stessa radice "s ph r". Sepher (sepharim) significa in ebraico "libro", "scritto" e perciò il significato generale indicherebbe che Dio ha creato mediante tre libri o scritti.». Toaff prosegue elencando un certo numero di traduzioni di quelle tre parole, fra cui: «Pistorius, che le traduce "scriptis, numeratis, pronunciatis"; Postellus, che le traduce "numerans, numerus, numerantus"; [...] Cimara, che le traduce "l'ecriture, le nombre, la parole"; Westcott, che le traduce "numbers, letters, sounds"; Stering, che le traduce "numbers, letters, words" [...]»)


Poi il Sefer haYetzirah continua così:

(II) Dieci Sephirot beli-mah (belì= senza, mah=cosa; dunque: beli-mah= senza niente; ...astratte? No: meglio tradurre "indeterminate") e ventidue lettere fondamentali: tre madri, sette doppie e dodici semplici.

(III) Dieci Sephirot beli-mah secondo il numero delle dieci dita, cinque in corrispondenza di cinque e il patto dell'Unico (Yachid) collocato al centro: e come la parola della lingua, così la circoncisione del prepuzio.»


E qui vedi bene che l'Unico non è un'Aleph, bensì Ychud (Yod, Chet, Vav, Dalet), che significa "un'unità", imperniata alla lettera Yod, ossia il numero 10.

Nel punto in cui è scritto "e prima dell'Uno che numero puoi contare?", infatti, Gadiel Toaff (cui si deve un'ottima versione italiana, edita da Carucci, Viale Trastevere 60, 00153 Roma) compone un cerchio con i numeri da 1 a 10, e mostra come 10 sia un Uno che si congiunge allo Zero, e così in eterno. È contestabile? No, è solo una spiegazione un po' infantile... ma almeno mio figlio di dieci anni riesce a comprenderla. Il commentario di Yitzhaq ben Avraham il Cieco (Perush Sefer Yetzirah, "commento al libro della formazione", Francia meridionale, fra il XII e il XIII sec.) sottolinea invece:

«"Dieci e non nove". Sebbene la sapienza sia con tutte (le sephirot), non chiederti: Come posso dire che la sapienza (Hochmah) è una sefirah?
"Dieci e non undici". Non chiederti: Dal momento che la sapienza rappresenta l'inizio del pensiero del discorso, come potrò non contarne undici?
Non devi infatti separare la sapienza dalla corona (Keter, la prima sefirah), che è il pensiero dell'inizio del discorso, sebbene tu non possa afferrare il pensiero di Colui che conta e che unisce. (...) Poiché non vi è fine alla causa del pensiero dell'inizio del discorso, come potrò fare del pensiero una sefirah?
Non dire dunque che esse sono undici né nove.
Sebbene il discorso sia nell'infinito, vi è nondimeno una causa sottile, o un essere sottile che il pensiero afferra nella contemplazione di ciò che vi allude. Questa causa rappresenta pertanto una sefirah del pensiero, che è un essere sottile in cui ve ne sono dieci.
Le cose hanno dimensioni e misura, ma il pensiero non ha misura; per questo vanno di dieci in dieci: dalle sottili derivano quelle che sono state tracciate, giacché dieci derivano da dieci, le sottili da quelle poste nell'intima sottigliezza. Dalla forza di allusione del pensiero riconosciamo ciò che possiamo comprendere e quanto siamo costretti a tralasciare, giacché da quel punto in poi non è possibile capire il pensiero allusivo. La cosa creata non ha infatti la forza di afferrare l'intima allusione del pensiero alla comprensione dell'En sof (l'ineffabile, l'infinito) giacché ogni contemplazione nella sapienza, a partire dalla comprensione intellettuale, è sottigliezza, allusione del suo pensiero nell'En sof. Per questo afferma: dieci e non nove, giacché il pensiero non concepisce di dare misura a ciò che è al di sopra della sapienza, se non attraverso la contemplazione, come è detto:
"devi intuire con sapienza".
Intuire
è un verbo all'infinito; in quanto imperativo, devi intuire è rivolto alle sole persone in grado di comprendere. (...)»

(Traduzione di Giulio Busi, in Mistica Ebraica, ed. Einaudi, 1995)

 

Quanto alla frase "prima dell'Uno che numero puoi contare", la si trova nel seguente contesto:


(VII) Dieci Sephirot beli-mah, è insita la loro fine nel loro principio e il loro principio nella loro fine, come la fiamma è legata al tizzone ardente. Conosci, conta e scrivi. Il Signore è Unico (Yachid) e non ce n'è un secondo. E prima dell'uno, che numero puoi contare?»


Prima di ciò, il Sefer ha-Yetzirah dice:

(IV) Dieci Sephirot beli-mah, dieci e non nove, dieci e non undici; intuisci con sapienza e sii saggio con la comprensione: esamina servendoti di esse e indaga su di esse; conosci, conta e scrivi. Colloca l'argomento nella sua luce, e poni il Creatore sul suo trono. I suoi attributi sono dieci e non hanno fine.


(V) Dieci Sephirot beli-mah; la loro qualità è dieci e non hanno fine: la profondità del principio e la profondità della fine, la profondità del bene e la profondità del male, la profondità di sopra e la profondità di sotto, la profondità dell'oriente ela profondità dell'occidente, la profondità del settentrione e la profondità del meridione. E un Signore unico Dio e Re certo domina su tutte dalla sua santa Residenza e per l'eternità

Quello che ci mostra qui il Sefer ha-Yetzirah, è proprio il carro (Merkabà) della visione del profeta Ezechiele. Infatti il testo continua citando Ezechiele 1:14 "E le Chayot (gli animali celesti che sorreggono il trono di Dio) corrono e ritornano":

(VIII) Dieci Sephirot beli-mah; frena la tua bocca dal parlare e il tuo cuore dal meditare. E se il tuo cuore corresse a meditare, riportalo là dov'è partito. E ricorda che così è stato detto: "E le Chayot corrono e ritornano". Su ciò è stato stipulato il patto


Ma leggendo tutto:

(VI) Dieci Sephirot beli-mah; il loro aspetto è l'aspetto della folgore e la loro direzione non ha fine. Il Suo verbo è in esse quando emanano e quando ritornano. Alla sua parola obbediscono con la furia della tempesta e si prostrano dinanzi al Suo Trono

Cos'è quel "verbo"? È Maamarò, in ebraico, parola analoga al Logos di Eraclito, ossia "il significato del mondo", o di Filone, per cui esso è "l'intelletto del mondo", e comunque, per entrambi è: "l'emanazione divina". Insomma, è lo strumento della Creazione. E cosa sono, allora, le Sephirot? È certamente un errore tradurre con "emanazioni", e anche far derivare Sephirah da Sappir, zaffiro. Sephirah deriva semplicemente dal verbo ebraico "s ph r", ossia "contare". Ma là dove "contare" si dice "mispar" si intende contare con numeri ordinari (misparim), mentre con Sephirot si intendono i numeri considerati principi dell'universo o gradi della Creazione. In un certo senso, qui incontriamo l'Aleph come primo numero transfinito: nel primo Nome che la Torah ci mostra dell'entità Dio: Elohim, (scritto Aleph, Lamed, He, Yod, Mem) il Creatore che "In principio fece il cielo e la terra".
Elohim è un nome al plurale, e nella Torah bisogna arrivare al secondo capitolo prima di vedere il Nome di Dio scritto nel tetragramma impronunziabile: YHVH.
Ma proprio Elohim creò il cielo e la terra:
«Bereshit Barah Elohim ET haShamaim veET haHaretz»
cioè, appunto: «In principio Elohim creò il cielo e la terra», e dove nel testo ebraico si legge «creò "ET"», cioè le lettere Aleph e Tau, che sono la prima e l'ultima dell'alfabeto (l'Alfa e l'Omega, direbbe il Cristo...), si deve intendere, secondo la Tradizione, che Elohim creò per prima cosa le 22 lettere dell'alfabeto ebraico. Così nel Sefer ha-Yetzirah, nel secondo capitolo, versetto secondo:


(II) Ventidue lettere fondamentali: Egli le ha scolpite, le ha forgiate, le ha pesate, le ha alternate, le ha purificate, e con esse ha formato l'anima dell'intera creazione e l'anima di tutto ciò che è destinato ad essere creato.


(III) Ventidue lettere fondamentali: tre madri, sette doppie e dodici semplici. Scolpite nella voce, forgiate nell'aria, e fissate nella bocca in cinque luoghi: nella gola, nelle labbra, nel palato, nei denti, nella lingua.


(IV) Ventidue lettere fondamentali, fissate in un cerchio con 231 porte. Il cerchio ruota in avanti o indietro e il suo motto è questo: Niente in alto eccelle nel bene ('oneg='NG; anche: "il piacere"), e niente in basso eccelle nel male (nega'=NG'; che vuol dire "piaga").

'oneg      nega'  


(V) Come Egli le pesa e alterna fra loro? Aleph con tutte le altre e tutte le altre con Aleph. Beth con tutte le altre e tutte le altre con Beth, e così via. Esse poi attraversano le 231 porte e in questo modo tutta la creazione e l'intero linguaggio scaturiscono da un'unica combinazione di lettere.

(VI) Egli ha creato dal caos la forma e ha reso l'inesistente esistente. Ha scolpito grandi colonne d'aria impalpabile. E questo è il segno: Egli scruta, alterna e realizza l'intera creazione e tutte le cose con un'unica combinazione di lettere. Il segno di tutto ciò sono ventidue elementi in un unico corpo.»

Perché 231 porte? Basta sommare la prima lettera con la seconda, la prima con la terza e così via, ottenedo così ventun tipi; combinando la seconda con la terza, quarta ecc. si ottengono venti tipi; la terza con la quarta diciannove, fino alla ventunesima che fornisce un tipo. Lo schema è il seguente:

21+ 19+ 18+ 17+ 16+ 15+ 14+ 13+ 12+ 11+ 10+ 9+ 8+ 7+ 6+ 5+ 4+ 3+ 2+ 1 =
231.

Il IV capitolo il Sefer haYetzirah tratta delle "Sette doppie", ossia delle lettere Beth, Gimel, Dalet, Kof, Phe, Resh e Tau, (doppie non perché cambiano pronuncia Bet/vet, Phe/fe, ecc., in quanto la Resh fa eccezione, avendo, apparentemente, un'unica pronuncia. Si pensa che siano dette doppie per via della loro corrispondenza alle sette opposizioni fondamentali della vita umana: vita-morte, pace-guerra, sapienza-follia, ricchezza-povertà, fertilità-sterilità, bellezza-bruttezza, dominio-servitù), al versetto 8 propone il calcolo fattoriale:


(VIII) Sette doppie: Bet Ghimel Daleth Kof Phe Resh Tau. In che modo Egli le ha fuse l'una nell'altra? Due mattoni costruiscono due case; tre mattoni costruiscono sei case; quattro mattoni costruiscono ventiquattro case; cinque mattoni costruiscono centoventi case; sei mattoni costruiscono settecentoventi case; sette mattoni costruiscono cinquemilaquaranta case. Da qui in poi deduci e calcola quanto la bocca non può pronunciare e quanto l'orecchio non può udire


Da qui in avanti, tutto il quarto capitolo dice quali lettere Dio ha fuso e come, creando l'uomo primordiale, o l'uomo "Sefirotico" (maschio e femmina).

Ma a cosa serve il Sefer haYetzirah?
Beh, a meditare e contemplare la Creazione, ma è pure, sostanzialmente, un "manuale", o una sorta di spartito musicale per ripetere i "suoni" (ossia le permutazioni dei suoni fondamentali) che il Creatore ha usato per creare il suo mondo, così permettendo all'uomo che li ripeta correttamente di creare a sua volta altra vita, o cambiare il mondo di Dio. Fra l'altro, le sette doppie servono solo per "fare" gli orifizi del volto; ad esempio, la Beth è per la bocca, e la Daleth per l'occhio sinistro, mentre l'occhio destro è Ghimel.
Nel V capitolo, dove si tratta delle dodici lettere semplici (He, Vav, Zain, Chet, Tet, Yod, Lamed, Nun, Sof, Ayn, Tzade, Caph), nel primo versetto si dice:


«(I...) Il loro fondamento è: vista, udito, odorato, favella (o anche: stasi), gusto, coito, azione, movimento, ira, riso, meditazione, sonno (ma anche: gioia, o, altrove: dibbur: parola


E quindi:

(III) Dodici semplici: He, Vav, Zain, Chet, Tet, Yod, Lamed, Nun, Sof, Ayn, Tzade, Caph. Egli le ha scolpite, le ha forgiate, le ha pesate, le ha alternate, le ha purificate, e con esse ha formato i dodici segni dello Zodiaco nel mondo, dodici mesi dell'anno o dodici membra principali nell'uomo (maschio e femmina).


E così la Yod, ad esempio, è il segno della Vergine, il mese di Elul e il rene sinistro dell'uomo maschio e femmina, o la lettera Sod il segno del Sagittario, il mese di Kislew e la milza nell'uomo maschio e femmina.
E il capitolo VI comincia così:


(I) Tre padri e le loro generazioni, sette pianeti e le loro schere, e dodici angoli obliqui, e una prova di ciò è nei testimoni fidati: il mondo, l'anno e l'uomo. Il mondo: il suo numero è dieci; l'anno: il suo numero è dieci; l'uomo: il suo numero è dieci. In ognuno di essi vi sono ventidue elementi. Nel mondo: tre, fuoco, aria e acqua, poi sette pianeti e dodici segni dello Zodiaco. Nell'anno: tre, freddo, caldo e stato temperato, sette giorni di Bereshit (principio) e dodici mesi. Nell'uomo: tre, il capo, il ventre e il petto. Sette porte dell'uomo e dodici membra principali.


... di qui in poi facendo uscir di senno i traduttori che non avevano già rinunciato al primo capitolo, che però si consolano nell'accorgersi che mancano solo 8 versetti al colofone, che dice:


«Qui termina il libro delle lettere di Abramo, nostro Patriarca, chiamato Sefer haYetzirah. Chiunque mediterà su di esso aumenteràla misura della sua sapienza
O, in un'altra versione:
«...Chiunque si occuperà di esso o lo studierà conoscerà i suoi segreti: gli si riveleranno i segreti del mondo superiore e quelli del mondo inferiore; e gli verrà assicurato il mondo futuro».

Il Sefer haYetzirah non è però unico nel suo genere: esistono molti altri trattati sulla "forma" del corpo divino o sulla forma delle lettere dell'alfabeto ebraico. Il problema è che vanno letti nella lingua sacra, e la traduzione impiccia e impedisce di volar via dal proprio limitato cervello...
Così si preferisce di norma rivolgersi ai numeri, quasi fossero davvero loro l'agognata "lingua universale"... E così, forse, potrebbe pure essere. Ma dovremmo dimenticare l'ammonimento talmudico che ti ho citato in inizio, e goderci tutta la vertigine del numero in movimento, senza occuparci delle conseguenze per coloro che si aspettano qualcosa da noi...

     Quanto alla mia personale esperienza,

nei cinque anni che ho passato a Calcutta per studiare musica hindostani ricordo di aver dovuto imparare a far risonare per "simpatia" le corde fuori tastiera del mio strumento. Mi si diceva di far molta attenzione, perché era con la musica che gli dèi avevano formato il mondo, e con la musica sarebbe stato possibile distruggerlo... Ora, su sette corde sopra i tasti era possibile agire col plettro; su tre di esse si poteva agire col plettro e con la mano sinistra, che con due sole dita (maschio e femmina) poteva modulare la melodia; infine, sotto i tasti, c'erano dodici corde di lunghezza proporzionale accordate secondo la scala modale, ma queste potevano suonare solo per effetto della vibrazione prodotta dalle corde principali, e trasmessa dalla cassa armonica. Tutto ciò doveva produrre suoni intonati su una scala di cinque, o sei, o sette o più note, ma ottenute da una divisione in 22 parti dell'ottava, e non di dodici (o 24) parti, come nella nostra tradizione musicale. Quei ventiduesimi si chiamano schruti, che può venir tradotto in "udibili", intendendo ciò che è al limite ragionevole del discernimento d'un orecchio normale; ma in effetti "schruti" significa "unità riconoscibile al senso". Ventidue Aleph erano il mio pane quotidiano, mentre cantavo in note esotiche le mie pene d'amore di ragazzo sedicenne pieno di ormoni in ebollizione.
Per questo, mentre tutti i miei compagni di studio suonavano nel ciclo ritmico chiamato Teen-Tal, di sedici battiti divisi in quattro gruppi di quattro, col gruppo debole al terzo posto, il mio Maestro costringeva me solo a soffrire nel durissimo Tal-Sawari, che si costituiva di quattro gruppi così divisi: 2+2+2+2+1 e mezzo+1 e mezzo, per un totale di 11 battiti.
Io soffrivo e sudavo, sudavo e soffrivo, e pensavo alle cosce morbide della figlia minore del mio maestro, Rangeeta, che mi guardava con desiderio. Una notte di maggio, nel profumo degli alberi di mango, Rangeeta scalò il muro interno della casa, lungo la buganville, fino alla mia finestra. La vidi incorniciata dalla luna, mentre lasciava cadere il suo sari a terra, e veniva verso di me come il più bel sogno di ogni tempo. Mentre ci amavamo, il ritmo del Tal-Sawari non cessava di vorticarmi dentro, e Rangeeta sembrava danzarlo per me, nei nostri respiri, nei baci, in quella mia prima penetrazione.
Quando al mattino cominciai la mia lezione, il Maestro spalancò gli occhi e prese lui stesso ad accompagnarmi nel Tal-Sawari. Quel giorno ricevetti le sue lodi, un allievo da iniziare alla musica, una splendida camicia di seta in dono, e uno sguardo sornione rivolto a me e sua figlia.
Quando, un anno dopo, gli chiesi che cosa fosse stato a colpirlo del mio suonare, mi rispose: «dal tuo strumento si sono levate insieme le tre voci sacre: esse fluttuavano nell'aria come eroi divini, pieni di luce... non te n'eri accorto?»
Dovetti rispondere di no... ma sapevo ormai benissimo far vibrare le mie corde simpatiche per produrre accordi di tre note suonandone una sola, modulata fra ventuno possibilità di permutazione. Purtroppo, però, non ne ricordavo più il piacere, né il significato; ero solo abituato ad accordare bene il mio strumento e a dirigere con esattezza le mie note, benché quella musica mi servisse a poco.
Oggi non posso che ringraziare Dio, che permette sempre l'avere un'altra possibilità.

C.R.



ALEPH