S  E  R  E  N  A  T  A
P A S T O R A L E

Un omaggio ai Virtuosi del Settecento.
 

 

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PRESENTAZIONE


Vado... ma dove? Oh Dio!

Resto... Ma poi... Che fo?
Dunque morir dovrò
Senza sperar pietà?

 
 

(P. Metastasio; dalla "Didone abbandonata", 1724)

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PREMESSA APOLOGETICA

Giovanni Triulzi, Soprano - 400 Zecchini
Carlo Carlani, Tenore - 230 Zecchini

Domenico Ciardini - 100 Zecchini

(Teatro Regio di Torino, frammento del libro dei conti, Stagione1748/49)

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Perché porgere omaggio ai Virtuosi del Settecento?
Per un Metastasio o per un Goldoni erano solo palle al piede cui rivolgersi più che altro con la satira: tutto il Teatro doveva piegarsi "a' Capricci de' Virtuosi", e si potrebbe dire che di quei Virtuosi sia rimasto soltanto il ricordo di cent'anni e più di facile ironia sugli amori del Castrato o della Prima Donna, sulle loro debolezze e intemperanze, a consolidare la tradizione che vuole queste figure emblema di epoche di decadenza e di esasperato edonismo.
Forse, però, questa è solo una faccenda di quel che la carta è, o non è in grado di conservare: ciò che vi è scritto generalmente rimane, ma quello che i Virtuosi hanno realmente cantato e suonato, ciò che essi hanno realmente rappresentato per il loro pubblico, tutt’al più potrà essere soltanto de-scritto...

I Virtuosi cantanti del Teatro musicale settecentesco erano davvero artisti capricciosi, ricchi e fortunati? A volte sì, ma la loro ricchezza era assai precaria, e soprattutto effimera, come la loro arte; questo valeva infatti per tutti coloro che lavoravano in Teatro. Lo stesso Metastasio finì con lo scrivere di sé e del suo “genial mestiere”: «essendo certissimo che se io calzolaio o fornaio avessi goduto quel costante ed eccessivo favore della fortuna, che ne ho goduto poeta, nuoterei ora fra quelle ricchezze che non desidero, ma non possiedo» (lettera del 15 giugno 1769). La virtuosissima Faustina Bordoni, invece, nel 1723 se ne partiva per Londra, così annunciata da un giornale dell'epoca: «La celebre cantante Faustina sta per partire da Venezia per demolire la Cuzzoni –sua baruffosa collega– e nello stesso tempo per potersi riportare in patria denaro sufficiente ad eternare con la costruzione di uno splendido palazzo la stoltezza inglese».

Tuttavia, sebbene i critici e i letterati del Settecento demolissero ogni immagine “virtuosa” dei Virtuosi, e i Virtuosi fossero costretti a demolirsi a vicenda per potersi costruire palazzi, tutto ciò non deve farci congedare quel mondo con un distaccato sorriso di compassione, o nel migliore dei casi di tacita complicità. Lasciando in parte le arguzie degli Aristarchi dell’epoca e guardando nel nostro tempo con una frase di Roland Barthes, potremmo osservare che: «Il teatro acquista il proprio significato nel momento in cui si articola nella vita materiale dei suoi fruitori» (in: L'ovvio e l'ottuso, ed. Einaudi), e il fruitore del Settecento poteva conquistarsi, per “virtù” del “virtuosismo” dei suoi artisti, quella libertà dalla schiavitù e dal peso delle cose materiali che è ricerca comune a tutte le grandi arti e religioni.
In fin dei conti, i Virtuosi erano gente che si sudava il pane quotidiano sulla scena effimera del Teatro barocco, e di quel pane si è nutrito tutto il mondo del Teatro fino ad oggi. Servivano le più sublimi altezze della Musica e dell’Arte Scenica; a ben vedere, non è una cattiva idea render loro un riconoscente omaggio.


GENESI DI UN’IDEA.

Portiamo in tributo/ Con umil sembiante/ Dell'arabe piante/ Le stille odorose;/ Dell'api ingegnose/ Il biondo licor./ Ricchezze non sono,/ È povero il dono,/ Ma sono i frutti/ Del nostro sudor.

(P. Metastasio: Aria di Giuda, dall'Azione Sacra "Giuseppe riconosciuto", 1733)

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    Musica aromatizzata d'incenso, spezie d'Oriente, miele e nettari inebrianti... Se solo potessi nuovamente dichiararmi “Virtuoso”, o “umil Servitore”, soddisfatto del servire diletti zuccherosi o melanconici, eseguire o “interpretare” un Vivaldi o un Haendel risulterebbe ben più facile di quanto non sia oggi, nella mia scomoda maniera che si fregia del titolo di “filologica”.
Ma a un musicista del mio tempo, per presentarsi quale “Virtuoso”, e in tal modo porgere omaggio a ciò che in tutta naturalezza sarebbe stato duecento e più anni or sono, non rimane altra possibilità che vestire una maschera, per rappresentare teatralmente ciò che ormai resta solo un “personaggio storico”.
Dunque, per potermi mascherare, immagino un incontro fra Virtuosi come sarebbe stato possibile (e probabile) a Venezia, durante la seconda metà del secolo delle parrucche, delle ciprie, e infine della Rivoluzione francese.
Un nobile Signore commissiona ai suoi “Virtuosi da Camera”, un violoncellista e un violinista, una serata musicale, anzi, una “Serenata”, dedicata a una Virtuosa Cantante del “Teatro alla Moda”. Mi piace immaginare che costei sia un Contralto femminile –voce rara, gradevolmente ambigua per quel suo timbro a volte mascolino e a volte chiaro e innocente come quello di un bambino cantore– , che in quest’occasione pretenderà di essere accompagnata dal suo personale “Maestro al Cembalo”, al fine di servirla con competenza (e soprattutto complicità...) delle Arie e Recitativi più adatti a luogo, momento e pubblico.
Al suo seguito verranno due suoi fedeli comprimari –una coppia di castrati, o di contraltisti; voci ancora più ambigue!–, ben attenti a non contrastarla mai. La "Regola d'Arte" di una simile serata, stando a ciò che si apprende dagli scritti satirici del Goldoni o del Metastasio, sarebbe quella di offrire ai convitati un intrattenimento originale ma convenzionale, divertente ma severo, interessante ma non impegnativo, in cui la Musica sia l'ospite d'onore, ma non troppo invadente.
Immaginiamo però che il padrone di casa, commissionando ai suoi Virtuosi il tradizionale "Pasticcio" alla moda, voglia in quest’occasione dilettarsi nel dar prova di buon gusto e originalità (e dopotutto non è un'idea troppo fantasiosa), ordinando di “pasticciare” non la solita Opera di successo, bensì “l’estratto”di tutte le più gradite esperienze musicali dei primi cinquant'anni del suo Secolo: per tutti coloro che vi prenderanno parte, questa Serenata sarà allora da confezionarsi in modo d'una “Celebrazione della Musica Moderna”.

Il Compositore di Musica (ovvero, in questa ipotesi, il Maestro al cembalo), abituato a risolvere gli aspetti più complicati della sua malagevole professione, accetta l’incarico confessandosi: «Devotissimo, Ossequiosissimo, Umilissimo servitore... indegno di neppur baciare l'ultimo Gradino del Vostro Soglio...» (ampollosità autentica, maiuscole comprese, firmata Vivaldi). E subito comincia a fare il suo lavoro, selezionando dal suo bagaglio di combinazioni melodico-armonico-poetiche frammenti adatti e adeguati per dar inizio a quella che, usando un'immagine moderna, potremmo definire la composizione di un collage.
Deve muoversi con prudenza: è un lavoro destinato al capriccio del suo committente, ma deve compiacere anche, o soprattutto, i capricci dei suoi Virtuosi, intrecciarli ai desideri di tutti coloro che staranno in teatro, ovvero sulla scena e fra il pubblico, che dovrà in egual misura far ridere di gusto e “gustare” la malinconia.
In fin dei conti, quel compositore si accorge di lavorare con una certa soddisfazione. E ciò accade perché deve offrire all'approvazione di tutti non più, come d’abitudine, la “solita novità”, ma quasi il “distillato” di ogni idea maturata nelle più varie occasioni di far gradire la sua arte. Tutto ciò lo conduce inevitabilmente ad osservare che l'arte della musica consiste soprattutto nel conservare e nel ripetere, togliendo di volta in volta l'inutile o il superfluo, come idealmente dovrebbe accadere, appunto, in un “distillato” d'arte e di buon gusto.
Per “pasticciare” la musica del suo secolo, ogni compositore del Settecento non ha che l'imbarazzo della scelta: è autorizzato dalle più grandi scuole e tradizioni a scegliere la “materia prima” per la sua opera da musiche e testi poetici da qualsiasi genere o stile, purché “appropriandosene convenientemente”, secondo la “Regola d'Arte” vigente. È dunque proprio per questa “Regola” che il particolare lavoro idealmente commissionato a quel Maestro diventa interessante per noi moderni; la libertà di scegliere “nel mucchio” e di ricomporre a piacere, fa sì che il lavoro destinato a quell'ipotetica serata acquisti per noi un importante “valore aggiunto”: ci mostra infatti una diversa e più autentica visione del mondo musicale barocco, rivelandolo per quel che era, ossia infinito in sé, nel suo nucleo creativo, (e quindi, in una visione romantica, eterno) ma infinitamente variabile in ogni sua singola apparizione, poiché programmaticamente destinato a costituire sempre nuovi effimeri, e non singoli prodotti “immortali”, come l’Ottocento avrebbe voluto.
Anche nel nostro secolo, infatti, noi “moderni” abbiamo tenuto in vita solo le molteplici combinazioni di un linguaggio irrecuperabile nella sua totalità, pervenute ai giorni nostri tramite ciò che è stato scritto o stampato, cioè riproponendo di fatto solo quel che la carta ha conservato per noi. Ma fra gli effimeri che l’arte del Settecento offriva invariabilmente nei suoi teatri, vi era proprio la figura del "Virtuoso", ovvero l’oggetto stesso di quell'arte, la più autentica “materia” di cui la musica del Barocco era formata, e attraverso la quale giungeva ad esprimersi.
Il Virtuoso, forse suo malgrado, era l'artigiano illuminato, ed ha ininterrottamente rimodellato la musica, più o prima dei grandi e celebri compositori. Era, insomma, il più autentico e completo “attore di teatro” di ogni tempo, il cui genio era riservato all'immediatezza dei suoi rapporti col pubblico, al suo istinto, al suo fiuto di “animale da palcoscenico”.
Se dunque le Serenate Pastorali erano piccole opere celebrative da Camera, o da Giardino, per le ville di campagna di un'umanità privilegiata desiderosa di delizie, anche in quest'occasione le figure arcadiche che animano il mio "collage-capriccio" saranno personaggi allegorici, con l’unica funzione di declamare l'elogio della persona cui è dedicato il lavoro: in questo caso il Virtuoso stesso, l'intemperante Divo, orgoglioso dei suoi precari successi, tormentato dagli intrighi dei colleghi invidiosi, ma “movente” del linguaggio e delle indagini musicali di un'intera epoca.
Metastasio e Goldoni si contorceranno nella tomba? Poco importa: questa celebrazione è ideata come “Trionfo” della fantasia d'un “Musico Prattico” del Barocco, e non di un “Musico Oratore” colto o elevato; celebra coloro la cui unica mèta era compiacere il pubblico, comunicare “in diretta” con lui, essere graditi e amati dal mondo. In ultima analisi: far dono al mondo di una certa preziosa leggerezza, al fine di contrastare il peso a volte insopportabile della realtà quotidiana.
Oggi, nell’epoca della televisione, tutto ciò è quasi impossibile senza cadere nelle banalità, ma dentro alle stanze o ai teatri delle sue apparizioni il Virtuoso barocco può ancora “dare” la sua arte a quel mondo nato dopo la fine del suo, beandosi ormai all'idea di essere esclusivamente un “Servitore Divotissimo di Sua Altezza la Musica”, e forse non solo per diletto...


METODO, RITO, INGANNI E FOLLIE

«Le decorazioni destinate a rappresentare la natura,
devono mostrarsi ai nostri occhi delle imitazioni, e non le cose stesse.»

(J. Addison, in "The Spectator", Londra, 6 marzo 1711)

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    Come musicista e come fruitore di concerti, confesso di aver più volte desiderato che almeno qualcuna fra le innumerevoli Opere barocche conservate fino ai nostri giorni, fosse riproposta in forma d’un Pastiche di buon gusto, piuttosto che integralmente assunta a intoccabile capolavoro. Poi mi sono accorto che molto spesso, nella congestione di ri-proposte musicali del nostro secolo, molti capolavori venivano eletti a rango di opera immortale e poi morivano subito dopo, senza troppi problemi.
Ma il “Pasticcio”, nel Settecento, era più che altro un caotico composto di capricci del pubblico, e il pubblico cambia, sicché ogni suo capriccio non può avere altro che vita breve. Inoltre –almeno per coloro che desiderano consegnare all'arte una certa nobiltà d'intenti– “pasticciare un’opera” è sempre stata un’operazione da tenere in bassa considerazione.

Proviamo però a considerare l'Opera barocca da un punto di vista più concreto: sappiamo che era composta pressoché “su misura” per i solisti assoldati, o altrimenti adattata alle loro migliori doti; a partire da questo metodo, non si poteva prendere neppure in considerazione qualcosa di simile al concetto classico di “unità formale”, in quanto i compositori dell’epoca sapevano bene di dover lasciare tale impegno agli esecutori, semmai dirigendoli con i loro suggerimenti scritti (assai rari) o estemporanei. In pratica, la musica era un rito di interazione fra Maestri compositori e i Virtuosi, dove contava solo la qualità dello stile individuale e l'efficacia della dialettica.
Quanto di tutto ciò è ripetibile oggi?
Un’Opera del Settecento eseguita integralmente dall’interprete moderno rischia di somigliare piuttosto a un caotico composto di evocazioni barocche, romantiche, contemporanee, casuali... Non necessariamente sgradevoli, a ben vedere, ma l'idea di “autenticità”, con tutto il suo contorno di significati, dovrà essere conquistata a viva forza e in sprezzo di ogni onesta intelligenza. Se poi, come a me succede, ci si convince che l'oggetto più “autentico” da restituire a quel genere musicale è proprio la figura del “Virtuoso barocco”, si comprenderà qual è il buon motivo per trasfondere gli stessi moventi di un virtuosistico “Pasticcio alla moda” del Settecento, nella moderna realtà concertistica, riconducendovi i relativi principi.
Così nel mio lavoro convergono le convenienze professionali, (ovvero la selezione dei brani più adatti ad assecondare i limiti e ad esaltare le intrinseche qualità del solista), la scelta di adeguarsi ai parametri dell'ascolto di un pubblico contemporaneo, e infine qualche “vezzo” tutto barocco, come l'accumulazione di desideri allegorico-celebrativi (ma in fondo la musica, per sua natura, ama essere omaggio, o celebrazione...). Ne nasce un collage filologicamente sostenibile, storicamente plausibile, “virtuosamente” liberatorio, interpretativamente disinibito...
Ma poi finisco col chiedermi: io ho composto una Serenata allegorica per rivitalizzare le metodologie della moderna interpretazione filologica, oppure ho definitivamente decomposto le membra sparse di un irriproponibile modello musicale?
In effetti, io rischio di distruggere quella patina di sacralità che forse è tutto ciò che ci resta per “dar spessore” anche alle arti minori, quando si sono sufficientemente “stagionate” nel corso dei secoli, e proprio dove l'arcinota povertà di contenuti di mèlica e melopea arcadica forse potrebbe nobilitarsi solo con gli effetti di quella pregnanza storica che invariabilmente, e da qualsiasi oggetto antico, induce rispetto e interesse nell'osservatore.
Qui è situato il cuore del mio problema di musicista contemporaneo: ritrovare una energia creativa e un equilibrio espressivo coerenti con le eredità del passato, pur vivendo in un'epoca di totale saturazione dei linguaggi, nella quale si avverte «la vicinanza della sterilità, la disperazione innata e predisponente al patto col diavolo», come avvertiva Thomas Mann nel “psicanalizzare” il suo Doctor Faustus. E rinnovarsi con tale patto, è noto, trascina nella disperazione e sfocia nella follia.
L'arte dell’Arcadia barocca è in grado di redimerci? Forse sì, e forse meglio di quanto possano altre tradizioni.

Nella mia Serenata Pastorale l'unica “disperazione” è quella di Tirsi: una disperazione retorica, “arcadicamente” vuota di verità, appena fuori dal palcoscenico che la ospita. Eppure, giunto al momento di riscrivere l'Aria di Haendel “Non sospirar, non piangere mio cor, che sono i gemiti indegni del tuo duol”, io, ricomponendola, ho intriso di dolore vero, umano, moderno, brutale, le note dell'accompagnamento che vi ho aggiunto. Quel Tirsi è null’altro, in effetti, che la mia proiezione, il mio alter ego, visitatore di un Paradiso Perduto, di un Eden che chiamo Arcadia, nel quale languisco d'amore per una Musica ammaliatrice e irraggiungibile dall'incantevole nome di Clori. E non è infatti la mia una autentica, verissima follia d'amore, per quella “perfezione” arcadica che mi viene negata, e che risuona in me come la memoria dell'innocenza perduta? E se l'innocenza è irrecuperabile –e in musica nessun “Messia” è giunto per redimere– perché allora io sento l'insopprimibile bisogno di ripetere ancora e ancora la musica di quei Giardini d’Arcadia? Può veramente accadermi solo in quanto “servitore” delle mie tradizioni culturali?
Temo, oggi, di non essere più “interprete” della musica che amo, poiché ho l’impressione di esser diventato null’altro che il "riproduttore sterile" di qualcosa che non riesce più ad articolarsi nella complessità del mondo in cui vivo, ed è già abbastanza grave sentirmi simile a un sacerdote che ripete un rito ai fedeli, senza alcuna speranza di ritrovare memoria dei significati di quel rito stesso.

Non avendo né risposte né certezze, scelgo l'inebriante illusione di libertà del “fingermi” Virtuoso barocco anch'io, e la difficile, malagevole condizione di “mascherarmi” con gli “strumenti originali d'epoca” di cui mi servo per ri-comporre una Serenata in modo antico. Vesto una maschera da Virtuoso affinché produca dei fenomeni –per citare ancora Barthes– “la cui missione è quella di rendere leggibile la comunicazione fra gli uomini e gli Dei” (op. cit.). E gli Dei sono coloro il cui linguaggio è situato al di là del tempo e dello spazio, mentre uomini sono coloro i quali sentono l'urgenza di un linguaggio che dallo spazio e dal tempo si possa liberare, in piccole o grandi intuizioni.
Forse proprio per questo, quando nella mia Serenata Cupido posa l’arco a terra e si addormenta, io ho scelto d’alleggerirmi dal peso del mio violoncello, che cessa di suonare poiché in questo gioco teatrale rappresenta l'arco e le frecce di Amore: il violoncellista lascia il suo strumento, si unisce a Clori e Tirsi e canta con loro: “Tacete, voi che sapete! (è proprio vita dura!) Dorme Amor, nol vedete? Non sia voce importuna che gli turba il riposo: Amor giace... (Sol quando dorme Amor, il mondo è in pace!)”...

Sì: con questo lavoro io invito a credere all'esistenza di Cupido, Tirsi e Clori solo in quanto essenza musicale, pura astrazione, ma anche quali strumenti dell'ineffabile, e soprattutto come “segni” il cui codice, una volta decodificato, non rinvia più a un mondo, ma a un'interiorità, dove ogni messaggio è possibile.

 


 

BILICI E IRRIVERENZE

«Non sarà adunque chi nieghi, in Paradiso dover'essere la Musica vera & reale; [...] Sì sì, ch'egli è vero, ò del vero Apollo santissime e beatissime Muse, che de' passaggi delle vostre Lire, & de' versi vostri, le contrade del celeste Parnaso
risuonano.»

(G. Battista Marino; in "Dicierie Sacre", Venezia, 1643.)

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    Per la conclusione della mia Serenata Pastorale ho cercato una morale ammiccante e un po' birbona: “No, di voi non vo' fidarmi, cieco Amor, crudel beltà; troppo siete menzognere, lusinghiere Deità!”. È un duetto da camera scritto da Haendel nel 1741, l'anno della creazione del suo Messia, l'Oratorio sacro più celebre al mondo.
Il fatto curioso, però, è che quel testo si canta in duetto sulle stesse note di uno dei più famosi brani corali di quell'Oratorio: "For unto us a Child is born" (Perché fra noi è nato un bambino –il Messia–, a noi è dato un Figlio, e il governo del mondo sarà sulle sue spalle). L'allora anziano Maestro l'aveva travestito da spiritosa Arietta italiana, con benevola irriverenza (di certo perdonabile, in quanto i proventi delle esecuzioni pubbliche del Messia erano destinati ad istituzioni benefiche).
Così è pure per gli atri tre Duetti che ho sparso nella Serenata; fra questi, "Quel fior che all'alba ride, il sole poi l'uccide, e tomba ha nella sera" mi è particolarmente simpatico perché la convenzionale metafora della sera-vecchiaia in cui muore il fiore-bellezza-gioventù, si va a sovrapporre al testo dell'Oratorio, che tradotto in italiano suona così: “Il Suo giogo è facile, il Suo peso è leggero” (quello della fede), lasciando filtrare qualcosa che a me piace leggere in modo di una sottile, senile amarezza.
Ma i doppi sensi tanto amati dagli Arcadi dovrebbero rimanere perennemente segreti da svelare (comunque: "So per prova i vostri inganni: due tiranni siete ognor!", deriva dal coro "All we like sheep have gone astray", che dice: ognuno è andato per la sua strada, ma il Signore ha caricato su di Lui –sempre il Messia– l'iniquità di tutti noi. Misteri del "Messia" di Haendel...).

Rassicurato dal fatto di aver colto da questi Duetti brillanti un autorevole suggerimento, ho dato sfogo a una “filologica” follia: consegnare a Cupido e a Clori parole e musica del biblico Oloferne, di Lucifero e del Dio d'Israele, rubate agli Oratori di Alessandro Scarlatti, adducendo a discolpa delle mie irriverenze il fatto che l'autore li scriveva nello stesso stile delle sue Cantate Pastorali, con le stesse riverenze arcadiche o galanti, e le stesse note musicali.
Anzi, per meglio discolparmi, ho scelto di concentrare la mia cèrnita su ciò che era stato composto a Venezia intorno al 1709, quando vi soggiornavano –oltre ai soliti veneziani Vivaldi e Caldara, in attesa di Porpora che sarebbe arrivato negli anni venti, prima di andare a baruffare con Haendel a Londra– anche i due Scarlatti, padre e genialissimo figlio, e il giovane Haendel impegnato a musicare l'Opera “Agrippina” (sul balordo libretto del suo protettore Cardinal Grimani, talmente sovraccarico di doppi sensi osceni che quell'Opera divenne uno dei maggiori successi veneziani).
In quell'anno Vivaldi dedicava le sue Sonate per Violino e Basso opera II al Re di Danimarca, giunto in incognito per godersi il Carnevale di Venezia, e nel Preludio della terza Sonata in Re minore approdava l'incantevole melodia per violoncello solo ad introduzione dell'Aria "Domine Deus" del suo Gloria in Re per soli, coro e orchestra. Li ho messi insieme, questi due incanti sonori, come Ouverture al Recitativo del “Mattino d'Arcadia”: il “Destatevi, o Pastori” che apre la Serenata; un momento di profonda, mistica introspezione, che diventa un “Andante grazioso” per lusingare un Re... una riverenza, poi un'irriverenza... ma solo a parole: di fatto c'è solo la purissima idea musicale.

Pastori d'Arcadia, dunque, o Pastori d'Israele? Antico, oppure Sacro?
Forse l'uno o forse l'altro; nelle sovrapposizioni di un Dio biblico e di un Dio aristotelico, sembra essersi generato ogni grandioso effimero del barocco; in quei “bilici” fra sacro e profano si possono scoprire, a volte, alcuni dei messaggi più complessi e più attuali del suo linguaggio, in “cimento” con la cultura del nostro secolo.

 


 

FICCARE IL NASO... NON SOLO PER CURIOSITÀ

«I could like, said my mother, to look through the keyhole out of curiosity
-Call it by its right name, my dear, quoth my father-

And look through the keyhole
as long as you will»

(«Mi piacerebbe, disse mia madre, guardare attraverso il buco della serratura,
per curiosità.
—Chiamala col suo vero nome, cara! Sentenziò mio padre—
E tu, spia dal buco della serratura
quanto ti pare»)

(Laurence Sterne, "The Life and Opinions of Tristram Shandy, Gentleman", vol. VIII, Londra 1761.)

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    Infine, comporre questa Serenata è stata più che altro una questione di naso: ovvero ficcarlo nei segreti dei manoscritti e dei volumetti di musica d'uso personale dei Virtuosi, fiutare ciò che presumibilmente sarebbe stato scelto da loro fra così tanta musica combinabile all'infinito e, in ultima analisi, assicurarmi appunto che non vi fosse odor di decomposizione...
Così spiando, mentre cucivo frammento a frammento, persisteva in me la sensazione di essere spiato da qualcun altro che s'aspettava qualcosa dal mio lavoro. Questo invadente “fantasma” del Virtuoso si agitava inquieto alle mie spalle, allegorizzando con fanatica insistenza, preoccupandosi di compiacere, di divertire, di riverire.
Scoperto il suo rifugio e svelato il suo mistero, ho allora deciso di racchiudere la mia Serenata nel genere della Cantata da Camera: nella sua rarefatta atmosfera teatrale, quel luogo lasciava trasparire l’intimità dei suoi personaggi, ed io provavo così l'intrigante, voyeuristico piacere di spiarli a mia volta dal buco della serratura.
E poi, in un gran teatro è più difficile trovare intimità e serrature.
D'altronde lui (o meglio, la sua immagine) per spiarmi poteva usare la maggior parte degli oggetti della mia quotidianità: manoscritti, stampe, strumenti dei suoi tempi... E se io cercavo di nascondermi, col pudore di chi passa tanta parte della sua vita di fronte a un pubblico, non facevo in realtà null'altro che imitare quel suo modo di sfuggire ad ogni assoluta definizione di sé, riservando la sua intima personalità solo alle occasioni di improvvisare le più efficaci intuizioni drammatiche nell’immediatezza della comunione col suo pubblico.
Infatti, la sua arte non svelava mai alcun contenuto autobiografico, e l'originalità della sua fantasia era confinata all'essenza del suo stile. Questo è il motivo per cui io mi sono ritenuto libero di approfittare di qualsiasi suono barocco, con totale disinibizione. Scovavo e annusavo l'estrema duttilità delle melodie, per scoprire poi che i compositori parevano averle predisposte a una sorta di perfetta autonomia: ogni Aria poteva completarsi in se stessa, simile a una statua di marmo prezioso, assorta per l'eternità nella sua posa retorica; eppure capace, con un guizzo geniale, di compiere straordinarie, inattese metamorfosi.
Quelle melodie potevano ribaltarsi da patetiche in ironiche, da languide in soavi, senza perdere mai nulla della loro materia originale. Io mi ritrovavo a spiare divertito ogni immagine musicale assorta nella sua molteplice unicità, come fiera di se stessa, tendersi fra il tempo indefinibile della finzione teatrale e il tempo presente, immediato, di un'estrosa improvvisazione: trasformarsi e sorridere al mio disappunto. Ora vi leggevo una biblica ammonizione, e ora solo più l'ammiccante sorriso di una Ninfa in amore; ora la scena era il Monte Sacro, e d’un tratto erano i giardini d'Arcadia... A me non restava altro che raccogliere quella fluttuante materia sonora e, con l'apprensione di chi teme il vederla dissolversi ancora, chiuderla in un qualche significato, nel quale appassiva, seppur nobilmente, come un fiore tra i fogli di un libro.
Scoprivo così di doverla solo spiare fingendo il mio atto un segreto, affinché la godessi per curiosità e, ahimè, solo con la fantasia. Per questo durante la Serenata Clori spia Tirsi, Tirsi spia Clori, Cupido spia tutt'e due e tutt'e due spiano Cupido: non c'è altro amore possibile in questa musica.
Ma il teatro –dove gli alberi e le colline possono essere soltanto i legnami e le linee curve dei nostri strumenti musicali, e dove i Virtuosi leggono dal loro libro, trascinando il pesante volume di Arie e Recitativi quasi a simbolo della schiavitù cui la carta li ha costretti– se è davvero fedele complice dei nostri desideri, permetterà a chi è in scena di spiare il pubblico, attento alle sue più delicate reazioni, e nella libertà d'improvvisare come antichi Virtuosi forse sarà possibile consegnare ancora una volta le chiavi di quella serratura, verso altri, più segreti piaceri.




Claudio Ronco, Venezia, Settembre 2003.

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