-III-

 

   Venne a prendermi alle dieci al mio albergo.
Aveva una grossa macchina americana anni cinquanta, di un buffo color azzurro confetto, ma lussuosissima e perfettamente conservata. Attraversammo tutta la città, fino a un posto di periferia, fra palazzi moderni e anonimi; lasciò la macchina in un parcheggio sotterraneo, e infine mi guidò a un ascensore che portava direttamente nel suo appartamento.
Era sicuramente un affitto provvisorio: sul campanello c'era solo scritto un numero, l'arredamento era quello tipico da hotel di categoria medio alta, con quadri mediocri ma eleganti alle pareti, pochi soprammobili, nessun libro, nessun oggetto o fotografia incorniciata che sembrasse qualcosa di personale e che potesse raccontarmi di lui e della sua vita.
Riapparve dalla cucina con del caffé all'italiana e dei liquori su un carrello-bar.
«In Russia dicono: "un orso mi ha posato la zampa sugli orecchi". È per dire: non sono sordo, ma la musica non mi entra dentro. Così devo ascoltarla sempre senza sentirla, forse un po' come i sordi...»
«Ma c'era proprio un sordo che andava a tutti i concerti di Paganini...»
«Lo conosco: e lo ritraeva su dei fogli di carta spessa, con la matita e l'acquerello.»
«Ricordavo solo la matita...»
«Nulla di strano; la matita funzionerebbe un po' come la puntina di un vecchio registratore acustico per cilindri di cera: riceve le vibrazioni di una membrana tesa e le traduce in incisioni riproducibili da un sistema uguale ma di funzione opposta. Io credo che anche lei abbia una parte di sé che funziona a quel modo. Credo sia un po' sordo anche lei come me.»
«Che cosa vuol dire?»
«Che ci disponiamo a ricevere la musica, e non a crearla. Ma badi bene, questo non vuol affatto dire che si è cattivi musicisti: al contrario, credo che così siano i grandi. Banalmente le ricorderei Beethoven, ma io credo che fosse sordo anche Corelli, o Bach, o Mozart. Solo di un diverso tipo di sordità...»
«Capisco: quella fisica, o mondana, per approfittare meglio di un udito metafisico.»
«Esatto: essere non creatori di musica, ma inventori di suoni che la rappresentano. Sentire la musica nel numero, prima del calcolo. E lasciarsi dettare il dettato
«Questo mi sembra troppo, però. Preferisco restare dove Corelli compone come un cabalista: permuta le lettere del testo. Musica come entità estranea, o esiliata, dal tempo e dallo spazio, resa manifesta nel mondo col veicolo dell'acustica, anche solo intellettuale, là, in una sospensione del tempo e dello spazio del mondo...»
«I suoi colleghi si fermano alle note, alle strutture delle note, e ne traggono solo impressioni fugaci, emozioni vane. Se per disgrazia diventano sordi, in loro la musica può continuare solo per una volontà mnemonica, nel preservare le strutture perdute dei suoni. Ma è certo più facile per un cieco ricordare i colori.»
«E come fa a saperlo?»
«Sono anche cieco. Nel senso che un altro orso deve avermi messo la zampa sugli occhi, e non so riconoscere il bello dal brutto nella visione delle cose, per artificiali o naturali che siano. Io, al fine di comportarmi, o presentarmi dignitosamente nel mondo, mi affido solo all'osservazione e imitazione degli altri con cui vivo.»
«Sono sempre più curioso di sapere almeno qualcosa di lei... è di origine russa?»
«No, ma le ho già detto chi sono; dovrebbe averla soddisfatta. Suvvìa, caro amico, stiamo perdendo tempo: io ho una cosa importante da consegnarle. Lei ne farà ciò che vuole, ma io sarò felice se un giorno vorrà considerarla sua.»
Mi fece cenno di attenderlo, ed entrò in una stanza che credo fosse quella da letto. Tornò reggendo fra le mani un grande violoncello antico, di straordinaria bellezza.
«Che ne pensa?»
«...Non ho parole...»
«Di fronte a uno strumento di musica lei non dovrebbe aver bisogno di parole... E poi, se lo lasci dire, fin dal primo momento che l'ho incontrata, mi sono accorto che lei con le donne non ci sa fare, perché in realtà non le interessa affatto quel che può venir fuori da un rapporto più o meno ben riuscito con l'altro sesso: lei si compiace talmente dei preliminari, del parlare e parlare per affascinare con la sua parola, che finisce col sapere benissimo, dentro di sé, che qualsiasi risoluzione sarebbe deludente. Così finisce pure per creare, come per magia, il distacco da colei che ha lungamente corteggiato con tanta passione. Ma con una donna come questa fra le mani, se non ricomincia a parlar troppo, lei è l'uomo perfetto!»
«...Non so cosa devo risponderle...»
«Andiamo, non mi verrà a raccontare che la sua bella Sophia è a casa sua che l'aspetta! L'avrà piantata in asso o il giorno dopo o dopo una settimana di "non posso vederti ora", "perfavore, lasciami sola per qualche giorno"...»
«Il giorno stesso, perché quello dopo non c'era già più... E lei come fa a saperlo?»
«Ah, beh, era chiaro come il sole: Sophia guardava tutti, in quel bar in cui vi ho invitati, meno che i suoi due amati ebrei erranti. Pensava: "questi due parlano, parlano, e si parlano addosso; io con la gente che si fa le pìppe intellettuali non ho proprio niente da fare".»
«...Sì, forse ha ragione, forse è andata proprio così... ma a me piaceva lo stesso, e ci sto male anche ora... Comunque una cosa è assolutamente vera, e io ne sono cosciente: finché Sophia rimane solo un mio sogno io sento di amarla, desiderarla, parlo con lei, le sorrido, l'accarezzo... poi mi rendo conto che non somiglia affatto alla ragazza che era con me su quella panchina il giorno in cui ci siamo incontrati: ha addirittura un altro viso, altri capelli, un profumo diverso. Tutto quello che mi sforzo di ricordare di Sophia, per un istante mi sembra essere quel che Sofia è in realtà, poi mi rendo conto che non ne sono più affatto sicuro, e infine mi accorgo che per nulla al mondo vorrei incontrarla per caso in una strada, o in qualsiasi luogo in cui potessi nascondermi a spiarla, o non esser visto mentre la osservo, per poter confrontare il mio ricordo di lei con la sua reale presenza... Soffro terribilmente la sua mancanza, ma almeno mi accorgo di sapere cosa desidero veramente, e... sì, d'accordo, lo devo ammettere, lei ha perfettamente ragione: quel che davvero io amo e desidero non è mai stata quella ragazza.»
«E questo violoncello?»
«...È bellissimo! Me lo porti alla luce.»
Guardai a lungo quello strumento, posato sul tavolo rotondo di quel soggiorno, sotto la luce di un'ampia lampada da soffitto, che continuavo a muovere in tutte le direzioni per vedere meglio un dettaglio del legno o della vernice, un segno dell'autore o un segno del tempo, ciò che era fuori e ciò che era dentro a quella meravigliosa cassa armonica.
«Sono sbalordito... questo violoncello sembrerebbe in tutto e per tutto un Guadagnini... un Giovan Battista Guadagnini... giovanile, credo... fatto a Cremona, o a Milano, intorno al 1750, o al '60... se non fosse che dentro è incollata l'etichetta di Jean Baptiste Vuillaume... che però era dell'Ottocento... leggo male i due ultimi numeri... sì: '67, Mirecourt...»
«...Di nuovo bravissimo! Ma mi dica di più.»
«Bene... il restauro è fatto negli anni cinquanta, direi in America. Lo intuisco dal modo in cui è montato; vede, questi ponticelli, queste cordiere, questi puntali, e persino queste corde, erano di moda negli Stati Uniti, in quell'epoca; non si usano più da decenni. Poi devo ammirare questi restauri, che immagino esser fatti in quel periodo, e sono eccezionalmente ben eseguiti. Vede qui sulla tavola armonica? Ci sono almeno una ventina di spaccature; forse il violoncello era caduto molto malamente da una carrozza, o qualcuno di molto pesante ci era cascato sopra, non so... forse il cavallo!...»
«Il cavallo?»
«...È veramente incredibile come tutto sia stato rimesso così bene a posto, anche se questo povero strumento aveva subito una prima riparazione davvero grossolana: tutte queste fratture erano state incollate malamente da un pessimo falegname... anzi, guardi: da un dannato taglialegna!»
«Mah... non sono in grado di giudicare...»
«Non c'è bisogno di essere degli esperti; osservi bene qui: aveva messo chiodini di legno dappertutto per tenere insieme le fratture, probabilmente fissandole a qualche barretta interna, e poi, evidentemente, un ottimo liutaio le ha elimitate e sostituite con queste piccole, deliziose tacche a forma di rombo, qua all'interno; dei veri gioiellini di legno bellissimo...»
«E chi potrebbe essere?»
«Restauri così ben fatti potrebbero essere della ditta Wurlitzer di New York, proprio intorno al 1950... Ma mi dica: è veramente un antico violoncello italiano? Voglio dire, del Settecento?»
«...Non mi aspettavo una simile competenza... non lo so; può darsi che lo sia, ma io davvero non lo so...»
«Vuillaume non era un falsario, ma amava realizzare delle imitazioni perfette, indistinguibili dagli originali... solo che normalmente ci metteva dentro la sua sigla, e non la sua etichetta; l'etichetta che c'incollava, semmai, era un'imitazione di quelle dell'autore che Vuillaume aveva "omaggiato" con la sua copia...»
«Ripeto: certo lei ha molta più competenza della maggior parte dei violoncellisti, e io non sono in grado di darle risposte adeguate.»
«Ma almeno mi dica come l'ha avuto.»
«Beh, io ho perso molte cose che altri avranno ritrovato, e ho trovato cose che altri hanno perso... e forse questa è la copia di una copia del Vuillaume...»
«Sì, potrebbe essere, ma mi sembra molto improbabile, e poi, così non mi ha risposto!»
«Gliel'ho detto: non ho la sua competenza in merito a violoncelli e liutai, e non posso risponderle!»
«Ma io intendevo chiederle: come l'ha avuto?»
«Non è rubato, se è questo che intende con tutta questa impertinenza! Insomma, vuole suonarselo per un po' oppure me lo devo tenere io?»
Si irritò talmente che non ebbi il coraggio di aggiungere altro. Mi scusai, finsi di studiarlo ancora un po' mentre lui si calmava versandosi un bicchiere di Porto, e dopo qualche minuto di un imbarazzante silenzio accettai di portarmelo a casa un po' di tempo per suonarlo.
A differenza di quel che credevo la sera prima, la mia prova pomeridiana era di lì a poco, così dovetti chiedergli di riaccompagnarmi al mio albergo con una certa fretta. Mugugnò qualcosa fra i denti, poi andò nella stanza da letto a prendere una grossa custodia nera, in legno, e mi fece cenno di metterci dentro il violoncello.
Durante il viaggio di ritorno ricordo di non averlo mai sentito parlare; io, di quando in quando, gli chiedevo qualcosa sulla strada che avevamo percorso, o su quanto sarebbe rimasto a Ginevra, ma senza mai ricevere risposta. Non so neppure se mi salutò, perché davanti al mio albergo c'era troppa confusione e lui fu costretto a restare al volante; quando chiusi la portiera della sua automobile, scomparve subito come inghiottito dal traffico.
Restai lì, in piedi sul marciapiede dell'albergo, interdetto, come istupidito, stringendo al mio fianco quella pesante custodia nera, lugubre, inquietante.
Io trasportavo su di me quell'incredibile violoncello, e ancora non era altro che la bizzarrìa di uno strano uomo anziano, un gesto capriccioso che non mi riusciva di capire, una voce ancora chiusa là dentro, strumento ancora muto, già carico di mistero, eppure già profondamente mio, già padrone della mia vita, già autore del mio destino.

 

 

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© C. Ronco 1999. Tutti i diritti riservati.