Gh'è scià 'l murnée (Arriva il mugnaio)

Il mestiere del mugnaio, oggi praticamente assorbito dalla grande industria, era un tempo uno dei più diffusi.
La figura del mugnaio era familiare dovunque nel quadro della vita quotidiana: simbolo di benessere, ed anche di furbizia, perché sempre sospettato di essere un po’ ladro e profittatore nel maneggiare granaglie e farina altrui.
Per questo gli Statuti medievali ne regolamentavano l’attività, prevedendo anche multe severe in caso di frode.
Girando porta a porta con il carretto trainato da un mulo o da un cavallo, trasportava i sacchi di granaglie dei clienti al mulino e restituiva i sacchi di farina.
Il suo giro era puntuale, tanto che la gente, che non aveva orologi, lo considerava un segnatempo: Quant hinn i ur? (Che ore sono?) L’è un’ura che gh’è passàa ‘l murnée (è un’ora da che è passato il mugnaio).
C’erano mulini su tutto il territorio della provincia di Como, alcuni già documentati nei secoli altomedievali.
Due vallate, in particolare, erano costellate di mulini: la valle di Chiasso Maggiore, ossia la Val Faloppia, dove ce n’erano una ventina già dal secolo XV; e la valle di Fino Mornasco lungo il Seveso.
Lo scrittore comasco Carlo Linati, visitando i mulini

Uno staio (in dialetto stée), antica unità di misura delle granaglie, conservato al Mulino del Trotto
della Val Faloppia nel 1937 li descrisse così: «simpatica questa vita intorno ai vecchi mulini. Piccoli cortili pieni di carretti con le stanghe all’aria ci accolgono con l’aria fiera e un po’ mutriosa che avevano i contadini cinquant’anni fa, poderose mole di sarizzo riposano là, dopo tanti anni di lavoro, contro i pilastri dei porticati e poi dentro la camera da macina tutti quei sacchi, quell’odor di crusca, quel polverume, tutti quei vecchi aggeggi un po’ rozzi, un po’ sempliciotti che mandano il loro ovattato ronzio zoppicante alla luce di poche finestrelle quadrate, sulla valle, o di qualche sonnolenta lampadina elettrica».
Ebbene, «quel polverume» di farina si depositava su vistose ragnatele dalle fitte trame, che spanciavano da travi e travetti del soffitto.
I mugnai si guardavano bene dal rimuoverle, giacché impregnate di farine ammuffite venivano richieste come emostatico e disinfettante per bendare le ferite, che spesso i contadini si facevano con falcetti o roncole durante i lavori in campagna o nei boschi: penicillina ante litteram popolare.
Mulino era per i nostri vecchi anche un dispensario di pronto soccorso.
Alcuni dei mulini della Val Faloppia e del Seveso erano attrezzati come frantoi per produrre olio di linosa o di ravizzone.
Altrove, come nella convalle di Como e nella valle del Breggia, azionavano folle per produrre carta o battere panni di lana.
Sul Lanza e sulla Faloppia nei secoli medievali doveva esservi stata anche un’attività metallurgica, giacché nel secolo XV si nominano mulini chiamati del Maglio.
E il nome di mulìn del Mai è rimasto a quello che c’era sotto Caversaccio, a monte di quello in comune di Rodero, chiamato del Tibìs.

Il Mulino del Trotto

Ul mulin del Tròtt

Il più famoso della zona di Cagno e Concagno era il mulìn del Tròtt, che non è più attivo, ma è uno dei pochi ancora conservato con tutti gli impianti: testimonianza museale del piccolo mondo antico, in una fresca oasi verde.
Documenti storici ne parlano a partire almeno dal secolo XVI. Ma divenne famoso tra tutti i mugnai della zona di confine nel secolo XVIII. Perché?
A quel tempo fioriva il contrabbando del grano verso la Svizzera, e i numerosi mulini presso il confine diventavano, con la scusa di portare il grano da macinare, una base d’appoggio per poi esportano di frodo.
Durante il regno di Maria Teresa d’Austria, nella seconda metà del Settecento, per controllare il trasferimento delle granaglie e limitare i sotterfugi dei contrabbandieri, si impose ai mugnai della zone di confine una bolletta d’accompagnamento dei sacchi, con annotate le quantità trasportate. Ne scaturì grande mugugno e subbuglio tra i mugnai, per lo più analfabeti, preoccupati delle complicazioni burocratiche. Girò la voce che il mugnaio Baldassarre Mina del Molino del Trotto di Cagno, raccomandato affittuario del signor Larghi, ex-segretario del Governo milanese, aveva ottenuto l’esenzione dalla bolletta per il trasporto di modiche quantità di grano fino a sei staia (circa un quintale). Anche gli altri chiesero analoga esenzione dal magistrato camerale, ossia dal ministro delle finanze, che era il famoso Cesare Beccaria, nonno di Alessandro Manzoni. E la loro richiesta fu subito accolta. La legge era uguale per tutti!

Interno del Mulino del Trotto

Come funzionava un mulino ad acqua

Ecco come il mugnaio faceva funzionare il mulino.
Saliva sul ponticello dove si trovava l’impianto delle saracinesche (spazèra) che intercettavano e deviavano a lato l’acqua della roggia molinara (rungia), apriva una saracinesca (spazùn) regolando il flusso dell’acqua: maggiore o minore secondo la velocità che desiderava imprimere alle ruote che azionavano le macine. L’acqua si immetteva su una canalina (canàa), che la faceva cadere sopra la ruota a pale (röda), che cominciava a girare. All’interno del mulino, sullo stesso asse della ruota esterna, era montato lo scudo, cioè un’altra ruota, però dentata, che agiva ad ingranaggio su un perno (pàl), che a sua volta trasmetteva il moto rotatorio orizzontale alla macina (marna), appoggiata sopra la mola (möla), che in coppia trituravano il grano che cadeva dalla tramoggia (tramögia), il grande imbuto di legno, dove il mugnaio aveva svuotato il sacco (sach) di grano (frumento, segale, mais, miglio, farro...) da macinare, sollecitato da un apposito legno incavato (ruchèl) o da un batiröö.
La coppia delle macine aveva delle scanalature, da cui fuorusciva la farina, raccolta e convogliata da un canaletto (buchéta) nel buratto (büràtt): un setaccio a forma di parallelepipedo esagonale, montato sopra una cassa. Tramite un sistema di cinghie e pulegge era raccordato all’asse principale, così che girava di continuo ed era percosso sugli spigoli da un battacchio pendente (batarèl) che favoriva la caduta della farina nel cassone, da dove con una bacinella di legno (baslòtt) o una paletta (còp) il mugnaio travasava la farina nei sacchi. La crusca (crüsca) non filtrata tracimava dai lati del buratto e si raccoglieva in un recipiente a parte.
Un campanellino (ciuchìn) sospeso ad una corda pendente da un sistema di leve segnalivello, si abbassava man mano che la tramoggia si svuotava, e quando non c’era più granaglia toccava il fondo appoggiandosi sulla macina, così che suonava richiamando l’attenzione del mugnaio ed avvertendolo che il primo carico era stato completamente macinato.
Le macine o mole per le granaglie si modellavano da blocchi di sarizzo o granito o di tufo a puddinga fine, che si cavava per lo più sui monti e le colline locali. Gli ingranaggi delle ruote di trasmissione meccanica del movimento avevano la dentatura in legno.
Servivano perciò essenze particolarmente dure e resistenti. Era usato preferibilmente legno di corniolo (curnàa), di cui ci si forniva sul mercato di Lugano, come informano documenti settecenteschi. I cavallanti di Cadorago portavano lassù refe e teletta acquistati a Milano, vino e vetriolo comprato a Pavia, e riportavano verso Milano bastoni di corniolo (con trasbordo in barca da Lugano a Capolago), che vendevano ai mugnai lungo il Lambro, per rifare i denti agli ingranaggi dei mulini. Derivava da questa pratica il modo di dire dialettale in uso tra i mugnai: san cumè un curnàa, sano come un corniolo.
Mario Mascetti