Sì, "a Cuncàgn anca i murùn fan l'üga".

Così si diceva dalle nostre parti. Anche se evidentemente la vite era arrivata molti secoli prima dei gelsi. Certamente la vite per produrre uva da vino era coltivata nei nostri paesi già in età romana. A quel tempo non si usavano damigiane di vetro per conservare il vino, bensì anfore di terracotta. Se ne sono trovate parecchie, reimpiegate come vasi cinerari per seppellire i morti. Addirittura se ne sono trovate col collo segato (a Pedrinate e a Olgiate), per inumare il cadaverino di bambini. Erano circa 2000 anni fa. La produzione di vino è proseguita nel Medio Evo. Basti dire che un documento dell'anno 864 registra tra le entrate che il monastero di S. Ambrogio di Milano riscuoteva ad Albiolo, appunto due anfore di vino, pagate da un certo Fulcherio. Gli Statuti di Como del 1335 fanno obbligo ai comuni di tenere le unità di misura per le granaglie (un quartaro) e per il vino (una brenta). Questo obbligo era previsto anche per tutti i comuni della pieve di Uggiate; ma non per Campocagnio, ossia Concagno, che doveva tenere solo il quartaro e non la brenta: segno che qui di vino se ne produceva poco, come si vedrà. La brenta comasca equivaleva a poco più di 89 litri. Il vino, insieme con le granaglie, ha continuato ad essere richiesto dai padroni ai loro contadini fittavoli, per l'affitto dei loro beni, come è registrato nei libri dell'estimo rurale fatto fare dal governo spagnolo, che dominava sullo Stato di Milano, nel 1592. Con l'elaborazione dei dati contenuti in quei libri fiscali è possibile calcolare quanti ettari di terreno dalle nostre parti fossero coltivati a vigneto, e quanto vino si produceva alla fine del secolo XVI. Nella zona collinare appartenente alla pieve di Uggiate, su 5.100 ettari di superficie totale, più del dieci per cento, vale a dire 533 ettari, erano piantati a vite. La produzione era di circa 6.472 brente, equivalenti a 5.812 ettolitri. Più specificamente a Concagno si coltivavano 4 ettari di vigneto, con una produzione annua attorno ai 18 ettolitri. Quanto ai paesi immediatamente confinanti, Albiolo ne produceva 98 ettolitri, Cagno 270 ettolitri, Solbiate 149 ettolitri. La zona collinare più interna della pieve uggiatese era quella di maggiore produzione: ad Uggiate si pigiavano più di 540 ettolitri di vino, a Trevano 577, a Ronago 592, a Drezzo 455, a Paré 381, a Gironico addirittura 771. Che vino era? Era il cosiddetto "nostranello", più comunemente detto "ciarét", ossia vino chiarello. A parte il consumo familiare, metà andava via come affitto ai padroni; e in parte, chi ne produceva molto, lo commerciava in città. Nei registri della Fabbrica del Duomo, che annotano i pagamenti alle maestranze di muratori e scalpellini, si trovano segnate anche botticelle di ciareto appunto, date, ad esempio, allo scultore e architetto Tomaso Rodari, direttore del cantiere. Sulla produzione si pagava al Comune di Como un dazio, che era chiamato il dazio dell'imbotato; e in più si pagava "il baggio" su quello che si portava in città, magari con le bigonce portate a spalla in bilico su un bastone: il baggio, appunto. Per questo "pagà 'l bagg", "pagare il baggio", che valeva specificamente per il vino, è un modo di dire che è poi stato esteso, nella parlata dei paesi di frontiera, a significare genericamente il pagamento di qualsiasi dazio. Il prezzo oscillava da un anno con l'altro, in rapporto all'andamento dell'annata e alla richiesta. Negli anni di abbondanza o di scarso consumo lo si pagava anche solamente 6 lire alla brenta, come è successo nel 1630, anno della famosa peste manzoniana; ma negli anni di bassa produzione e alta domanda il prezzo poteva salire anche fino a 15 lire alla brenta, come è successo, ad esempio, nel 1613 e nel 1633. Nel 1610 lo si pagò addirittura 20 lire alla brenta. E per stabilire il prezzo sul mercato locale (anche per le granaglie) si faceva riferimento a quello che l'Ospedale S. Anna praticava sui prodotti dei suoi fittavoli. Della metà del Settecento si trovano deliberazioni dei nostri comuni, che imponevano di vendemmiare solo uve ben mature, e perciò si stabiliva di non cogliere i grappoli per la vinificazione prima del 4 ottobre; perché diversamente il vino prodotto con uve troppo acerbe nuoceva alla salute. La viticoltura nostrana è stata in auge fino alla metà dell'Ottocento, ed in parte anche dopo, visto che un certo Antonio Nessi nel 1880 costruì al Roncaccio di Ronago quella che egli chiamò la "Masseria del Sole", dove si raccoglievano le uve del circondario e si produssero fino al 1900 circa 300 ettolitri di vino prevalentemente rosso, con un po' di bianco. Poi a cavallo tra Ottocento e Novecento la viticoltura è crollata a causa della malattia della fillossera, che colpì tutti i vigneti. Né valse ricorrere alla solforazione, o al rinforzo dei vitigni con l'innesto sull'uva americana, a tenere in vita la tradizione. Intorno al 1910, poi, una legge che estrometteva dal commercio i vini che non avessero almeno 10 gradi alcolici (per sostenere la produzione meridionale, in crisi per la "guerra del vino" dichiarata dalla Francia con forti dazi sui vini italiani), diede il colpo di grazia. Di quel passato resta la testimonianza superstite di qualche antico torchio, come quello ancora conservato nel cosiddetto "castello" di Trevano. In ogni paese, si può dire, c'era almeno un torchio. Fu allora che i moroni, ossia i gelsi, cominciarono a fare l'uva. E fu perché le viti, ormai non più potate regolarmente, cominciarono ad arrampicarsi tra le frasche dei gelsi, che erano piantumati tra i filari e facevano da sostegno, ed anch'essi ormai non erano più curati per fare foglia da dare ai bachi da seta. Perciò dai rami dei moroni su cui s'arrampicavano i tralci, pendevano i grappoli, e la gente si trovò meravigliata a scoprire che "anca i murùn fan l'üga". Un detto, dunque, che non esprime un apprezzamento di abbondanza, ma tristemente registra la fase di progressivo abbandono delle tradizioni agricole tipiche un tempo della nostra zona. Mario Mascetti