TEULADA tra storia e leggenda
Uno studio di OVIDIO ADDIS
Supplemento al n° 5 de “IL NUOVO SOLCO”
Poesia, dramma e storia della toponomastica sarda,
Trilogia Teuladina: Tuerra – S. Isidoro – Pere Portas.
LA LEGGENDA
Chi sulla via di Teulada venga dal Sulcis a “Sa Portedda”, giù di lì vedrà un tratto di mare e una torre bianca; la rada di San Giovanni del Budell o del Budello, orribile etimo spagnolo di particolarità anatomica trasfigurata nella toponomastica per determinare, la realtà geografica di una foce che, prolungandosi, si trasforma in angusto ancoraggio. Più vicino, a valle, un’oasi fra colli crespi di macchia, il lionato torracchione e la chiesa di Sant’Isidoro, nella “Tuerra” di Teulada. E S. Isidoro, Tuerra, Teulada sono inscindibile realtà geografica e umana fatta di storia, di religiosità, di lavoro, di colore e gusto spagnolo. Tuerra è la “tierra” il terreno squisitamente fertile; Teulada la conclusione etimologica della storia di una popolazione con molta terra e instabile dimora; S. Isidoro, in espressione di torre chiesa e culto, e infine, simbolo di continuità, su vecchio ceppo, di una irrequieta vicenda.
Per il teuladino, Tuerra senza “Santu Sidoriu” sarebbe inconcepibile ed in questa coscienza vive inavvertito un mito, avvertibile una tradizione.
Quando la tradizione si estrinseca e si celebra nel culto, la festività è anche memoria a mezza strada fra storia e leggenda, voce che il passato ci trasmette, una o due volte l’anno, sempre uguale come una preghiera, un lamento, un monito.
I teuladini sono fedeli a S. Isidoro: lo solennizzano a Maggio per impetrare acqua pascoli vino; a Settembre per rendergli grazie in proporzione alla felicità del raccolto.
Chiesa e torre sorgono in clivo agreste: intorno è il verde chiaro dei canneti e il verde cupo di Monte Aidu selvaggiamente scosceso per crode di graniti dove nidifica l’aquila, per botri dove grufola il cinghiale, per balze dove si inerpica la strada romana, ancora – qua e la – segnata da profonde tracce di secoli e di palustri. In cresta, il nuraghe di guardia sul mare e già voli, voli e stridio beffardo di uccelli di rapina e gloglottio voluttuoso di tortorelle chioccianti. Il resto sembra arso.
La chiesetta, una delle tante chiesette campestri, e la torre sono in una radura vasta come una tanca e disseminata di rovine e frammenti fittili di tutte le età. Vi rameggia il caprifico, l’albero che prospera fra le macerie forandone con radici prepotenti la friabile malta fra pietra e pietra, alla ricerca della terra umida e disossata delle fondazioni.
L’archeologo lo trova sempre nei luoghi dove fu vita. E a S. Isidoro, tra i caprifichi, rimane nella solitudine mai placata se non per pochi giorni l’anno, ignorato e odorante di “ramatura”, del profumo vizzo della fiorita dell’ultima festa.
Alle pendici, le strade fuggono verso il mare; e con le strade gli uomini. Per la torre, solo un’occhiata di curiosità; per S. Isidoro: un qualche segno di croce.
Torno dopo molti anni alla sua ombra, dove, adolescente, andavo ad intendere la leggenda. Ma oggi, per rilevare dell’altro: la realtà, le voci non del tutto spente; per avvertire la vita che fluiva tra le mura diroccate e che ancora entra ed esce dalle aperture senza imposte; Per cogliere i fremiti di (……..) imitati dalle cicale, da muggiti lontani, dalle mille altre voci a cavallo del vento, come a cavallo del vento vi molleggiano, librati in coppi, i falchi nell’aria viva e scintillante.
Tutto risorge nell’animo che nulla sa di quanto – da allora – vi è di mutato, e quasi sgomento mi ritrovo vagante in quelle antiche età. Il tutto riconosco ascoltando e guardando con pupille dilatate e fatte esperte sui ruderi e sui frammenti: preghiere e litigi, gioianze e lamenti, apprensioni ingiunzioni ordini come quando risuonava lugubre il nicchio del murice, “su corru marinu”, al bordeggiare prossimo, alle accostate dei feluconi moreschi, e si levava il grido “Salva Cristianu!” che andava di colle in colle con fumate dalle torri rilucenti nelle notti traditrici.
Riconosco le scale e quasi conto i gradini; le camere, i sotterranei, i bastioni, e so dove la lucerna alimentata dall’olio di lentisco dava fioca luce alle scolte e all’alcade. Oggi, la stessa luce per diversi occhi, la stessa fioca luce che rischiara i ricordi e ravviva visi che il tempo fece impallidire col pallore della morte.
Il tempo passato ci giunge sempre stanco, spesso sulle ali della leggenda e con cose dette da tutti i morti prima di morire, dall’uno all’altro, fino ad oggi. La leggenda narra ………….
In un tempo lontano la torre di S. Isidoro era parte domestica del castello di Pere Portas, re di Teulada, padrone di mille servi e di mille armenti, signore di tutta la Tuerra feconda e opima, di tutto il mare e di tutte le terre da Capo Spartivento a Capo Teulada. Scaltro come la volpe, avaro, violento e perfido desolava il popolo. I suoi avi, giunti da Genova al tempo del re di Sardegna, soldatelli, trafficanti o equipaggio da sentina, divenuti mercanti arrichirono ed ebbero potenza dopo aver messo con inganno e con frode numerosi paesi a saccomanno: “hiant postu in terra centu biddas”.
La gente ne tremava: sola salvezza, la fuga in altri regni; solo sfogo, la soddisfazione del danno e della beffa che il tiranno pativa quando dall’Africa venivano i Mori. E i Mori pirateggiavano ogni settimana nella buona stagione, qualche volta durante l’inverno; due volte in una notte di Natale.
Pere Portas fece allora costruire torri nei luoghi dove i corsari erano soliti riparare; ma essi continuavano a fargli dispetto. La gente se ne rallegrava. L’empio re viveva vedovo con l’unica figlia di cui non conosciamo il nome, nel castello di Pere Portas.
La leggenda spesso non tiene conto dei particolari; chiude nel forziere del mistero nomi e date, si preoccupa solo di dare luce agli occhi e caldo al cuore dei suoi personaggi. Come la poesia.
La fanciulla languiva in solitudine e senza amore.
Ci sa: talvolta dall’alto della torre avrà anche vagheggiato una vela di feluca e gli occhi accesi di un bruno comandante mussulmano, di un rais.
Del resto, le voci che venivano dall’Africa non erano, poi, tutte sconfortanti: molti sardi da schiavi divennero governatori e capitani, molte sarde regine, favorite e danzatrici.
Il fascino dell’esotico e del forestiero ha sempre profondamente turbato la femminilità isolana fino all’assurdo, spesso con infauste conseguenze, e la storia dei giudicati e scossa da tanti e tali sinistri motivi.
Tuttavia, ai timori della pirateria si erano abituati un po’ tutti, e, un po’ tutti ne commisuravano coscientemente gli orrori predicati dai Padri Mercenari per sollecitare l’obolo della redenzione degli schiavi, per alimentare l’odio e per animare la lotta contro la burbanza corsara, nemica di Santa Fede Cattolica, e muovere, così, l’iniziativa privata e sopperirne la fievole intrapresa dei dinasti cristiani di Aragona e di Savoia.
La gente si abitua anche al timore, alla paura, e l’abitudine porta all’apatia. La figliola di Pere Portas, accompagnata dalle ancelle, andava spesso al mare; si era anche lei abituata al timore e fu volentieri imprudente. Il pirata era in agguato e la rapì. La condusse a bordo della feluca e la trattò senza onta ne villania.
Era molto bella e il Rais pensò di farne dono al suo potente Signore, il Bey di Tunis.
Anche allora, ed anche in Africa, la grazia si otteneva per doni e salire in favore era privilegio dei sensali. Oggi una mezzania, una automobile, un elettrodomestico; allora una fanciulla, un cavallo, uno schiavo. Non è vero che i tempi hanno cambiato di molto l’anima dell’uomo e il cuore della donna. E così, con ogni riguardo, la figlia di Pere Portas giunse in Africa dove, per caso, fu dall’Ambasciatore di S. M. il Re di Spagna, vista sbarcare.
Tenerezza e pietà mossero il giovane che subito ne trattò il riscatto. La fanciulla però era troppo bella; ed era figlia dell’implacabile mortale nemico dei Saraceni, edificatore di torri, difensore della costa sarda, seviziatore di moreschi catturati. Odio e amore ne impedirono la liberazione e la nobile fanciulla fu destinata, gemma nell’harem beycale, agli amori stanchi di un vecchio innamorato.
La leggenda è più cortese, garbata e delicata della storia. Non ci dice neppure come l’ambasciatore iberico riuscisse a rapire la nobile prigioniera e come a portarsela in Ispana dove tutto si concluse lietamente in una chiesa moresca di marmo ricamato. Intanto Pere Portas per la beffa patita, morì di crepacuore. I vassalli ne gioirono.
La campana di S. Lucia, l’antica chiesa di Teulat, aveva appena smesso di suonare a doppio, gli eredi dei Portas, i nobili sposi, giunsero nel loro regno. Esultanza, festa, tripudio per quindici giorni e quindici notti con danze, canti, messe, festoni e stendardi; gare d’armi, di corsa, di virtuosità, fuochi tanti, tanti e ognuno di quaranta carri di legna, che ne fu illuminato il mare sino all’Isola Rossa. L’Isola Rossa non apparteneva, però, a Pere Portas, come oggi – dice il Principe d’Altavilla – non appartenga all’Italia.
I “Basonis”, i mandriani di cavalli, cantando, facevano fare evoluzioni alle cavalle indomite e col solo canto domarono mille puledri in un giorno. Mille cavalieri con daga, archibugio e giustacuore rosso con molti bottoni d’argento, balzarono in sella per fare guardi al castello degli sposi perché il pirata non tornasse a portare il dispetto e la rivalsa del vecchio Bey scornato. E il pirata non tardò: i mille cavalieri guidati da Antioco Angioni “S’assogadori” o dal certo laccio, col laccio lo catturò e rimanendo staffato, trattolo in groppa, gli spezzò la schiena trattolo sull’arcione. Era tanto forte che con una stretta di mano sui due apici, spezzava un ferro di cavallo. Era tanto infallibile nel tiro che colpiva “a palla sola” una pernice in volo.
I mori erano molti e molti: trenta galeoni pieni. Lo scontro avvenne attorno a “sa rocca de su giardinu”, un enorme monolito granitico alle pendici di Monte Aidu, in vista della torre. Corvi e avvoltoi volteggiarono per un mese sul vasto carnaio. I superstiti nemici furono condotti a Cagliari e chiusi nella torre dell’Elefante. Per riconoscenza, la regina eliminò molte angherie addirittura tutte quelle che gravavano sugli ortolani. A ricordo, però, della sua signoria, conservò la tenue “portadia” annuale di sei meloni e sei zucche per ogni ortolano. “Se il Re lo vuole, lo comandi” così fu facile al cavaliere spagnolo cambiare molte cose per farle spagnole.
Disegnò il nuovo costume e non dimenticò il sombrero e l’alto colletto candido e decorato come un bassorilievo; bordò di rosso i pantaloni neri accorciandoli a campana e, per essere più eleganti, vi aggiunse tante pieghe come un faraiuolo. Cinta, corsetto, camicia, sono accordi di colore, di proporzione, di buon gusto. Da allora, questo fu il costume teuladino, molto diverso dal costume del Sulcis. E il costume e il barone insegnarono al teuladino a differenziarsi ed a considerare una sottospecie il suscitano, “su Maurreddu”, dalla parlata dura e calcata. E’ il particolare deleterio delle popolazioni che subirono il feudalesimo spagnolo.
Il costume della donna fu disegnato più ricco e più elegante, con fibbie d’argento e fiocco verde alle scarpette, con calze bianche e molti particolari di colori, ricami, broccati e frange d’oro. Tante altre cose furono cambiate perché non erano spagnole; anche i santi, i monaci ed i frati che lo spagnolo non comprendevano.
Santa Lucia siracusana era molto vecchia; e non sapeva difendere gli uomini dai pirati, dalla brina gli orti, le messi dalla sete, doveva anche lasciare il posto al madrileno Isidoro, canonizzato di fresco, assieme a molti altri spagnoli, da Papa Gregorio. Tanto nuovo che il suo simulacro vestiva come vestivano i suoi fedeli. E poi: se le sorgenti della terra avessero inaridito, solo Isidoro sapeva – e bene – aprire quelle del cielo nascoste tra le nuvole; (………) e soltanto uomo, avesse saputo, toccandolo appena, trarre acqua dal sasso. Il 15 maggio si celebra la festa per la pioggia; il simulacro si conduce in processione e S. Isidoro da acqua ai suoi fedeli e, a settembre, molto vino. Di sete i teuladini ne hanno avuta sempre tanta e costruirono una chiesetta tutta per lui e tutta nuova ai piedi della torre: per proteggere la Tuerra. Ma essi amavano anche S. Lucia, perché anche con i suoi occhi spenti vedeva lontano, oltre l’orizzonte. All’apparire delle vele ottomane, gridava a Dio ed agli uomini “Salva Cristianu!”. L’allarme balzava da cristiano a cristiano dalla costa al monte e i cristiani si salvavano nei boschi.
Solo per questo, Lucia fu lasciata nella vecchia chiesetta; ma sempre più sola, sempre più abbandonata perché i pirati non ebbero più navi per venire a Teulada.
Poi, dal cielo “s’annu de su fammini”, e dal mare la peste: molti morivano e non bastò tutta la calce del regno per coprire i morti. I superstiti lasciarono Teulat, trasportarono in mezzo ai monti le loro cose e fondarono una terza Teulada: a un’ora di strada a cavallo.Ma erano pochi, molto pochi. Per ripopolare, il Re di Teulada diede asilo a ladri e bravacci, ai perseguitati dagli uffiziali di giustizia dell’isola intera.
I malandrini erano molti, tanti che per farli pregare fu costruita una chiesa più grande delle chiese di S. Lucia e di S. Isidoro messe assieme. In Tuerra rimase: la torre per proteggerli in terra, Isidoro e Lucia per proteggerli in cielo; e un eremita per tenere accese le lampade. L’eremitano era un santo e fece questo presagio: “Il giorno che cadrà la torre, cadrà il regno e finiranno i baroni; il giorno che cadrà la chiesa di S. Lucia, affonderanno le navi dei pirati”. I Teuladini impararono il presagio a memoria come il catechismo, e lasciarono cadere chiesa e torre. Mai leggenda fu meno storia e più poesia; e di tutto questo nulla più.
Il maestrale, il vento che viene da Carbonia con lezzo infernale di zolfo bruciato, quello che brucia i virgulti degli agrumi, le gemme della vite e la giovane flora umana, spazzò via tutto: anche la leggenda.
Io l’ho raccolta molti anni fa, dagli ultimi, dai più vecchi, e ve l’ho voluta raccontare perché bella, perché vive nel mistero e finisce e si perde dove comincia la storia; dove iniziano le vie della speranza che, a loro volta, si perdono nelle caligini del futuro.
LA TRADIZIONE
La leggenda non ha più nulla da raccontare; e nemmeno la storia; perché non si è mai interessata a Teulada. In paese sapeva scrivere soltanto il notaio e il prete e, non certo, per stendere cronache. Se però il Teuladino non sapeva scrivere, ben sapeva cantare e raccontare e tanto allegramente raccontare che, anche oggi, quando non può ridere degli altri, ride – e molto – di se stesso. E colpiva giusto, tutte le volte che accoccava nomignoli e creava toponomastica: il documento più duro a morire.
Narra la tradizione:
Da Teulat, con le cose fu traslata anche la croce giurisdizionale della parrocchia abbandonata: una croce trifogliata di granito rosa tutta margheritine e pizzi su soppedaneo sferico che porta un faccione paffuto di sole ridente irto di fiamma nell’uno, e colomba in quiete nell’altro emisfero. Tutta di gusto bizantino. Fu collocata nel nuovo sagrato e vi rimase fino a metà del secolo scorso. Poi fu trasferita in cimitero per tutelare le memorie e i morti che non seppero scrivere. Ma non si seda più oltre alle intemperie, tanto non vi sono più ne vecchi morti, ne memorie da custodire. Per necessità di spazio i morti si alternano nelle fosse come i passeggeri in un albergo. Chi non paga, violentemente scosso, al risveglio viene buttato fuori senza misericordia. Chi paga non viene disturbato e il prezzo va al tesoro della comunità dei vivi. Una volta il culto dei defunti era il termometro della civiltà di un popolo: lo dicevano e lo cantavano filosofi e poeti. Allora, però, si credeva nelle cose dello spirito: sinceramente, sebbene questo spirito nessuno avesse mai visto. Oggi, per abitudine di sistematica e di divisione del lavoro, si è specializzato anche l’affetto. Prima c’era la GENS, “sa genti mia”, con tutti i MANI e le divinità familiari, oggi non si va oltre il primo grado, e non sempre.
A Teulada il culto dei morti era particolarmente vivo anche nei malandrini di ripopolamento. Per i morti ebbero molte attenzioni, ma non tante quante per loro ne dedicava il barone. Egli – il barone – per farli pregare costruì la chiesa, per educarli fece venire i frati di S. Francesco, per tenerli buoni era arrivato “Su Buginu”, equivalente di impiccatore, in memoria del Conte Bogino, rigido domatore di insofferenti e bricconi (transeat l’anacronismo).
E così, furono edificati i primi monumenti: chiesa, convento, forca e cimitero, l’”almazen” o magazzino delle decime parrocchiali e baronali. La chiesa dove oggi si trova; il convento e la chiesetta di S. Francesco in “Laus de arriu”, trans flumen, nei pressi e dietro l’attuale albergo turistico, dove si balla; la forca in “molinu”, in alto, per essere bene in vista. La pratica abituò i buoni a credere che una reliquia di corda d’impiccato portasse fortuna ed evitasse al pio l’eventualità di diventarne pendaglio. La gente diceva che se la fune si fosse spezzata, il reo sarebbe stato graziato. A Teulada, però, nessuno ricorda precedenti di tale giurisprudenza: il barone aveva prescritto il canapo a triplice ritorta. I frati avevano anche la triste incombenza di assistere i destinati al capestro, cui era concesso trascorrere l’ultima notte in San Francesco dove la pubblica carità portava cose buone e biscotti: per svagarne la trepidazione e rinverdire la speranza di uno scorsoio fiacco o di un incapestramento incerto.
“Chi ti ponganta pistoccus in cappella” è un truculento augurio e suona eufemisticamente: “Che tu possa essere impiccato”.
All’ultimo impiccato è collegata – dice la tradizione – l’origine del punto di Teulada, il singolare ricamo di particolare bellezza e di particolare tecnica, noto agli autori di folklore e di artigianato:
Ziu Antoni Salis invaghì di una signora e il trasporto fu tanto impetuoso che forca, frati e reliquia di capestro nulla valsero per deviare eventi e destino. In una notte d’amore, i due decisero di “far fuori” l’altro, il marito della signora. Così avvenne, e tutto fu scoperto da un attento uffiziale di giustizia. Ziu Antoni trascorse la estrema notte in S. Francesco a pregare e mangiare biscotti. Il giorno successivo, compunto, salì il patibolo e, santamente – lo disse anche il confessore – trapassò. La signora, gestante, e buon per lei, fu dannata galera a vita. Nella noia della cella ricamava e ricamava; inventò il punto di Teulada ed elaborò una tale coltre, tanto bella, che la baronessa – avutala in dono – la graziò. E visse piamente molti anni ancora con ago e rosario nel ricordo dei suoi uomini, dei suoi affetti, delle sue pene.
La gente di Teulada venne, dunque, quasi tutta, da ogni parte dell’isola e come graziati e come “turraius”, alcadi cioè, artiglieri e soldati delle torri litoranee. Crebbero, moltiplicarono e molti prosponomi si rilevano dai “Cabreos” dei registri delle decime.
I magazzini delle decime erano le attuali alte e strette case di Virgilio Costa e Nino Addis, lunghe come un convoglio ferroviario. Per riempirle di decime e di primizie, i Teuladini dovevano pagarne molte: molte come oggi le imposte dell’esattore. Fra i prosoponomi dei Cabrei e dei registri ricorre spesso “Francau”, eloquente soprannome stabilizzatosi come cognome e significa “franco o graziato”. Erano i “fradis Francaus”, archimandriti di numerosi armenti, greggi e branchi che abbeveravano in “Funtana Crobeta”, situata nel rione omonimo dove abitavano. Questa fonte esiste ancora custodita in una edicola con volta a botte. Sul frontone è scolpita una data mutilata, leggibile sino a qualche decennio fa: 163.. Teulada, dunque, nel 1639 al più tardi, esisteva certamente nell’attuale sito.
E come c’era il rione di “Funtana Crobeta”, c’era quello “trans flumen” di “Laus de Arriu”, e quello di “Padenti Onu” o foresta buona: accogliente immediato rifugio nelle ore del pericolo. Una fitta boscaglia copriva le alture e le balze di ponente, ed i greppi fra cui è incassato un erto e stretto canalone. Il pirata non avrebbe mai potuto violarlo impunemente; ma le invasioni barbaresche impegnarono i Teuladini in una secolare lotta di difesa e molti sono gli episodi di fatti d’arme e molti i nomi di schiavi e di redenti, registrati dalle cronache, dalla tradizione, dai documenti.
Patrono di Teulada non è S. Isidoro, ma la Madonna del Carmine. Oltre il Patrono, ogni villaggio ha il suo Santo prediletto; anzi questa volta e a dispetto di ogni gerarchia, il popolo non tollera etichette ed imposizioni di precedenza. Il culto è slancio, fiducia, sincerità: e con la croce giurisdizionale, nella nuova Teulada fu traslato anche il culto di S. Isidoro, che, conservando in Tuerra chiesa e torre,divenne immagine di un mite custode della reconda genesi del villaggio.
La festività, quasi mutila memoria, tramanda, attraverso le consuetudini, voci incerte e fascinose, come incerte e fascinose sono le voci che si levano da un bassorilievo levigato dal passo del tempo.
L’antica festa di S. Isidoro è festa di pietà cristiana e di empietà pagana. Tre giorni di tripudio, di canti e di danze, di “cunzertus” e di campane, di spari e di urla fieraiuole; di imbandi…. ……gioni copiose per tutti, di libagioni intemperanti; tre giorni di colori, di cavalieri spericolati e di cavalieri infiorati, di “traccas” inghirlandate da selve di canne in fiore e risonanti di sonagliere triplici sulle giogaie vellutate di giovenchi di prima domatura. S. Isidoro, odorante di menta e mirto, viaggia in cocchio; un cocchio settecentesco tutto bianco, azzurro e oro, trainato da un giogo bardato di broccato e adorno di melangoli sulla punta delle corna che reggono, graziosamente elaborati, rotondi candidi pani di fior di farina. Poi, in apoteosi, il simulacro torna in parrocchia. A cassetta del suo cocchio, lento sovrasta una folla di teste e di fiaccole, lievemente traballante al ritmo delle sonagliere e del pigro incedere dei buoi alla stanga, fasciati come alcadi spagnoli. Per terra e per tutto il cammino una fresca odorante fiorita.
Fra gli elementi folkloristici e liturgici di particolare interesse il “Santu Cristus”: una croce astile d legno, simbolo della giurisdizione parrocchiale. Questa croce viene portata da tre obrieri equipaggiati e a piedi dalla parrocchia alla chiesa campestre: tutte le volte che vi si celebra la Messa. Finita la Messa, rientra perché non sarebbe riverente lasciare la croce giurisdizionale fuori parrocchia; e viaggia velata, perché peccaminosi o sconvenienti incontri non ne offendano la santità del simbolo.
Dell’antica, nella nuova festa è rimasta solo un’immagine sbiadita; ma per noi quella stessa di sempre, anche se attenuata, dall’aria lontana del ricordo come caligine tremula nella gran luce del meriggio; un ricordo che si riaccende al noto timbro della campana di S. Isidoro, che non disperde, ma viene assorbita dall’anima e dal cielo. L’ultimo S. Isidoro si è fermato con i morti del Grappa, del S. Michele del Piave ……… oltre quarant’anni fa.
Però: sempre lo stesso simulacro, lo stesso cocchio, la stessa campana.
LA STORIA
Leggenda, tradizione e consuetudini non sono ancora storia: perché la storia, più riservata e meno poetica, registra solo verità. Tuttavia, nella ricostruzione dei fatti, da esse non può prescindere. Per Teulada, rare laconiche carte d’archivio sono il solo controllo consentito al desiderio di certezza storica. L’insieme architettonico della torre, della chiesa e i frammenti di tutti i tempi, sulla scorta di notizie colte, qua e la nella storiografia isolana, bastano per orientarci sulla vetustà del luogo. Questo e tutto l’altro, il materiale costituito di elementi religiosi e profani, di elementi leggendari e tradizionali, racchiude l’origine e la storia di una tormentata popolazione che non ebbe requie ne sede fissa: dalla romana Tegula, alla medioevale Teulat, alla moderna Teulada. Che cosa sia sparito, che cosa sia rimasto, come la leggenda sia riferibile alla storia, dirò in breve.
Esaminando queste povere fonti possiamo stabilire che Tegula fu centro romano e probabilmente, per la sua posizione geografica su rotte obbligate, già porto fenicio e punico. Che fosse romana lo dicono Antonino Geografo e Claudio Tolomeo ricordandola presso il Kersonnesus, l’antico Capo Teulada. E ce lo ha detto il geografo e storico Vescovo di Bosa, Giovan Francesco Fara attorno al 1570. Ma nessuno ne ha determinato con esattezza l’ubicazione. Gli storici posteriori ne discussero e, non trovandosi d’accordo, bisticciarono. Tuttavia, non c’erano mai passati: i tratturi sono faticosi. La storia però si attua all’aperto e si ricostruisce all’aperto e, per questo, i calzari chiodati stanno bene anche allo storico.
Reperti archeologici e fonti itinerarie dunque, confermano a chi su quei tratturi ha camminato che Tegula antica prosperava in “Zafferanu” presso il Kersonnesus della geografia antica e vicino alle cave di marmo pregiato già sfruttate dai romani. Non sappiamo quando Tegula sia stata abbandonata, ma come tutti gli altri centri costieri perdurò, forse, fino al primo periodo delle autonomie giudicali o comunque alla conquista araba della Sicilia, dopo la metà del secolo IX. Il territorio di Tegula era troppo esposto e povero, per motivi di povertà e di sicurezza la popolazione agricola e pastorale, a trasferirsi in luogo più sicuro alle pendici di un sistema montano boscoso e fertile: nel territorio di S. Isidoro.
Il primo documento che ricordi Teulada nella variante di Teulat, è il documento del 19 novembre 1355 di Alfo da Procida governatore aragonese di Cagliari. Egli nomina un Anthioco Desì de Villa di Teulata, esattore di derrate. Nello stesso anno fu data in feudo a Bartolomeo Cespujades, barone iberico che si distinse nella campagna aragonese per la conquista della Sardegna. Nel 1513 passò in feudo retto e italico a Franceschino Rosso morto senza discendenza. Da questa data sino al 1620 non si conosce altro che quanto risulta dalla Chorographia di G. F. Fara scritta attorno al 1570. Teulada in questo anno è già villa distrutta ed è localizzata presso la confluenza del fiume che viene dal Sulcis (Sa Stoia) e quello (Launaxi) che viene dal territorio di S. Ambrosu, presso il significativo toponimo “Sa Bidda Beccia” (villa abbandonata) erroneamente chiamato dal Fara, Monte S. Marco. Questa confluenza avviene presso S. Isidoro; i resti, peraltro, vi sono tutt’ora evidenti.
Dopo un lungo periodo di felice abbandono, Pietro Porta e la moglie Caterina Pintor acquistarono il territorio di Teulada in feudo ampio per sole tremila lire sarde nel 1610. Il prezzo fu tenue per molte sue benemerenze: costruì le torri Las Ganas, San Giovanni del Budel, Portu Scudu e introdusse nuovi sistemi di pesca del tonno e del corallo.
Nel 1620, morto Pietro Porta, l’unica figlia Caterina portò il feudo al marito Salvatore Sanna. Dopo il governo baronale del loro figlio Agostino, morto senza successione, il feudo, posto all’incanto dal Viceré Camarassa, fu venduto ad Antonio Catalan nel 1668.
I Catalan, Antonio, Serafino ed altro Antonio, continuarono a tenerlo fino al 1736. Con quest’ultimo la casata dei Catalan si estinse e la baronia fu devoluta alla sorella Maria Grazia sposata a Giovanni Sanjust. Dal 1736 si succedettero: Giovanni, Francesco, Enrico, Carlo e, da allora i Sanjust ne portarono il predicato. Per le note vicende per l’abolizione dei feudi da parte di Re Carlo Alberto, dal 1837 al 1839. Don Carlo ne fu l’ultimo Barone.
Se conosciamo il periodo baronale dei Cespujades, dei Rosso, dei Porta, dei Sanna, dei Catalan, dei Sanjust, nel feudo di Teulada come territorio, non possiamo dire con esattezza l’anno di abbandono di Teulat e della fondazione di Teulada villaggio.
La peste, forse, motivi di sicurezza e scorrerie barbaresche indussero la popolazione ad uno spostamento. Teulada è, così, da ritenersi centro di confluenza degli abitanti di Teulat e di allargamento di un primitivo nucleo donnicalese, durante il primo trentennio del XVII secolo, ad iniziativa del mercante cagliaritano Pietro Porta, il Pere Portas della leggenda, l’oriundo genovese. La datazione epigrafiva del terso decennio del ‘600 conferma, già in questo tempo, l’esistenza di Teulada moderna, così come l’andamento statistico dei censimenti, ne conferma il sistema di ripopolamento per franchigia ricordato dalla tradizione. Il censimento ordinato dal Viceré di Lemos nel 1652 porta, infatti, Teulada con 15 famiglie, quello del 1678 con 39 e quelli del 1688 e 1698 con 87 fuochi.
Un altro documento del 1600 parla della costruzione della torre di S. Isidoro ed è da ricollegarsi alla politica difensiva della prammatica del 1587 di Filippo II sulla costruzione delle torri litoranee “ a vantaggio della Cristiana Repubblica”, per tutelare pesca e commercio, agricoltura, pascoli e igiene. La nostra però non aveva altro che funzioni di rifugio per proteggere le improvvise temporanee invasioni. Aveva, inoltre, funzioni di allarme sulla via di Teulada; e come centro di trasmissione diurna e notturna di segnalazioni visive con fumate e luci, e acustiche col nicchio o col tuonare di una colubrina: tutto regolato e convenzionato. A seconda delle situazioni la gente fuggiva o si armava.
La colubrina era, fino a qualche decennio, abbandonata in “cocera”, termine spagnolo rimasto nella toponomastica teuladina ad indicare la rimessa delle carrozze e spesso tutta l’estrema area di levante del palazzo baronale. Nella nomenclatura è però termine sconosciuto.
La torre di S. Isidoro, a due piani senza terrazza, con sotterraneo e con scarpata sguarnita di cordone, era più precisamente una casa – forte. Altra – ma più modesta - è rimasta, ancora abitata, in Campionne, sempre in territori di Teulada. Nei pressi della torre di S. Isidoro, il 15 settembre 1628 fu combattuta, favorevole ai Teuladini, un’aspra battaglia.
Dice la cronaca: “ I barbareschi, molti per numero e per ferocia, si scontrarono con i Teuladini e di essi sperimentarono quale forza fosse in quei pochi. Finalmente avvenne che i medici desistessero e si ritirassero, inseguiti nella precipitosa fuga. Perivane gran numero presso lo stagno, il porto e il mare”. La battaglia della leggenda?
E così si ricorda il colpo di mano saraceno alla casa – forte di Campiona, andato però a vuoto.
Di proprietà baronale, la torre era e fu attiva fino al 1867, anno in cui si compì il destino di tutte le torri costiere. Prima e dopo questo anno vi soggiornava un eremita, sacrista e custode della chiesa contigua. Un cabro o registro d’amministrazione ricorda che S. Isidoro aveva cassa propria con tre chiavi e che da questa cassa fu una somma per l’acquisto di un cavallo e di molto tabacco per il sant’uomo.
Dopo la morte dell’ultimo “eremita”, la torre fu affidata ai priori, i quali vi pernottavano durante la festività. Poi, non restaurata, si rese inabitabile e le famiglie dei priori trasferirono, per passarvi la notte, le loro stuoie dentro la chiesa stessa.
Ogni torre ha la sua storia da rispettare ma – da buoni iconoclasti – non riflettiamo sulle rovine nemmeno per ammirarle da turisti. La nostra ha i fianchi squarciati dal fulmine e le pietre cadono, disgregandosi alle intemperie, senza misericordia divina né umana. E’ una delle poche case – forti dell’isola e dovrebbe essere restaurata, come ripristinata e riportata all’antica solennità dovrebbe essere la “Festa”. E non solo per il turismo, che di turismo Teulada può “farne” molto. Questa volta anche per la storia.
Di Teulada si è già interessata l’arte: per cogliere i colori dei suoi tramonti e delle sue primavere, l’esilità delle sue fanciulle, “i giunchi” di Remo Branca; il folklore, che pure non ne ha ancora colte tutte le sfumature nel costume, nei lavori di tessuto e di ricamo, e nei canti: mesti o dalle modulazioni dolci e suadenti come sussurro nell’intimità.
Si sono interessati anche i naturalisti per ricchezza di fauna e di flora, di marmi e minerali; i cacciatori per insigne varietà di caccia e di pesca.Teulada è sempre lì, ad attendere e, con loro, attende archeologi e speleologi. C’è interesse, e molto, per tutti.
L’ambiente geografico ne ha accentuato l’individualismo e l’isolamento ne ha favorito l’apatia. Ma un’apatia apparente che tende a scomparire nei periodi di ripresa economica e di rivolgimenti sociali.
I diaristi dell’ ‘800, e il P. Angius in particolare, nei Teuladini rilevano notevole rozzezza, semplicità pastorale, e in Teulada “una chiesa povera fino all’indecenza”. Ma allora non c’erano strade e le strade del mare erano incerte. C’erano però molti boschi, molto bestiame e molta caccia. “Is padentis” erano vergini perché il Conte di Cavour non era ancora diventato Ministro delle Finanze per dare il via alla scure dei “nefasti quattro B”: Beltrami, Bombrini, Barbaroux, e Bormida. E così, i boschi di Teulada come molti e molti altri boschi dell’isola sanarono le finanze piemontesi depauperate a Novara e arrotondarono i bilanci di Crimea e del prestito di Londra. Prestito che, salvando il Piemonte dalla dipendenza dei Rothschild, si tradusse in tasse, in gioie catastali e limitazioni di usi civici.
Tuttavia, i diaristi si accorsero che i Teuladini erano allegri, buoni, forti e animosi. Qualcuno li riscontrò pazzi, ma benevolmente: matti. E forse aveva ragione.
Una popolazione naturalmente gaia, dalle tradizioni assurde, dai contrasti esasperanti, dall’anima irrequieta, dal desiderio di ripresa, non poteva rimanere insensibile al vento di maestrale, quello che viene da Carbonia con lezzo di zolfo bruciato. Ma gia da qualche tempo prima, la solitudine e il silenzio erano stati turbati dai singhiozzi di molte mamme e specialmente di Zia Arega Frongia che pianse su tre figli caduti lo stesso giorno. Erano con “la Sassari” ed ora in Redipuglia insieme a tanti altri. E in tanti altri cimiteri di tutte le guerre, molte centinaia di lapidi ripetono il predicato “Teulada”, come molte vie di molte città d’Italia e molte navi che solcano il mare.
Oggi Teulada è un grosso e bel villaggio, gaio e accogliente e la sua chiesa non è più povera sino all’indecenza. Oggi il Teuladino è più aperto a idee nuove; e lo sarà di più, purtroppo, quando la “militaris licentia” che incombe da Capo Teulada a Sa Portedda, spezzerà i giunchi colorati da Mossa, Cabras e Biasi. Se però il Teuladino ha interrotto la strada e si è svegliato a mezzodì, egli ha per se le vie dei monti, i suoi pascoli, i suoi ulivastri, la Tuerra e le vie del mare, il mondo vicino e lontano: per vivere da uomo nuovo.
OVIDIO ADDIS