Il problema della  traduzione

 

 nell’antropologia culturale

 

di Franco Pelliccioni

(articolo pubblicato su Cimento, Roma, dicembre 1975, pp. 101-106)

 

[YanoÁma, HELENA VALERO]

 

1966 - 2006

QUARANTA ANNI DI PUBBLICAZIONI SCIENTIFICHE E DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA  

 

Il 19 novembre 1963, nell'Aula Magna del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Roma, venivano annunciati alla stampa ed al mondo della cultura i risultati della missione scientifica interdisciplinare italiana condotta in Sud America, nella foresta vergine equatoriale a cavallo tra il bacino del Rio delle Amazzoni e quello dell'Orenoco.

Mappa del territorio degli Yanoáma

Scopo principale della missione era quello di studiare una delle popolazioni più "primitive" del globo, i nomadi cacciatori-collettori Yanoama (etnonimo che significa letteralmente: "quelli del villaggio"), che praticano anche delle elementari forme di arboricoltura e di "agricoltura".

I risultati conseguiti erano stati veramente notevoli, sia dal punto di vista antropologico, che da quello biologico. La spedizione, oltre che dal Prof. Biocca, parassitologo dell'Università di Roma, capo dell’équipe, era composta dal Prof. Baschieri (biologo), Mangili (antropologo), Ponzo (psicologo), Bagalino (tecnico parassitologo), Melo (tecnico zoologo e taxidermista) -, nondimeno essa non avrebbe avuto lo scalpore che ebbe sui principali mass media (radio, televisione, stampa), che in quell'epoca se ne occuparono in maniera così capillare da far immediata presa sul grosso pubblico, se non fosse stata diffusa contemporaneamente un'altra notizia molto più sbalorditiva e, potrei aggiungere, senz'altro eccezionale.

Questa notizia riguardava la vicenda personale di una donna di lingua spagnola che, rapita venti anni prima da un gruppo Yanoama, quando ancora era una bambina, era riuscita fortunosamente e dopo svariate peripezie a fuggire ritornando al mondo dei bianchi.

Il successo della missione doveva essere attribuito, e lo riconobbero gli stessi membri nei loro scritti, proprio a quella donna, l'Helena Valero, che è stata l'inconsapevole filo conduttore di tutta la doviziosa ricerca sul campo tra gli indios dell'Alto Rio Negro, proprio per mezzo del suo racconto sulle eccezionali e straordinarie esperienze di vita avute tra quegli indios.

A distanza di ben dodici anni da quella conferenza al CNR, ho sentito il bisogno di interessarmi di quella vicenda, non per tracciare un profilo etno-antropologico sugli Yanoama, del resto studiati, oltre che dal celebre scienziato tedesco Koch-Grünberg, anche dal francese Gheerbrant, dalla missione scientifica Frobenius composta da Zerries e Schuster, dall'italiano Alfonso Vinci, nonché dagli stessi autori della missione Biocca-Baschieri, i quali hanno avuto modo, come è logico, di scrivere ampiamente, e con particolare competenza, sugli Yanoama. Basta ricordare, in proposito, la voluminosa opera del Biocca in quattro tomi intitolata Viaggi tra gli Indi, che comprende anche il resoconto scientifico del primo viaggio dello studioso tra gli indios Tukâno, Tariâna e Baniwa, sempre dell'Alto Rio Negro.

Tra l'altro è questa una ben precisa digressione da quello che oramai è divenuto il mio precipuo campo di interessi, e cioè l'etno-antropologia dei popoli africani a sud del Sahara. Tuttavia il mio interesse giovanile in quell'epoca era quasi tutto rivolto verso quel caleidoscopico mondo rappresentato dai mille gruppi indios della foresta amazzonica e del Mato Grosso, un mondo per me ancora quasi misterioso e da esplorare passo per passo, e che racchiudeva "in nuce", forse, quelle avventure e quei personaggi fantastici tipici degli scritti di un Salgari o di un Verne, che mi avevano poco tempo prima entusiasmato. Un mondo immaginario ed attraente per un adolescente, e che pure per me era un'inconfondibile realtà esistente tra le immense foreste e gli impetuosi fiumi del Sud America, un mondo pieno di insidie ed intriso di innumerevoli difficoltà, che rendevano l'esistenza precaria ma, ciò nonostante, degna di essere vissuta interamente. Un mondo che mi aveva ammaliato irresistibilmente.

Mi ricordo che in quell'epoca ebbi una speciale autorizzazione dal Prof. Baschieri, direttore dello Zoo di Roma, onde poter ammirare e curiosare con l'entusiasmo e l'esuberanza, non scevri da una forte dose di improntitudine, caratteristici dell'età giovanile tra i reperti biologici che la missione aveva raccolto ed esposto, sia pure sommariamente, nel museo zoologico, allora chiuso al pubblico.

Successivamente i miei interessi, per svariati motivi, si sono diretti principalmente all'africanistica, anche se per ragioni di studio non è possibile, abbandonare del tutto lo studio delle altre aree culturali. Infatti è stata la recente opportunità di leggere il resoconto della vita della Valero tra gli Yanoama, cosi come è stata raccontata dalla protagonista al magnetofono al Biocca, il quale lo ha poi riportato nel volume Yanoama (Biocca, 1965), che mi ha dato lo spunto per spingermi a scrivere la presente nota.

L'intera vicenda della Valero è di per sé indubbiamente eccezionale, se non unica, anche se non escludo che in passato ci siano stati altri casi di rapimenti di bambini o bambine bianche da parte di gruppi indios. Per sommi capi ricordo che essa fu rapita nel 1937 all'età di circa dodici anni da un gruppo di Kohorosciwetari (appartenenti agli Yanoama), i quali avevano aggredito l'intero gruppo famigliare dei Valero nella zona del fiume Dimitì, affluente di sinistra del Rio Negro. Successivamente fu fatta prigioniera, tra alterne, e spesso dolorose ed imprevedibili vicende, da altri gruppi Yanoama, quali i Karawetari, gli Sciamatari, i Namoeteri (il cui tusciaua - capo - Fusiwe la prese in moglie e dal quale ebbe due figli). Dopo la drammatica uccisione del marito indio da parte dei Pisciaanseteri, ella riuscì a fuggire con i due figli, prima presso i Mahekototeri, poi tra i Punabueteri ove si uni nuovamente ad uno di loro, avendone altri due figli. Infine riuscì a fuggire con il suo ultimo compagno ed i suoi quattro figli, trovando rifugio in una missione.

Non è comunque l'aspetto umano di tutta la vicenda della Valero ad interessarmi tanto da sollecitarmi a stendere le presenti considerazioni. Ognuno di noi, penso, avrà motivo di riflettere leggendo la sorprendente odissea di questa coraggiosa donna, cosi come è stata esposta nel volume del Biocca: a volte potrà attirare la nostra più viva simpatia, come potrà farci esternare la nostra più profonda compassione per la protagonista.

Sappiamo che la principale difficoltà che incontra lo studioso delle culture "altre", il quale passa spesso mesi, o addirittura anni della sua vita, con i membri del popolo oggetto particolare delle sue attenzione, è rappresentata dalla "traduzione" che però non si limita semplicemente ad interessare il solo mezzo linguistico.

Alla mancata conoscenza della lingua parlata nella comunità che si vuol studiare è possibile, infatti, ovviare mediante l'ausilio di un interprete locale. Del resto essa potrà essere gradualmente appresa durante il periodo stesso della ricerca sul campo.

L'aiuto dell'interprete è, però, relativamente importante, anche, perché ove non esista una palese mala fede, egli può "rilevare al ricercatore soltanto ciò che le persone pensano che accada o debba accadere (o eventualmente solo ciò che essi vogliono che lui pensi che accada)", come sottolinea l'antropologo sociale inglese Beattie, e non ciò che accade realmente (Beattie, 1973:124).

E' lapalissiano che è privo di ogni fondamento di verità ciò che l'informatore o l'interprete riferisce all'antropologo al solo scopo di fargli un piacere (ciò può succedere, a volte, quando è lo stesso studioso che aveva già palesato all'informatore l'intenzione di provare sul campo qualche sua teoria), anche se empiricamente è assai difficile stabilire se un'informazione corrisponda a verità o sia un puro parto di fantasia. D'altronde è di importanza fondamentale, per lo studio di una cultura, operare una distinzione critica tra i vari livelli di pensiero dei membri di quella cultura, onde porli in relazione con quanto risulta apparire ad un osservatore estraneo competente, quale può esserlo un antropologo culturale.

Anche la più "primitiva" banda boscimane, o pigmea, ha una cultura che non è statica, "ferma nel tempo", o cristallizzata, bensì ha insiti determinati dinamismi culturali che continuamente, seppure in maniera graduale, ed a volte quasi impercettibile, operano costanti mutamenti e trasformazioni dei vari elementi culturali che la compongono. Non bisogna dimenticare, inoltre, che l'uomo, non solo è un portatore di cultura, il burattino di Leslie White che "fa, sente, crede, ciò che vuole la sua cultura" (White, 1969: 21), ma è anche, come ben sottolinea Bernardi, un creatore di cultura (Bernardi, 1974: 54 e segg.).

Per comprendere appieno i summenzionati dinamismi culturali, e gli eventuali processi di acculturazione in atto, è necessario stabilire prima di tutto ciò che gli appartenenti ad una cultura pensano debba essere fatto (i valori morali), ciò che pensano sia fatto (come essi immaginano se stessi ed il loro mondo), ed infine ciò che può apparire in realtà ad un estraneo.

Volendo compiere un'esemplificazione al riguardo, potremmo prendere una società di agricoltori africani che ha subito una brusca acculturazione da parte degli europei nella sua originaria struttura politica. Laddove un Paramount Chief è divenuto un semplice funzionario statale, con il suo stipendio pagato dal governo centrale, e le sue prerogative ben precise e codificate, e si è sostituito al paternalistico capo tradizionale (anche se l'uomo è magari sempre il medesimo), la realtà risulta indubbiamente diversa, mentre le idee dei membri di quella società, comprese a volte anche quelle del "nuovo" capo, potrebbero rimanere inalterate tanto da delineare uno stato di cose così contraddittorio, tale da essere fonte di conflittualità e tensioni, sia a livello di azioni, che di credenze e di valori. Il Malinowski aveva già ben rilevato circa cinquanta anni addietro, nel suo volume sulla vita sessuale dei selvaggi nella Melanesia Nord-Occidentale, come esistano delle profonde discrepanze tra ciò che rileva l'antropologo attraverso l'osservazione diretta ed attenta dei fatti culturali, non disgiunta da un'attiva partecipazione - ove possibile - dello studioso alla vita comunitaria (il metodo dell'antropologo culturale è, infatti, denominato "osservazione partecipante"), e quello che l'informatore gli riporta. Egli spiegava ciò con il fatto che

"l'indigeno nell'esporre la sua regola morale, la sua severità e la sua perfezione, non sta cercando di ingannare lo straniero. Fa semplicemente ciò che farebbe qualsiasi membro convenzionale con un minimo di amore proprio, appartenente ad una società ben organizzata: ignora i lati brutti e disdicevoli della vita umana, non tiene conto delle proprie manchevolezze né di quelle dei suoi vicini e chiude gli occhi davanti alle cose che non vuole vedere".

Come è evidente, quanto viene detto dall'indigeno del Malinowski corrisponde ai valori morali propri della cultura (ciò che si pensa debba essere fatto) anche se, in realtà, agli occhi dei suoi membri, come a quelli dell'antropologo, le cose risultano ben differenti. Il Malinowski aggiungeva, successivamente, come "nella vita reale le regole non vengono mai completamente osservate, e all'etnografo resta la parte più difficile ma anche la più indispensabile del suo lavoro, che è quella di accertare il limite ed il meccanismo delle deviazioni". E per giungere a questo il grande antropologo suggeriva come sia "necessario imparare a conoscere sul posto il comportamento dell'indigeno, e questo può essere fatto solo attraverso una conoscenza della lingua e un lungo periodo di convivenza con gli indigeni" (Malinowski, 1968: 387 e segg.).

Come si vede, il problema della "traduzione" negli studi di antropologia culturale è essenziale e di macroscopica importanza. Da esso derivano diverse altre problematiche, che hanno comportato teorizzazioni e sforzi dottrinari non indifferenti da parte di vari studiosi. Anche la summenzionata e perfetta aderenza del comportamento dell'"indigeno del Malinowski" alle regole della propria cultura ha, in passato, dato origine al mito del "Buon Selvaggio" di rousseauiana memoria, ed a tutto un filone di studi antropologici che vedeva i popoli "selvaggi" mantenuti in una condizione di ubbidienza servile, quasi automatica alla tradizione e alle usanze, a causa del timore dell'opinione pubblica o di punizioni soprannaturali" (Beattie, 1973: 238).

Il problema della traduzione comporta, inoltre, la "traduzione" di categorie concettuali diverse dalle nostre. L'antropologo, attraverso l'impiego della lingua della comunità che si vuol studiare, deve capire le categorie essenziali proprie di quella cultura, spesso diametralmente opposte alla sua.

Se prendiamo in considerazione i rapporti sociali derivanti dalla parentela, osserviamo che nella nostra cultura abbiamo tutta una nomenclatura e tutto un mondo concettuale che crediamo perfetto, di portata universale, pronto ad essere applicato su tutte le culture come un passe-partout. Ciò sarebbe un grave ed imperdonabile errore. Prendiamo in esame il nostro termine di "padre": noi sappiamo che esiste tutta una determinata struttura concettuale relativa a questo termine che raffigura "colui che ha dato i natali ad un figlio", e che quindi ha determinati e ben precisi diritti-doveri verso la prole. Il "padre" ha un proprio "status" riconosciuto dall'intera comunità ed esercita il ruolo che ne deriva.

Non è possibile traslare sic et simpliciter il concetto che noi abbiamo su ciò che è un “padre" per comprendere i rapporti padre-figlio esistenti in una cultura "altra". Esso va modificato, integrato ed adattato al caso concreto. Dobbiamo prima di tutto conoscere se quella comunità è fondata sulla discendenza unilineare o bilineare, se vi è la mono o la poligamia. Quest'ultima se è di tipo poliginico (un uomo con più donne) o poliandrico (una donna con più uomini). Ed inoltre se esiste o meno la norma matrimoniale sul levirato che fa in modo che, alla morte di una persona, il "fratello del morto ha il diritto, che è anche un dovere, di prendere la vedova di lui in moglie" (Bernardi, 1974: 256). A volte è invece il figlio di lui che "sposa" la donna laddove, in una famiglia poliginica, egli è figlio di un'altra moglie del defunto.

Da tutto questo insieme di istituzioni, della cui esistenza l'antropologo dovrà venire a conoscenza, ne deriva che il concetto di padre non è univocamente "sicuro" come nella nostra cultura, ma è pieno di sfumature e di "differenze" concettuali che sono valide e quindi applicabili, solo nell'ambito della cultura dalla quale provengono.

Così il padre può essere il genitor latino, e cioè il padre fisiologico, spesso distinto dal pater, e cioè il padre sociale. Nel levirato i figli del leviro sono figli del defunto (il pater) mentre egli è solo il genitor. Spesso viene anche chiamato padre il fratello del padre (il nostro zio), e raggiungiamo quello che potrebbe sembrare per noi un evidente paradosso con il padre "femminile" (la sorella del padre).

A questo punto ben si comprende come sia necessario capire e pensare in base a categorie concettuali diverse dalle nostre, operare un complesso lavoro di "traduzione" se vogliamo realmente conoscere i rapporti, le istituzioni, i modelli comportamentali di un contesto culturale differente dal nostro.

Ho iniziato questa nota parlando della Helena Valero e della sua straordinaria esperienza di vita tra gli indios Yanoama durata più di un ventennio. Dopo quanto ho esposto si può meglio capire l’importanza della sua testimonianza. Il suo lavoro di "traduzione" è infinite volte migliore di quello che potrebbe fare un antropologo che effettui una ricerca sul campo, anche se per un periodo molto lungo: "Nel capire culture diverse dalla nostra, come in tutte le attività umane, la perfezione è irraggiungibile. Un antropologo sociale che pretenda di aver capito a fondo una cultura a lui estranea o una lingua prima non conosciuta, si condanna da sé. Uno o due anni trascorsi in una cultura diversa da quella da cui proviene sono ovviamente un periodo del tutto insufficiente per un compito che può richiedere l’intera vita di un membro di quella cultura" (Beattie, 1973: 133). E la Helena Valero, anche se non possedeva alcuna preparazione scientifica antropologica (anzi, solo dei rudimenti di istruzione elementare), ha vissuto intensamente e per un periodo molto lungo le vane esperienze esistenziali degli indios, Yanoama tra gli Yanoama, eppure membro della cultura “occidentale". Ha sperimentato su se stessa le varie soluzioni che la vita presso quelle piccole comunità le offriva, ha potuto vedere e recepire quanto le accadeva intorno a sé senza la frapposizione di filtri voluminosi, e senza per questo abdicare completamente alla propria cultura (a distanza di più di venti anni conservava ancora un ricordo, seppure molto pallido e frammentario, della lingua portoghese e spagnola, e conservava ancora tenacemente diversi elementi della propria cultura, tra cui la religione).

Inconsapevolmente la Valero ha compiuto nel suo rapporto intimo e profondo con la cultura Yanoama una notevole operazione transculturale. Anche se risulta chiaro che la profonda importanza scientifica della sua testimonianza non possa - almeno all'epoca del suo colloquio con il Biocca - essere stata pienamente compresa nella sua essenza dalla protagonista, essa rappresenta un documento forse irripetibile.

Abbiamo visto in che cosa consiste il problema relativo alla "traduzione" in antropologia culturale, ed abbiamo visto come sia difficile renderla praticamente efficace caso per caso, cultura per cultura. E’ stato scritto che la "perfezione è irraggiungibile". Mi si potrebbe obiettare: “Riteniamo che ci siano anche stati etnologi ed antropologi culturali non occidentali che, studiando le proprie culture di appartenenza, abbiano portato un contributo competente ed efficace alla scienza. Non possono essi aver raggiunto l’optimum delle ricerche antropologiche, proprio perché membri delle culture da loro studiate? "

Quest'obiezione ha senz'altro un fondamento di verità. Da Peter Buck-Te Rangi Hiroa-, che è stato uno dei più profondi conoscitori della cultura polinesiana - era figlio di un neozelandese britannico e di una principessa Maori -, abbiamo avuto una qualificata schiera di etnologi, in particolar modo africani, che hanno apportato degli ottimi contributi alle ricerche etno-antropologiche. Ma, ricordando quanto ho scritto precedentemente circa i due livelli di pensiero relativi a ciò che si pensa debba essere fatto ed a ciò che si pensa venga fatto, in correlazione con la realtà così come è vista dall'esterno, si può dire in questi casi che, mentre abbiamo una perfetta aderenza alle idee ed alle aspettative proprie dei membri di quella cultura, ci troviamo invece di fronte ad una realtà che viene deformata proprio dall’osservatore, in quanto questi non è uno straniero neutrale, ma un autentico membro di quella cultura. E questo rappresenta un altro problema che, seppure morfologicamente diverso da quello che devono risolvere gli studiosi occidentali, è non meno grave. 

In conclusione la testimonianza della Helena Valero rappresenta un tesoro inestimabile sulla cultura Yanoama che è stato, e lo sarà ancora in futuro, di prezioso ed insostituibile ausilio, non solo per gli studiosi delle Civiltà indigene dell'america (gli "addetti ai lavori" nella fattispecie) ma, per quanto ho cercato di dimostrare nel mio assunto, anche per tutti gli etno-antropologi.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

John BEATTIE,Uomini diversi da noi. Lineamenti di antropologia sociale. Bari, 1973, pp. 405.

Bernardo BERNARDI, Uomo Cultura. Società. Introduzione agli studi etno-antropologici. Milano. 1974, pp. 424.

Ettore BIOCCA, Yanoama, Bari, 1965, pp. 364; Viaggi tra gli Indi, IV volumi. Roma, 1966. Mondo Yanoama, Bari 1969, pp. 333.

Peter BUCK. I Vichinghi d'Oriente, Milano, 1961, pp. 332.

Bronislaw MALINOWSKI, La vita sessuale dei selvaggi, Milano, 1969, pp. 439.

Alfonso VINCI, Samatari. Orinoco-Rio delle Amazzoni, Bari, 1956, pp. 392.

Leslie A. WHITE, La scienza della cultura, Firenze, 1969, pp. 390.

http://users.iol.it/f-pelli/f-pelli.yanoama.htm

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