Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca

Rapporto finale del Gruppo Ristretto di Lavoro

costituito con D.m. 18 luglio 2001, n. 672

Roma, 28 novembre 2001

Parte I

L’ipotesi elaborata dal Gruppo Ristretto di Lavoro (a cura di Giuseppe Bertagna)

SOMMARIO

Introduzione
Sommario del Rapporto
Significato e limiti del Rapporto
Materiali di lavoro
Realismo e innovazione
Prospettive
Dallo Stato alla Repubblica

Capitolo Primo -

I principi generali
Educazione, istruzione e formazione
Prospettiva prepolitica
Innalzamento della qualità
Equità
Pari dignità dei percorsi, a tempo pieno o in alternanza
Integrazione
Flessibilità
Armonizzazione europea
Scuola dell’infanzia
Scuola primaria, scuola media
La scuola secondaria
Il diritto-dovere all’istruzione/formazione obbligatoria
L’istruzione e la formazione superiore

Capitolo Secondo-

Analisi e commento dell’ipotesi
Finalità del sistema educativo di istruzione e di formazione: il controllo critico
Portfolio delle competenze
Valutazione e Servizio Nazionale per la Qualità del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione
I piani di studio
I piani di studio nel sistema di istruzione
I piani di studio nel sistema della formazione
Iniziative di sostegno all’azione dei docenti e delle scuole


Scuola dell’infanzia
Natura
Perché il credito formativo?
Organizzazione
Istruzione primaria
Natura
Organizzazione
Dall’istruzione primaria all’istruzione/formazione secondarie: significato di una transizione
Oltre la coincidenza tra la realtà e la sua descrizione
Consapevolezze della secondarietà.
Istruzione secondaria di I grado
Istruzione secondaria di II grado
Formazione secondaria
Natura
Tra domanda ed offerta.
Le aree professionali.
Tipologie dei percorsi.
Un’esemplificazione.
Tipologie di percorsi.
Formazione secondaria in alternanza .
L’accesso all’istruzione e alla formazione superiore: le attività propedeutiche
I compiti delle università.
Il coinvolgimento obbligato dell’istruzione e della formazione secondarie.
Vincoli analoghi per la formazione superiore.
La formazione superiore .
Natura.
Soggetti promotori.
Durata e organizzazione.
La formazione iniziale dei docenti.
L’accesso alla laurea specialistica in generale.
Pari dignità e complessità della professione docente.
Una laurea specialistica per l’insegnamento.
L’accesso alla laurea specialistica per l’insegnamento.
Il sapere disciplinare.
Le scienze dell’educazione.
Il Tirocinio in azione.
La carriera.
Lauree specialistiche e lauree specialistiche per l’insegnamento.
Quale profilo professionale?
Handicap e diversità per tutti.
Il problema della collocazione.


Introduzione

Il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, con decreto ministeriale n. 672 del 18 luglio 2001, ha istituito un Gruppo ristretto di lavoro (Grl) allo scopo «di svolgere una complessiva riflessione sull’intero sistema di istruzione e, nel contempo, di fornire concreti riscontri per un nuovo piano di attuazione della riforma degli ordinamenti scolastici, ovvero per le eventuali modifiche da apportare alla legge 30 del 10 febbraio 2000».
Il Ministro, alla luce del suo discorso alle Commissioni parlamentari, ha poi chiesto al Grl di procedere a questa «complessiva riflessione» e ad una ipotesi di «un nuovo piano di attuazione della riforma degli ordinamenti scolastici» tenendo conto, per quanto possibile e se condivise, delle seguenti raccomandazioni:

  1. ribadire il principio che il sistema di istruzione e di formazione del Paese è al servizio della società e del progresso economico se e solo se è primariamente al servizio della persona di ciascuno e mira al massimo sviluppo possibile delle capacità di tutti; in questa prospettiva va collocato l’obbligo di 12 anni di istruzione e/o di formazione per tutti;
  2. valorizzare ulteriormente il ruolo e la funzione educativi della scuola dell’infanzia valutando «se e in quale modo considerare la frequenza della scuola dell’infanzia triennale, che resta non obbligatoria e curricolarmente unitaria, come possibile credito ai fini del soddisfacimento di almeno un anno dei 12 di istruzione e/o formazione obbligatoria»; ciò anche allo scopo di non lasciare «minori» sul piano della qualità della formazione iniziale e della successiva carriera i docenti che insegnano in questo grado di scuola;
  3. ipotizzare un’articolazione unitaria della scuola dai 6 ai 14 anni che avvalori le specificità delle età evolutive della fanciullezza e della preadolescenza sul piano degli ordinamenti, del piano degli studi e dell’organizzazione del servizio; ciò significa promuovere, nella cornice ordinamentale della scuola primaria quinquennale e della scuola secondaria di I grado triennale, un piano degli studi unitario, continuo e progressivo organizzato in cicli biennali, dove si realizzi un più efficace raccordo tra l’ultimo anno della scuola primaria e il primo della secondaria di I grado e, nondimeno, tra l’ultimo biennio della scuola secondaria di I grado e gli studi liceali o professionali successivi, al fine di stimolare una spinta qualitativa verso l’alto dell’intero sistema di istruzione e di formazione;
  4. eliminare la cosiddetta «onda anomala» determinata dall’attuazione della legge 30 per i gravi problemi che essa solleva anzitutto sul piano educativo e metodologico, per gli alunni, le famiglie ed i docenti, e, in secondo luogo, a livello organizzativo, edilizio, finanziario, anche per lo Stato e gli Enti locali;
  5. progettare una scuola secondaria superiore di elevata qualità culturale ed educativa, prevedendo anche la possibilità di completarla con eventuali anni di specializzazione non universitaria;
  6. identificare la natura pedagogica, l’identità curricolare e la fisionomia istituzionale di un percorso graduale e continuo di Istruzione/Formazione secondaria e superiore parallelo a quello di Istruzione secondaria e superiore, dai 14 ai 21 anni, con esso integrato a livello di funzioni di sistema e ad esso pari in dignità culturale ed educativa, abilitato a rilasciare tre titoli di studio corrispondenti a standard nazionali concertati in sede nazionale (Qualifica, Diploma di formazione secondario, Diploma professionale superiore);
  7. predisporre piani di studio/standard nazionali obbligatori che, mentre rispettano forma e sostanza dell’art. 8 del Dpr. 275 e delle altre leggi ordinarie e costituzionali in materia, consentano più di ora sia percorsi e completamenti personalizzati da parte delle famiglie e degli studenti, sia una maggiore verifica comparativa nazionale dei risultati;
  8. dar corso ai punti precedenti avvalorando l’autonomia degli istituti del sistema di istruzione e di formazione, facendo sempre prevalere, sia sul piano delle verifiche dell’apprendimento sia su quello del soddisfacimento dell’obbligo per tutti i giovani di 12 anni di istruzione/formazione, i vincoli di risultato su quelli procedurali e di percorso;
  9. prevedere linee di formazione iniziale degli insegnanti in relazione ai cicli scolastici e di Formazione professionale ipotizzati.

Sommario del Rapporto.

Il Grl, per adempiere al mandato di studio ricevuto, ha proceduto lungo quattro direzioni di ricerca. Anzitutto, ha elaborato una propria ipotesi complessiva di revisione del sistema educativo di istruzione e di formazione (art. 1, c.1, legge 30/2000) che tenesse conto delle raccomandazioni del Ministro. In secondo luogo, ha voluto verificare la congruenza, i punti deboli e forti, la praticabilità e il consenso di tale ipotesi di revisione complessiva del sistema educativo di istruzione e di formazione attraverso lo svolgimento di Gruppi Focus e attraverso il confronto critico con sessanta consigli di classe e di istituto distribuiti, a campione, sul territorio nazionale. Le date e le sedi di svolgimento, l’elenco delle persone coinvolte e le sintesi critiche di queste audizioni sono riportate nel I Capitolo della Parte II del presente Rapporto. Sia i Gruppi Focus, che hanno visto ogni volta la partecipazione di opinion leader nazionali, di accademici e di rappresentanti del mondo della scuola e dell’associazionismo culturale e professionale (docenti, dirigenti e, infine, genitori e studenti), sia i risultati della consultazione dei sessanta consigli di classe e di istituto 1 hanno permesso di assestare in itinere, in base alle osservazioni ricevute, numerosi elementi di dettaglio e qualche tratto strutturale della ipotesi iniziale. Il risultato finale di questo lavoro di confronto è iconizzato nei quattro schemi allegati, uno di sintesi complessiva, gli altri tre dedicati al segmento secondario e superiore, schemi poi spiegati e giustificati nei due Capitoli che compongono la Parte I del presente Rapporto. In terzo luogo, il Grl ha preparato con l’Istat un’indagine che, con rigorosa metodologia scientifica, indagasse l’opinione di docenti, genitori e studenti sulle scelte qualificanti contenute nell’ipotesi di riforma nel frattempo messa a punto. Lo scopo assegnato a questa indagine non è stato ovviamente quello di ottenere elementi da utilizzare per il perfezionamento dell’ipotesi stessa, bensì quello di offrire ai decisori politici e all’opinione pubblica informazioni sul grado di adesione a determinate scelte tecniche e di impianto adottate dal Grl. Infine, ha chiesto a enti, associazioni, centri di ricerca, riviste che coltivano per mandato o per vocazione istituzionale i problemi culturali, ordinamentali e professionali della riforma del sistema educativo di istruzione e di formazione un giudizio su tutte le raccomandazioni date dal Ministro al Grl, nonché un’eventuale loro concreta proposta di riforma del sistema educativo di istruzione e di formazione che tenesse conto, in tutto o in parte, di tali raccomandazioni. 1

Il Capitolo II della Parte II del Rapporto documenta le principali posizioni emerse, alcune volte integrative, spesso alternative a quelle messe a punto dal Grl. È compito degli Stati generali e del successivo dibattito politico e sociale comparare, infine, le ipotesi maturate nel Grl e nel libero dibattito culturale ed associativo per permettere al Ministro, al Parlamento e a tutti gli altri organi della Repubblica di assumere le decisioni conseguenti.

Significato e limiti del Rapporto.

Il significato di questo rapporto va colto nell’ambito del percorso compiuto dal Gruppo ristretto di lavoro (Grl), così come tale percorso viene specificato al successivo punto dedicato alla metodologia e al sommario del rapporto stesso.

Materiali di lavoro.

Esso costituisce pertanto il primo dei contributi proposti (insieme con la sintesi degli incontri con i consigli di classe e i consigli di istituto, la lettura delle risposte inviate dai diversi soggetti e organismi ai quesiti loro sottoposti; il sondaggio Istat) che nel loro insieme dunque rappresentano i materiali sottoposti al Ministro per rispondere al mandato ricevuto di affiancare ad una riflessione complessiva del sistema di istruzione, concreti riscontri per la riforma degli ordinamenti scolastici.
In via generale, tenuto conto dell’insieme di questi materiali, va rilevato che un modello di cambiamento della scuola deve riuscire a combinare in modo equilibrato il senso della realtà e il senso della possibilità; per non sconfinare, da una parte, in un’astratta e irrealizzabile utopia, e dall’altra, nell’impotenza e nella rassegnazione. Deve perciò prendere atto della situazione esistente, fare i conti con essa, ma indicare anche una prospettiva di cambiamento e miglioramento dell’intero sistema in un lasso ragionevole di tempo.

Realismo e innovazione.

La soluzione prevista dalla legge 30 del 10 febbraio del 2000, che prevedeva un ciclo di base unico di 7 anni, si scontrava con problemi di realizzabilità e di praticabilità più volte rilevati: l’onda anomala, lo sconvolgimento di un assetto edilizio e territoriale già consolidato, le incertezze di collocazione professionale dei docenti, la difficoltà di armonizzare stili e modalità di insegnamento e pratiche (quelli dell’attuale scuola elementare e dell’attuale scuola media inferiore), diverse e caratterizzate da obiettivi spesso eterogenei.
Il Grl ha preso atto in questo senso della raccomandazione del Ministro di eliminare l’onda anomala, causata dalla prevista riduzione di un anno della scuola dai 6 ai 14 anni e dalla sovrapposizione che questa determinava tra le classi della scuola attuale e quelle della futura scuola riformata.
Dato questo vincolo, il ritorno a un’estensione di 8 anni costituiva dunque una scelta obbligata che peraltro si sostiene anche se non soprattutto sulla necessità di salvaguardare la specificità educativa di un particolare e delicato momento della formazione della persona. Aperte rimanevano due opzioni: quella di mantenere l’attuale distinzione tra scuola primaria quinquennale e scuola secondaria di I grado triennale, e quella di proporre invece un ciclo unico. Si è scelto di mantenere una cornice ordinamentale che, prendendo atto della ricordate differenze tra l’attuale scuola elementare e l’attuale scuola media inferiore, mantenga una iniziale distinzione, introducendo al contempo elementi di dinamismo e cambiamento finalizzati via via a superarla.
La soluzione è quella di generalizzare l’esperienza degli istituti comprensivi, promuovendo, per la scuola dai 14 ai 16 anni, un piano degli studi unitario, continuo e progressivo, articolato altresì in cicli biennali, in modo da realizzare un effettivo ed efficace raccordo tra l’ultimo anno della scuola primaria e il primo della scuola secondaria di I grado. Ciò al fine di spingere e di innalzare progressivamente l’ultimo anno della scuola primaria verso il percorso successivo, nell’auspicio che si venga a determinare, col tempo, una sempre più efficace saldatura tra i due itinerari, che permetta di arrivare alla loro unificazione in un ciclo di scuola di base di 8 anni.
Quella di operare nella “zone di confine” tra i cicli in cui è attualmente articolata la scuola italiana al fine di ridurre le eccessive linee di demarcazione che li separano, con conseguenti gravi difficoltà e disagi per gli studenti negli anni di passaggio dall’uno all’altro (dalla scuola elementare alla scuola media inferiore; da quest’ultima alla scuola superiore; e ancora, dai licei o dagli istituti tecnici e professionali all’università) è una delle costanti cui sono ispirati il lavoro del Grl e la sua proposta.
Non a caso il modello spinge in direzione di un sempre maggiore raccordo tra l’ultimo biennio della scuola secondaria di I grado e gli studi liceali o professionali successivi, proprio al fine di stimolare una spinta qualitativa verso l’alto dell’intero sistema di istruzione e formazione e di eliminare un’altra frattura che attualmente genera disagi e provoca dispersioni.
Alla stessa logica si ispira la proposta dei moduli di riallineamento, volti a istruire, per coloro che ne hanno bisogno, un servizio che consenta il recupero dei deficit riscontrati nella verifica della preparazione iniziale per l’accesso ai corsi di laurea, prevista dall’art. 1, c.1 del D.M. 509/99 (e anche per l’accesso alla formazione superiore).

Prospettive.

Se le varie proposte e misure di intervento nei confini e nei raccordi tra i diversi cicli dovessero avere l’efficacia sperata, non è utopistico prevedere la possibilità di riorganizzare l’intero sistema di istruzione e formazione in articolazioni differenti da quelle del modello previsto dal Grl. Non è ad esempio azzardato ipotizzare che, qualora questi interventi funzionino, come il Grl auspica, si possa pervenire, in tempi ragionevoli, a due cicli di 6 anni ciascuno, frutto, appunto, della saldatura, da una parte, tra l’ultimo anno della scuola primaria e il primo della secondaria di I grado e, dall’altro, tra l’ultimo biennio di quest’ultima e il ciclo quadriennale della scuola secondaria di II grado.
L’organizzazione in cicli biennali è fatta apposta per operare questa eventuale transizione da una soluzione immediata, che tenga conto degli attuali vincoli della realtà di fatto, a una che, via via che il sistema scolastico si assesta, si riorganizza, migliora la propria funzionalità ed efficacia, si riveli più conforme alle nuove esigenze. In questo senso, non è nemmeno escluso, in base ai risultati degli interventi riformatori che si propongono, che il consolidato professionale dei docenti e dell’esperienza di apprendimento degli alunni possa portare anche verso una soluzione non di sei più, bensì di quattro cicli biennali, oppure alla conferma della scelta per ora proposta come più ragionevole.
È buona regola d’azione, del resto, in qualsiasi riforma, essere attenti alla evoluzione sostanziale delle cose, piuttosto che costringerle dentro schemi pregiudiziali formali. Ciò, ovviamente, sempre nel rispetto di due vincoli che il Ministro ha posto e che il Grl ha recepito volentieri: l’obbligo per tutti di acquisire almeno una Qualifica in 12 anni di istruzione e/o formazione o, comunque, entro il 18° anno di età e l’esclusione di qualsiasi “canalizzazione” o scelta prima dei 14 anni di età, cioè prima che tutti abbiano compiuto un percorso formativo di 8 anni, comunque internamente articolato e organizzato. Va da sé che questa opzione tende a superare la nozione di obbligo scolastico a favore di quella di un diritto/dovere di formazione per almeno dodici anni complessivi.

Dallo Stato alla Repubblica.

C’è comunque un’avvertenza generale di cui è necessario prendere atto. Le proposte e la loro discussione non sono state esplicitamente contestualizzate rispetto alle competenze istituzionali attuali, né soprattutto rispetto al loro ridisegno in conseguenza alle modifiche del titolo V della Costituzione comprendente il referendum sulla legge sul federalismo.
Già ora formazione e istruzione professionale sono attribuite alle Regioni, che con la legge 3 acquistano altresì capacità di legislazione concorrente anche in materia di istruzione.
Il confronto con le Regioni, dunque, non è ininfluente già nel momento stesso della riprogettazione, per la realizzazione del nuovo sistema educativo di istruzione e formazione.
In termini più circoscritti, ma non meno rilevanti sul piano del metodo e su quello di merito, sarà poi il necessario confronto con la parti sociali in ordine al tema della formazione in alternanza. Per l’apprendistato in particolare va ricordato che esso è, allo stato attuale, un contratto di lavoro a causa mista (che pone in capo all’imprenditore un obbligo di retribuzione e insieme di formazione) e come tale coinvolge direttamente la responsabilità della parti sociali.
Il Grl è consapevole di tutti questi problemi di compatibilità e di intreccio di competenze, anche se non rientrava tra i suoi compiti entrare nel merito della loro soluzione.

Il Gruppo Ristretto di Lavoro

Giuseppe Bertagna, università di Bergamo (Presidente), Norberto Bottani, direttore del Dipartimento Innovazione Educativa del Cantone di Ginevra (Svizzera), Giorgio Chiosso, università di Torino, Michele Colasanto, università Cattolica di Milano, Silvano Tagliagambe università di Sassari, sede di Alghero.

Capitolo Primo -

I principi generali

Il Grl ha proceduto all’elaborazione della proposta di riforma del sistema educativo di istruzione e di formazione iconizzata nei quattro schemi allegati (il primo di sintesi, gli altri tre esplosione analitica delle sezioni del primo rispettivamente dedicate all’istruzione secondaria e superiore, alla formazione secondaria e superiore a tempo pieno o in alternanza), sforzandosi di rispettare e di concretizzare i principi ispirativi generali riportati di seguito.

Educazione, istruzione e formazione.

L’art. 1 c.1 della legge 30/2000 parla di «sistema educativo di istruzione e di formazione». Anche nel suo prosieguo, la legge presuppone che, mentre l’istruzione e la formazione siano due dimensioni diverse, ambedue siano educative e debbano costituire un «sistema educativo».
L’art. 68, c. 1 della legge n. 144/99, istituendo «l’obbligo di frequenza di attività formative fino al compimento del 18° anno», parla di «sistema della formazione professionale regionale» come uno dei «percorsi» all’interno dei quali i giovani possono espletare tale obbligo.
L’art. 3, punto n del nuovo art. 117 della Costituzione, introdotto con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, mutuando l’espressione dal Titolo II, art. 33 della Costituzione del 1948, riserva a legislazione esclusiva dello Stato «le norme generali sull’istruzione». Introduce, poi, una distinzione tra «istruzione», che colloca a legislazione concorrente tra Stato e Regioni, e «istruzione e formazione professionale» che è legislazione esclusiva regionale. Per converso, il punto m del nuovo art. 117 introdotto dall’art. 3 della legge costituzionale appena citata sembra porre l’istruzione e la formazione (professionale) fino al 18° anno tra quei «diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale», per i quali lo Stato è chiamato a determinare «i livelli essenziali delle prestazioni».
Il combinato disposto di tutte queste norme consente di ricavare alcuni orientamenti che spiegano anche il senso della proposta di revisione della legge 30/2000 avanzata negli schemi prima riportati e illustrata in queste pagine.
Per un verso, istruzione e formazione sono due processi diversi. La stessa legge costituzionale, del resto, traccia un confine tra «istruzione» tout court e «istruzione e formazione professionale». In termini epistemologici, si può ritenere che il fine prioritario dell’istruzione, la sua differenza specifica, possa collocarsi nel conoscere, nel teorizzare. Avrebbe a che fare con le idee e con le relazioni intellettuali formali tra le conoscenze. La formazione, invece, avrebbe più a che fare col produrre, con l’operare, con il costruire: immettere le idee (le conoscenze) nella realtà, mediante apposite operazioni di progettazione e di trasformazione che diventano poi pratiche professionali esperte; potremmo dire trasformare stati ideali in stati reali.
Per l’altro verso, però, istruzione e formazione sono anche due processi unitari e sempre integrati. L’unità e l’integrazione deriva loro da due circostanze.
Anzitutto, perché non si può conoscere senza produrre, operare e costruire, e viceversa. Nessuno è in grado di elaborare theoría senza téchne, e nessuno può produrre nulla se non concepisce idee e non ha conoscenze da concretizzare. La società globalizzata della conoscenza, d’altronde, ha esaltato questa connessione e ha reso inservibili le artificiose separazioni del passato tra sapere e lavoro, tra istruzione da una parte e istruzione/formazione professionale dall’altra.
In secondo luogo, perché ambedue i processi sono chiamati ad essere educativi, nel senso che l’uno e l’altro sono invitati a promuovere nel modo più integrato, armonico, simultaneo e progressivo possibile tutte le dimensioni della personalità di ciascuno (intellettuale, affettiva, etica, operativa, motoria, espressiva, sociale, religiosa), non soltanto una di esse. Come a dire che, pur mirando alla testa, l’istruzione non esiste se non coinvolge anche il cuore e le mani, e analogamente, pur mirando alle mani, la formazione non esiste se non coinvolge anche la testa e il cuore.

Prospettiva prepolitica.

La legge costituzionale 18 ottobre, n. 3 ha certamente innovato numerosi e rilevanti aspetti del governo e della gestione del «sistema educativo di istruzione e di formazione». Il Grl ha tuttavia proceduto all’espletamento del compito che gli è stato affidato senza entrare nel merito delle competenze che, con la nuova norma, sono di riserva esclusiva statale o regionale, oppure sono a legislazione concorrente.
Consapevole dei limiti della propria scelta, ha preferito fermarsi a suggerire ipotesi di modifica dei dispositivi riformatori inaugurati dalla legge 30/2000, tali che esse rispondessero, da un lato, a caratteri di unitarietà/organicità e, dall’altro, soprattutto, a domande pedagogiche, culturali, sociali e professionali valutate rilevanti e da soddisfare, indipendentemente dalle fattispecie giuridiche dei soggetti istituzionali poi chiamati a dover predisporre le risposte.
In questa prospettiva, ad esempio, ha segnalato come obiettivo strategico per lo sviluppo del paese e per la maturazione dei singoli soggetti in età evolutiva la costituzione di un sistema educativo integrato nel quale esistano e si intersechino percorsi di istruzione e percorsi di formazione, ambedue a livello secondario e superiore, a prescindere dal fatto che determinate competenze di indirizzo o gestionali siano dello stato piuttosto che delle regioni o di altri soggetti istituzionali misti.
Nell’epoca della globalizzazione, della complessità e dell’assunzione a norma costituzionale del principio di sussidiarietà, d’altra parte, sarebbe stato eccentrico prevedere, magari perché governati e gestiti da soggetti istituzionali diversi e con procedure normative differenti, segmenti formativi isolati ed autoreferenziali, incapaci di lavorare in rete e di ottimizzare servizi e risorse reciproche nel tempo e nello spazio, al servizio dei cittadini.

Innalzamento della qualità.

Le più recenti indagini internazionali hanno attenuato il tradizionale compiacimento sulla qualità degli apprendimenti che sarebbero assicurati dalla nostra scuola primaria, secondaria di I grado e secondaria di II grado. Siamo molto spesso sotto la media dei Paesi Ocse. Altre indagini nazionali hanno esplorato la qualità degli apprendimenti dei nostri giovani laureati e hanno dovuto riconoscere che, accanto a punte di vera e propria eccellenza, esiste un buon terzo dell’universo rappresentato che non va oltre livelli gravemente insoddisfacenti.
Come si espresse la Premessa ai Programmi di insegnamento della scuola media del 1962, il principio di elevare «il livello di educazione e di istruzione personale di ciascun cittadino e generale di tutto il popolo italiano, accrescendone di conseguenza la capacità di partecipazione e di contributo ai valori della cultura e della civiltà» è diventato, a questo punto, un’urgenza nazionale.
Si tratta di pensare ad una riforma del sistema educativo di istruzione e di formazione che metta strategicamente al centro questo principio, tanto più importante, peraltro, quanto più si afferma la cosiddetta società della conoscenza; e, soprattutto, che lo faccia percepire a tutti nella sua dimensione di inalienabile e costitutivo «diritto civile e sociale» dei cittadini, diritto che deve essere garantito dalla Repubblica «su tutto il territorio nazionale» e da essa tutelato nei suoi «livelli essenziali» (punto m del nuovo art. 117 introdotto dall’art. 3 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 e art. 6 della stessa legge, dove si riformula l’art. 120 del Titolo V della Costituzione del 1948). Il Grl ritiene di aver corrisposto a queste differenti, ma anche convergenti sensibilità, introducendo nell’ipotesi di riforma del sistema nazionale di istruzione e di formazione che si propone alla discussione otto leve da utilizzare per innalzare la qualità complessiva di tutto il sistema educativo di istruzione e di formazione.

Equità

Don Milani era solito ricordare che nulla è più ingiusto che fare parti uguali tra disuguali. Dare di più e meglio a chi ha meno e peggio è uno dei principi generali cui il Grl ha cercato di ispirare la proposta di riforma del sistema educativo di istruzione e di formazione. La giustizia intesa come equità non si promuove, infatti, con l’uniformità distributiva, ma con la differenziazione individualizzata degli interventi e dei servizi. Ciascuno deve essere posto nelle condizioni di sviluppare al meglio le proprie capacità e di trovare una pertinente valorizzazione delle proprie attitudini. Ciò che vale per i soggetti, vale anche per le istituzioni, nel senso, ad esempio, che le istituzioni del sistema di istruzione e quelle del sistema di formazione non possono svolgere il loro servizio educativo negando, o comprimendo, le specificità epistemologiche, metodologiche e pedagogiche che le devono caratterizzare, bensì avvalorandole, per porle a disposizione del massimo sviluppo possibile dei soggetti che le scelgono. Stesso discorso per tutte le altre istituzioni, a partire da quelle sociali, politiche, economiche ecc.
Proprio in questo senso, la prima e più importante strategia di costruzione dell’equità formativa parte da un ineliminabile dato di fatto. Negli ultimi vent’anni, tutte le ricerche di psicologia, sociologia ed economia dell’educazione hanno dimostrato che la causa principale dei fallimenti scolastici non è, in genere, la scuola, ma l’extrascuola, in particolare l’ambiente sociale e familiare di provenienza degli alunni. Secondo i dati Istat e Isfol, per il figlio di un genitore con reddito appartenente al gruppo basso, la probabilità ancora oggi esistente di frequentare fino a 14 anni la scuola senza bocciature è del 18,3%, mentre la probabilità di laurearsi è del 2,7%. Le corrispondenti probabilità del figlio di un genitore della fascia alta sono del 3 % e del 19%. Il 5% di ogni leva di età non riesce a completare il percorso della scuola media. L’11,8% della stessa leva di età (percentuale che si innalza al 17,1% negli Istituti professionali) abbandona gli studi dopo il primo anno delle superiori. Questi abbandoni, però, sono reclutati pressoché esclusivamente in ragazzi che provengono da famiglie i cui genitori sono senza titolo di studio e vivono in condizioni sociali degradate o marginali. Il sistema educativo di istruzione e di formazione, dunque, sebbene desideri interpretare il ruolo di Davide, è, nel complesso, perdente davanti al gigante Golia dell’emarginazione sociale strutturale. Meglio allora agire, consapevoli che le politiche sociali (creare lavoro reale e non fittizio per i disoccupati, sostenere le famiglie bisognose con logiche che stimolano la loro imprenditorialità, ridare dignità sociale agli emarginati coinvolgendoli in relazioni interpersonali ‘normali’, bonificare e riqualificare i tessuti urbani degradati, moltiplicare biblioteche, cinema, centri di aggregazione e di servizi, attività culturali e ricreative nei territori che non ne hanno o ne hanno a sufficienza ecc.) sono, ai fini del successo formativo, se non più, almeno efficaci tanto quanto il miglior sistema educativo di istruzione e di formazione che si possa auspicare.
La seconda strategia è uno sviluppo della precedente. L’imponente mole di conoscenze scientifiche sull’infanzia maturate in un secolo ha insegnato che la qualità dell’educazione successiva è potentemente condizionata da quella ricevuta nella prima e nella seconda infanzia. Eventuali programmi di sviluppo delle capacità linguistiche, logiche, espressive, sociali, affettive, etiche, motorie della persona e, a maggior ragione, eventuali programmi compensativi per deficit di sviluppo accumulati in questi campi dai bambini per ragioni genetiche, neurofisiologiche o, peggio, familiari e sociali hanno, infatti, tante più speranze di successo quanto più sono precoci e ben organizzati sul piano pedagogico. Dopo i cinque anni, a questo riguardo, tutto diventa più difficile e lento. Soprattutto per l’intervento compensatorio. Esistono quindi tutte le condizioni di opportunità e di merito per concentrare l’attenzione di tutti sull’importanza sociale e pedagogica della scuola dell’infanzia e per ribadire il ruolo istituzionale centrale che essa assume nell’insieme del sistema educativo di istruzione e di formazione. La proposta del credito riconosciuto a chi frequenta la scuola dell’infanzia è ritenuta un contributo in questa direzione.
La terza strategia è stata ravvisata nella scelta di costruire una scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di I grado, cioè le scuole fino ai 14 anni, che siano nell’insieme lunghe, non concitate, senza la nevrosi dei risultati intermedi, dove l’eterocronia dello sviluppo individuale diventa, invece, sotto la responsabilità dei docenti, criterio costitutivo dell’organizzazione pedagogica e metodologica per aiutare, nel tempo, sia i recuperi, sia le eccellenze. Va letto in questa prospettiva la scelta di vietare, in nome del credito eventualmente acquisito con la frequenza del triennio della scuola dell’infanzia, l’accorciamento degli otto anni di primaria e secondaria di I grado. Queste sono le scuole di tutti e di ciascuno, dove i precocismi di qualsiasi natura dovrebbero essere banditi tanto quanto le lentezze che nascono da neghittosità caratteriali e professionali.
La quarta strategia per promuovere equità è stata identificata nelle modalità di definizione dei piani di studio. Rimandando, per un approfondimento, all’apposito paragrafo, va segnalato che l’esigenza della personalizzazione dei percorsi di apprendimento ha consigliato di prevedere itinerari didattici a tre diverse velocità, che si differenziano e si ricombinano a vicenda, a seconda delle necessità individuali. Un itinerario è quello obbligatorio per tutti. La garanzia dell’integrazione sociale e culturale per tutti e di tutti. Un altro è facoltativo, meglio è obbligatoria la sua offerta da parte delle scuole riunite in rete, mentre è facoltativo, ovvero il frutto di una negoziazione cooperativa tra famiglia, studente e scuola, il suo consumo, nei modi e nei tempi adatti a ciascuno. L’ultimo non finge che la scuola sia l’unico ambiente di apprendimento esistente nel sociale, ma tematizza il contributo specifico che le esperienze e le opportunità formative dell’extrascuola possono garantire al raggiungimento del profilo educativo, culturale e professionale finale atteso per lo studente alla fine del ciclo di studi e delle conoscenze e delle abilità nelle quali esso si articola nelle previste scansioni biennali dei piani di studio.
L’ultima strategia (quinta) volta ad assicurare equità formativa è stata individuata dal Grl nel progettare un sistema educativo di istruzione e di formazione nel quale le differenze dei percorsi non impediscano a nessuno di raggiungere i medesimi traguardi. Con apposite provvidenze e servizi assicurati a livello sistemico, infatti, tutti i giovani che scelgono l’istruzione secondaria sono messi nelle condizioni non solo di proseguire gli studi nell’istruzione superiore, ma anche nella formazione superiore. Analogamente, tutti i giovani che scelgono la formazione secondaria, a tempo pieno o in alternanza, sono posti nella condizione non solo di proseguire il proprio percorso di crescita nella formazione superiore a tempo pieno o in alternanza, ma anche nell’istruzione superiore.

Pari dignità dei percorsi, a tempo pieno o in alternanza

L’attuale mercato del lavoro giovanile del nostro Paese sconta una polarizzazione: da un lato, una platea soddisfacente di personale laureato che è spesso sottoutilizzato e, dall’altro, una platea di personale non qualificato che risulta molto richiesto, fino al punto di essere, talvolta, utilizzato per mansioni superiori. La carenza più evidente è di personale qualificato, di tecnici e di quadri intermedi. L’irrobustimento di un’istruzione tecnica e di una istruzione/formazione professionale secondarie e superiori, modernamente intese, dunque, oltre che costituire una risposta a precise istanze attitudinali e valoriali dei soggetti, ad una crescente finalizzazione del lavoro a fini culturali ed educativi e ad una diffusa domanda sociale delle famiglie che chiedono percorsi formativi differenziati nella durata e con la possibilità continua di rientri, è anche una condizione per mantenere il nostro Paese nel novero dei più industrializzati del mondo.
Proprio l’esperienza dei Paesi più industrializzati del mondo, inoltre, insegna che questo obiettivo è difficilmente raggiungibile prevedendo percorsi formativi esclusivamente o soprattutto a tempo pieno. Occorre potenziare quelli in alternanza scuola lavoro, avvicinando tre mondi, le esigenze dei soggetti, quelle di una istruzione/formazione sistematica di qualità e quelle del mondo del lavoro, che tanto più si danneggiano quanto più sono distanti o, peggio, incompatibili, tra loro.
In Italia, del resto, solo 1 giovane su 100 tra i 16 e 19 anni è coinvolto in percorsi formativi in alternanza, contro, ad esempio, i 50 della Danimarca, i 28 del Regno Unito e i 19 degli Usa. Allo stesso modo, tutti i progetti di apprendistato europei che si sono orientati ad utilizzare in via prioritaria la sola formazione professionale (il nostro caso, con la chiusura dei corsi nel 1973) o affidandosi prevalentemente ai datori di lavoro (nel nostro caso, gli apprendisti qualificati nel 1974 erano 1 su 4, nel 1988 1 su 9), sono falliti o hanno dati scarsi risultati. (Inghilterra, riforma del 1993, su 85.000 apprendisti, il livello medio di abbandoni era, nella primavera 2000, superiore al 50%). Chi ha scelto, al contrario, la formazione in alternanza, tipo la Germania e la Francia, presenta tassi di adesione molto alti o piuttosto alti: 1.700.000 giovani in Germania (1999), 338.000 giovani in Francia (1998). Ciò che colpisce, pur nella diversità delle due situazioni, è il tasso di successo dei due modelli.

Caso francese:

% di SUCCESSO nell'ottenimento dei DIPLOMI PROFESSIONALI
  Sessione 1995 Sessione 1996 Sessione 1997
  Allievi dei LP publics Apprendisti Allievi dei LP publics Apprendisti Allievi dei LP publics Apprendisti
CAP 78% 63% 77.1% 66.4% 77.5% 68.4%
BEP 68% 61% 70.6% 64.2% 71,6% 64.7%
Brevet professionnel Diploma non preparabile a livello scolastico Dato mancante Diploma non preparabile a livello scolastico 46% Diploma non preparabile a livello scolastico Dato mancante
Baccalauréat professionnel 74% 73% 79.5% 79.2% 79.5% Dato mancante
BTS 69% 56% 67.6% 57.8% 68.4% 57.9%

Legenda: il Cap corrisponde grosso modo alla nostra Qualifica; il Bep al Diploma che si immagina di suggerire con l’ipotesi che si discute in questo Rapporto; il Baccalaureato professionale corrisponde alla ‘maturità’ professionale; il Bts è il Diploma Tecnico Superiore; Lp sta per Licei professionali statali

Caso tedesco:

l’88% arriva a completare il percorso di Qualifica (su 3 anni); l’80% dei partecipanti consegue nelle Berufsakademie la laurea professionale (percorso triennale, numero frequentanti 14.000, 3 mesi di scuola e 3 mesi di lavoro).

Se è dunque ragionevole prevedere un sistema educativo di istruzione e di formazione secondaria e superiore a tempo pieno, in prospettiva, e secondo le maturazioni che saranno realisticamente possibili, è altrettanto ragionevole, anche nel nostro Paese, pensarlo, a partire dai 15 anni d’età dei giovani, almeno in parte, in alternanza (come in Lussemburgo, Francia, Svizzera, Germania, Austria, Irlanda, Grecia, Portogallo; comincia a 16 in Danimarca, Finlandia e Svezia, dove la scuola inizia a 7 anni, nonché nei Paesi Bassi, Spagna, Gran Bretagna, e a 14 in Belgio).
È naturale scegliere di avviare questa direzione di marcia a partire dalle Qualifiche e dai Diplomi della formazione secondaria e superiore, ma non sarebbe lungimirante escluderla poi, per principio, dall’ottenimento dei Diplomi dell’istruzione secondaria e delle Lauree dell’istruzione superiore. Istruzione e formazione secondarie e superiori devono trasformarsi in un sistema dove ogni giovane, qualunque scelta intraprenda dopo la scuola secondaria di I grado, con gli opportuni supporti, con il reciproco riconoscimento dei crediti e con la valutazione del portfolio delle competenze che lo accompagna nella propria crescita umana, culturale e professionale, possa giungere a tutti i traguardi terminali del sistema stesso, a tempo pieno o in alternanza. Ciò significa ribadire che non esistono percorsi nobili e plebei, canalizzati e non canalizzati, ma che tutti, pur nella loro diversità, hanno la stessa dignità istituzionale, culturale e pedagogica.
Una prova ulteriore di questa volontà progettuale è ricavabile dalla possibilità offerta ai giovani di ottenere una Qualifica di formazione secondaria a 17 anni (invece che, come può accadere ora, a 16). Finora, come già ricordato, le Qualifiche non hanno mai goduto di prestigio. Alle Qualifiche sono acceduti, di solito, gli studenti ripetenti, con problemi nel proseguimento degli studi. Quasi che il corso di Qualifica non fosse di studio e non fosse degno di occupare le aspirazioni migliori e i positivi progetti di vita di un giovane. Nell’ipotesi proposta alla discussione dal Grl, invece, scompaiono queste ambiguità. I corsi di Qualifica sono profondamente rinnovati nell’ispirazione e nei contenuti e diventano tutti triennali.
Il primo di questi tre anni, pur essendo già curvato alle esigenze poste dal profilo educativo, culturale e professionale terminale, in quanto ancora di orientamento, è pressoché comune a quello degli altri corsi della formazione secondaria e per la maggior parte comune a quello del primo anno dei corsi dell’istruzione secondaria.
I successivi si rendono sempre più specifici. A 14 anni, quindi, se un giovane può contare sull’anno di credito formativo ottenuto con la frequenza del triennio della scuola dell’infanzia (cfr. il Capitolo II, paragrafo ‘Scuola dell’infanzia’), può decidere, peraltro con la sicurezza di poter sempre cambiare strada senza perdere nulla, di costruire un proprio progetto di vita che contempli come scelta positiva, non residuale e forzata, quella di ottenere una Qualifica a 17 anni e di entrare a questa età, con un titolo spendibile, nel mercato del lavoro. E poi magari di riprendere più avanti, in alternanza, reso edotto dai bisogni del mestiere, la formazione necessaria per il Diploma secondario e superiore. La Qualifica, insomma, non è pensata, come adesso, per i falliti scolastici, ma come risposta qualitativa e dignitosa ad una scelta motivazionale e professionale che molti giovani hanno e che sarebbe bene coltivare.
La circostanza che non si tratti di furbizie per ottenere un titolo comunque inferiore rispetto agli altri è avvalorata, inoltre, dal fatto che, sebbene con il credito di un anno sui 12 di istruzione/formazione obbligatoria, un ragazzo in ritardo di un anno alla Licenza media, non può acquisire la Qualifica a 17 anni, ma deve svolgere il percorso triennale previsto dall’itinerario formativo fino a 18 anni, visto che la norma vigente esonera dall’obbligo di rimanere in formazione fino a 18 anni solo chi ottiene una Qualifica prima di quest’età.

Integrazione.

In genere, si distingue tra sistema (educativo) informale, non formale e formale. Il primo è rappresentato dalla vita sociale ordinaria che non esprime programmatiche intenzionalità formative, pur determinandole di fatto, funzionalmente, in maniera anche irreversibile.
Il secondo riguarda quell’insieme di istituzioni che, pur non essendo strutturate in maniera esplicita per promuovere, con gradualità e sistematicità, processi educativi di istruzione e di formazione, tuttavia esprime intenzionalità in questa direzione in un territorio e lungo l’intero arco della vita dei soggetti.
L’ultimo si riferisce specificamente al sistema educativo di istruzione e di formazione istituito e strutturato dalla Repubblica (Stato, Regioni, Enti locali) per i minori e per le giovani generazioni.
L’ipotesi di riforma che si presenta vuole essere attenta all’integrazione tra questi diversi sistemi. Per questo, dalla scuola dell’infanzia all’istruzione e alla formazione superiore, prevede un’organizzazione dei piani di studio che orientano il sistema educativo di istruzione e di formazione formale a confrontarsi con i sistemi educativi informali e non formali dell’extrascuola, e a valorizzarli in funzione della promozione del profilo educativo, culturale e professionale finale degli allievi, nonché delle conoscenze e delle abilità che lo specificano nei diversi anni di studio.
Il principio dell’integrazione non vale soltanto a questo livello. È costitutivo anche all’interno del sistema educativo formale di istruzione e di formazione. Integrazione non significa né assimilazione né confusione. Si possono integrare solo elementi diversi con una propria natura e con una propria identità, e che la mantengono, pur sviluppando un’organica cultura del confine e della transizione. Da questo punto di vista, si può parlare di integrazione tra sistema educativo di istruzione, le scuole e l’università, e sistema educativo della formazione, gli istituti della formazione secondaria e superiore, solo se i due sottosistemi esistono davvero, se sono percepiti socialmente diversi, se hanno una consistenza paritaria e un’equivalenza culturale assicurata tramite standard reciprocamente negoziati e riconosciuti. Solo a queste condizioni la possibilità di passaggio da un sottosistema all'altro, mediante la contabilità dei debiti e crediti, non è esigenziale, ma reale, e può trovare anche appositi dispositivi di realizzazione come il Portfolio delle Competenze e, soprattutto, il Laboratorio di Recupero e Sviluppo degli Apprendimenti.
L’integrazione, tuttavia, non può essere soltanto orizzontale. Va prevista anche verticale. In questo senso, non è pensabile una formazione superiore che rilasci diplomi professionali superiori senza che essa sia il segmento successivo ad una formazione secondaria che rilasci diplomi e qualifiche professionali. Allo stesso modo, non ha senso una formazione secondaria se non esiste, prima, ancorché a livello di gestione dell’orientamento, un biennio finale della scuola secondaria di I grado che aiuti i ragazzi a comprendere le differenze di impianto metodologico e di psicologia dell’apprendimento che esistono tra percorsi dell’istruzione e della formazione. Né hanno senso queste opportunità orientative se prima, dalla scuola dell’infanzia in avanti, il problema della formazione e delle sue analogie e differenze con l’istruzione, non si pone in tutti i suoi risvolti educativi e culturali, ovviamente in maniera adeguata all’età e agli interessi dei ragazzi. Nel principio dell’integrazione verticale si pone anche la formula dei cosiddetti istituti comprensivi che, sulla base delle esigenze del territorio, unifica le gestione delle scuole dai 3 ai 14 anni, ma che niente impedisce possa estendersi anche agli istituti della fascia secondaria. E si pongono anche le iniziative di raccordo tra istruzione/formazione secondaria e superiore che si estrinsecano nei moduli di durata temporale diversa, propedeutici all’immatricolazione universitaria e della formazione superiore.
L’integrazione, infine, nell’ipotesi di revisione della legge 30/2000 che si mette in discussione, può essere anche mista, allo stesso tempo orizzontale e verticale. Con l’introduzione nel piano degli studi delle scuole dai 6 ai 18 anni dei cosiddetti Laboratori a rete e per gruppi piuttosto che per classi (obbligatori per offerta istituzionale, facoltativi per gli studenti e le famiglie), infatti, molti ragazzi delle scuole primarie e medie potranno usufruire di qualche Laboratorio delle superiori, e viceversa.

Flessibilità.

La flessibilità è una caratteristica del sistema educativo di istruzione e di formazione presentato negli schemi a tre livelli.

Il primo è strutturale e riguarda l’intero percorso di studi. Nessun cittadino italiano, dicevamo, può interrompere le attività formative prima del 18° anno se non ha ottenuto una Qualifica in almeno 12 anni di istruzione/formazione. L’inizio di questo percorso, tuttavia, può avvenire tesaurizzando un anno di credito formativo, frequentando la scuola dell’infanzia triennale non obbligatoria, oppure iniziando il percorso con il primo anno della scuola primaria. A 14 anni, inoltre, ogni ragazzo può decidere se intraprendere corsi di studio triennali o quadriennali, di istruzione o di formazione, con la possibilità di passare dagli uni agli altri, sebbene con maggiore sforzo a mano a mano ci si allontana dal primo. Alla fine del terzo anno, con l’ottenimento di una Qualifica professionale, comunque, ogni giovane che non voglia entrare nel mercato del lavoro, può decidere di acquisire un Diploma prima secondario e poi superiore nel settore professionale che ha approfondito. A 15 anni, in terzo luogo, può optare per proseguire i suoi studi di Qualifica o di Diploma in un percorso formativo in alternanza scuola/lavoro, semplicemente prolungando di una anno il tempo necessario per il raggiungimento sia del primo sia del secondo traguardo. A 18 anni, infine, dopo il Diploma, è posto nelle condizioni di scegliere o la prosecuzione degli studi nell’istruzione e nella formazione superiore (a tempo pieno o in alternanza), oppure di entrare nel mercato del lavoro. Se poi non si sentisse pronto ad affrontare le prove universitarie o della formazione superiore relative all’adeguatezza della sua preparazione alla tipologia degli studi che intende intraprendere, può iscriversi ai moduli propedeutici preuniversitari organizzati in collaborazione con l’istruzione e la formazione secondaria e che, con una durata variabile, colmano le sue lacune in uno o più campi scientifici.

Il secondo livello di flessibilità è interno alla struttura e si riferisce ai piani di studio. Il relativo contenimento dell’orario obbligatorio autorizza una gestione personalizzata di quello facoltativo, utilizzabile per il consolidamento, lo sviluppo o il recupero degli apprendimenti.

Il terzo livello rimanda ai costanti rapporti che i piani di studio in generale e quelli della formazione secondaria e superiore in particolare sono tenuti a mantenere con l’extrascuola familiare, sociale, culturale e professionale. La circostanza rende impossibile ingessare i piani di studio e renderli più un risultato che una condizione dei saperi disciplinari e del loro significato personale e sociale. Un ruolo speciale è riservato, ovviamente, in questo campo, alle famiglie, chiamate ad assumere un ruolo protagonistico.

Tradotto dalla dimensione organizzativa in quella educativa, il principio della flessibilità si trasforma in esercizio della libertà e della responsabilità per tutti gli attori coinvolti. Più aumentano, infatti, i margini di scelta, più occorre fare i conti con comportamenti che aumentano l’incertezza e il rischio e che implicano cooperazione o defezione, negoziazione o conflitto, impegno o evasività, con tutte le conseguenze che ciascuna di queste azioni comporta.

Armonizzazione europea.

I quattro schemi che illustrano l’articolazione del sistema educativo di istruzione e di formazione nell’ipotesi formulata dal Grl e presentata alla discussione sono stati costruiti seguendo i criteri di lettura e di comparazione internazionali. In questa direzione, adottano la Classificazione Internazionale Tipo dell’Educazione (Cite).

Scuola dell’infanzia.

Cominciando dal basso, dal livello 0 della Cite, va osservato che l’ipotesi del credito di un anno dei minimo 12 di istruzione/formazione obbligatoria per chi frequenta il triennio della scuola dell’infanzia (cfr. Capitolo II, paragrafo ‘Scuola dell’infanzia’), se è vero che, in questa precisa formula, non ha alcun corrispettivo sul piano europeo, è altrettanto vero che si può giustificare come la rilettura attenta alla nostra peculiare tradizione sociale e pedagogica di opzioni simili che hanno invece trovato cittadinanza in altri Paesi Ue. Come documenta il Grafico n. 1 relativo alla durata dell’istruzione/formazione obbligatoria nei Paesi Ue, poi ripreso in dettagli specifici nei Grafici n. 2 e n. 3, infatti, la scuola dell’infanzia è inserita a pieno titolo nel periodo di istruzione/formazione obbligatoria nei Paesi Bassi e in Gran Bretagna a partire dai 5 anni e in Lussemburgo e Irlanda del Nord a partire dai 4. Con una versione più simile a quella proposta nella nostra ipotesi, invece, gli anni di scuola dell’infanzia sono facoltativamente inseriti negli anni di istruzione/formazione obbligatoria a partire dai 6 anni (perché la scuola di base comincia a 7) in Finlandia e Danimarca e a partire dai 4 nei Paesi Bassi (il 5° è già obbligatorio). Ciò significa che chi utilizza questa possibilità, nei tre Paesi citati, conclude il periodo di istruzione/formazione obbligatoria un anno prima. Sta in questo la somiglianza con l’inedita formula del credito da noi proposta. È da ricordare, inoltre, che, mentre la percentuale di chi frequenta la scuola dell’infanzia in Paesi con una lunga e consolidata tradizione in proposito come la Francia, il Belgio, l’Islanda e la Nuova Zelanda non va oltre il 75%, in Italia raggiunge in media l’87% e punte del 95% all’ultimo anno.

Grafico 1

Grafico 2

Grafico 3

Scuola primaria, scuola media.

I livelli 1 e 2 della Cite pongono il problema della scuola di base unica. Essa è la formula preferita dai Paesi nordici (Danimarca, Finlandia, Svezia, Islanda, Norvegia e Portogallo), dove, fra l’altro, la scuola inizia per la maggior parte a 7 anni. Come è noto, la legge 30/2000 aveva adottato questa soluzione, avviandola, però, a 6 anni. Negli altri Paesi europei, tuttavia, i livelli 1 e 2 della Cite sono separati e il problema è piuttosto un altro (Grafico n. 4): abbiamo opzioni (Austria, Belgio, Irlanda, Liechtenstein, Lussemburgo, Paesi Bassi) che hanno secondarizzato precocemente, per cui dopo la scuola primaria comincia subito la scuola secondaria a tutti gli effetti; ed opzioni che, invece, sono tripartite, ovvero accompagnano la transizione dalla scuola primaria alla scuola secondaria di II grado con una scuola secondaria di I grado o inferiore (il modello di Francia, Spagna, Grecia, Regno Unito, Germania). La proposta di revisione della legge 30/2000 adottata dal Grl va in quest’ultima direzione. Mantiene, inoltre, la distinzione tra primaria e media perché considera valore da confermare, sebbene da rileggere e ricontestualizzare in maniera per certi aspetti profonda, la scoperta di una scuola specifica per l’età della preadolescenza, avviata nel 1962.

Strutture dell'istruzione secondaria di I e II grado nei paesi dell'UE (dati 1997/98)

(Grafico 4)

 

La scuola secondaria.

Il livello 3 della Cite pone il problema dell’età di conclusione degli studi di istruzione e di formazione secondarie. Il Grl ha scelto di confermare la decisione della legge 30/2000: Diploma a 18 anni. Tuttavia, ha pensato opportuno recuperare anche la possibilità di ottenere una Qualifica di formazione secondaria a 17 anni e di distribuire la formazione superiore tra i 18 ed i 21 anni. La scelta dei Paesi europei non è, come sempre, univoca. La maggior parte consegue i Diplomi a 18 anni, ma non mancano numerose eccezioni (oltre a Danimarca, Finlandia, Svezia che cominciano, però, la scuola a 7 anni, Cecoslovacchia, Germania, Grecia, Islanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Polonia, Svizzera; ma Svizzera, Paesi Bassi, Grecia e Cecoslovacchia hanno anche l’uscita a 18). Le Qualifiche, o comunque titoli di I livello, si distribuiscono per tutti, invece, dai 16 (il più basso della Gran Bretagna) in avanti.

Il Grafico n. 6 presenta in quanti Paesi Ocse occorrono 11,12 e 13 anni di istruzione/formazione per accedere agli studi universitari. L’Italia, con la proposta adottata dal Grl, si collocherebbe nel gruppo maggioritario dei Paesi con 12 anni, anche se la durata variabile che possono assumere le attività propedeutiche per l’accesso agli studi universitari e della formazione superiore possono prolungare, nei casi necessari, questa durata fino a 13 anni. Fino a 14 anni, poi, se si considera anche l’eventuale credito formalmente acquisito con la frequenza del triennio della scuola dell’infanzia.

Grafico 6

Il diritto-dovere all’istruzione/formazione obbligatoria.

Il concetto di «obbligo scolastico», nato tra settecento e ottocento, sembra essere giunto al termine della sua luminosa parabola. Ha svolto un ruolo storico fondamentale nella transizione dalla scuola d’élite, solo per qualche privilegiato, alla scuola di tutti e per tutti.

Oggi, però, rischia di risultare più un handicap che una risorsa al pieno sviluppo dei diritti di cittadinanza, tra i quali quello all’istruzione e alla formazione è uno dei più importanti.

In una società della conoscenza, nella quale ogni organizzazione è e si fa comunicazione e intelligenza distribuita, infatti, la centratura scolasticistica, con tutto il tradizionale armamentario concettuale che l’ha finora seguita (separazione disciplinare del sapere, antinomie epistemologiche del genere cultura umanistica, cultura scientifica, cultura tecnico-tecnologica, rigidità dei tempi e degli spazi, classificazione degli allievi per età invece che per altri criteri qualitativi molto più flessibili, piani di studio impostati per coppie oppositive quali discipline comuni e di indirizzo, cultura generale e cultura professionale, sapere gratuito e sapere utile) non è più accreditabile.

La legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, inoltre, ha molto problematizzato anche sul piano normativo il modo con cui una buona parte del Paese ha finora pensato «all’obbligo scolastico». Restituendo a legislazione esclusiva regionale «l’istruzione e la formazione professionale» e, in secondo luogo, affidando tutta l’istruzione a legislazione concorrente regionale, rende, ad esempio, impossibile pensare ancora che «l’obbligo scolastico» si possa o si debba soddisfare solo in scuole governate e gestite dallo Stato. La stessa distinzione tra «obbligo scolastico» e «obbligo formativo» va riletta a fondo.

Il problema diventa, piuttosto, di sostanza. Contano più i risultati, e la loro qualità educativa, che i percorsi con cui si raggiungono, sebbene si debba riconoscere che, per alcuni aspetti, soprattutto quelli non immediatamente conoscitivi, gli stessi percorsi abbiano valore di risultato (pensiamo alla scuola o all’ambiente di lavoro come spazio di socializzazione e di relazioni umane, oppure di pratiche morali). In questa prospettiva, il Grl reputa produttivo suggerire di ragionare non più, come si è fatto finora, in termini di «obbligo scolastico» e di «obbligo formativo», bensì di diritto ad esperienze educative organizzate di istruzione e di formazione fino alla maggiore età o, comunque, almeno per 12 anni durante l’età evolutiva, fino all’ottenimento di una Qualifica.

Un diritto di cittadinanza, questo, uno dei «diritti civili e sociali» per i quali lo Stato è chiamato a determinare «i livelli essenziali delle prestazioni» (punto m del nuovo art. 117 della Costituzione), da assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale; e che, come tutti i diritti civili e sociali, è allo stesso tempo un dovere morale: dovere morale perché nessuno può pretendere per sé la soddisfazione di questo diritto se non è disposto a riconoscerlo come un obbligo da realizzare nelle dimensioni personali e collettive, per sé e per gli altri.

L’attenzione si sposta, dunque, dai luoghi dell’istruzione (scuola) e della formazione (centri, agenzie, servizi, imprese ecc.) alla certificazione delle competenze finali che si possono e si devono maturare in un ambiente piuttosto che nell’altro, attraverso l’incontro con conoscenze ed abilità che è bene che tutti i cittadini italiani padroneggino per la propria ed altrui maturazione a 18 anni o, comunque, se un anno prima, quando hanno guadagnato una Qualifica in 12 anni di istruzione/formazione. Certificazione delle competenze che, proprio per la sua natura, rifugge da ogni esclusività di percorso e, più che consentire, favorisce i passaggi tra un indirizzo e l’altro del sistema educativo di istruzione e di formazione.

Le tradizionali alternative tra scuola (statale) e centri della formazione professionale (regionali o non statali), tra scuola e impresa, tra scuola ed extrascuola perdono, perciò, la loro drammaticità e si rivelano per quello che sono: schematiche. Si aprono, al contrario, le prospettive di una solidarietà cooperativa tra tutte le esperienze ed i luoghi formativi nei quali si possano raggiungere i livelli di maturazione educativa, culturale e professionale che dovrebbero contraddistingue l’esercizio della cittadinanza per ogni cittadino italiano, indipendentemente dal fatto che siano statali, regionali o di enti e privati (accreditati).

Queste, d’altra parte, sono anche le tendenze che stanno affiorando a livello europeo e soprattutto negli organismi internazionali più attenti alle esigenze dell’educazione e alle prospettive del futuro (Unesco, Ue, Ocse). Si può semmai sostenere che, adottando queste linee orientative, il nostro Paese si pone, nei metodi e nei contenuti, all’avanguardia dei Paesi europei. Anche in termini di durata del diritto/dovere all’istruzione/formazione (Grafico n. 1), infatti, si colloca tra i primi in assoluto nel mondo, come fu, purtroppo solo in teoria perché le condizioni reali dell’educazione nazionale erano ben diverse, nel 1923, quando, anticipando Gran Bretagna, Francia, Urss e Usa, introdusse formalmente l’obbligo dell’istruzione per tutti dai 6 ai 14 anni.

L’istruzione e la formazione superiore.

Il 46% dei diciannovenni, da noi, si iscrive all’università, contro una media europea del 20-22% e mondiale che è di gran lunga al di sotto. Quasi il 70% di chi conclude la secondaria si iscrive all’università. Una delle percentuali più alte del mondo. Solo il 36% di queste matricole, però, giunge alla laurea. Il resto si perde, dissipando intelligenza personale e soldi pubblici. Così su 100 matricole universitarie, 25 non si reiscrivono al secondo anno, 11 al terzo, 10 cambiano facoltà nei primi due anni, solo 16 si laureano entro i termini previsti e gli altri concludono con una media di tre anni di ritardo. Ciò porta l’Italia ad avere un numero assoluto di laureati inferiore a quello che possono vantare Paesi con un numero di matricole pari esattamente alla metà. Quando un nostro giovane è laureato, infine, a causa del cattivo orientamento universitario e soprattutto a causa dello scollamento esistente tra domanda del mercato del lavoro e tipologia delle offerte formative si trova disoccupato per un tempo inimmaginabile negli altri Paesi europei. Sono primati negativi che nessuno ci toglie e che bisogna cercare di superare al più presto.

Né pare che possano lenire queste piaghe le oltre 2600 lauree recentemente avviate con la riforma universitaria. Semmai possono aggiungere alcool sulla ferite, in più compromettendo la natura e l’identità dell’università stessa, costretta talvolta a trasformarsi in un Istituto Professionale superiore senza peraltro né esserlo né potendo esserlo.

Questa anomalia italiana dipende certamente da molteplici fattori, stratificatisi nel tempo. Uno dei meno ininfluenti, tuttavia, è l’eccessiva embrionalità della formazione superiore non universitaria. Tutti i paesi europei ne sono, invece, provvisti. Nell’ultima riforma spagnola, ad esempio, accanto all’università, abbiamo una ricca formazione professionale postsecondaria breve e una non meno dotata istruzione/formazione non universitaria lunga, parallela a quella universitaria. Da noi, salvo che per l’esperienza degli Ifts, questo segmento è ancora all’inizio ed esposto ai rischi di tutte le infanzie. Inoltre, si caratterizza per non superare i 4 semestri di formazione.

Il bisogno di quadri professionali intermedi, da un lato, e la necessità di offrire ai giovani percorsi differenziati per durata e per terminalità, tuttavia, implica che debba almeno estendersi a percorsi formativi che oscillano, a seconda delle da 1 a 6 semestri a tempo pieno o da 1 a 8/9 se posti in alternanza scuola lavoro. Del resto, in tutta Europa i Diplomi di formazione superiore si ottengono tra i 18 e i 22 anni, sebbene con un assiepamento tra i 20 e i 21. E proprio la consistenza di questo segmento formativo porta tutti i Paesi europei ad essere registrati nelle statistiche Ocse con un numero notevolmente superiore ai nostri di giovani con titoli di studio superiori.

Capitolo Secondo -Analisi e commento dell’ipotesi.

Finalità del sistema educativo di istruzione e di formazione: il controllo critico

Soprattutto oggi, molte conoscenze e abilità sono apprese da ogni ragazzo fuori dal sistema educativo di istruzione e di formazione. Spesso sono anche più di quelle imparate all’interno di esso. Giochi, gruppi, famiglia, ambiente sociale, mass media, tecnologie informatiche, Internet ecc. consentono a ciascun ragazzo di accrescere molto più di un tempo il proprio patrimonio conoscitivo e tecnico. Copioni, stereotipi, scenari, nonché conoscenze specifiche e generali sul mondo fisico, psichico e biologico, sono già salde e di non facile modificazione a cinque anni. Ogni ragazzo porta, perciò, nel sistema educativo di istruzione e di formazione, pratiche e dinamiche di vita personale, sociale, tecnica ed economica, nonché visioni personali del mondo (valori, significati, motivazioni ecc.) già strutturate, in positivo e in negativo, e dalle quali è impossibile prescindere per qualsiasi apprendimento successivo. Sono il patrimonio da cui scaturiscono gli automatismi e i processi balistici o quasi balistici dei pregiudizi, delle precomprensioni, delle risposte reattive immediate.

Il sistema educativo di istruzione e di formazione difficilmente può competere con il sistema informale e non formale sul piano delle informazioni, della trasmissione di pratiche sociali automatiche e di visioni del mondo già sedimentate nei modi di abitare la città, di vivere le relazioni ecc.

La funzione specifica del sistema formale diventa, invece, soprattutto, un’altra: quella di abituare i ragazzi e i giovani alla distanza e al controllo critici. Più che aggiungere informazioni, pratiche sociali e visioni del mondo, insomma, creare le condizioni culturali, emotive e relazionali perché esse siano sottoposte a scrutinio critico. Insegnare ad interrogarle sul piano del vero e del falso, del formalizzato e dell’empirico, del semplice e del complesso, del giusto e dell’ingiusto, del bello e del brutto, del bene e del male, dell’utile (sociale e personale) e dell’inutile, della realtà e della possibilità, del senso e del non senso. Soprattutto, essere in grado di dare riflessivamente le ragioni di questi giudizi, incrociandoli discorsivamente con quelli degli altri e comportandosi a mano a mano di conseguenza, perché non esiste acquisizione e consapevolezza logicodialettica, puntuali o sistematiche che siano, che non diventino etica, politica, estetica, economia, tecnica, ideologia, religione; e viceversa non esiste comportamento morale e sociale, sentimento estetico o religioso, scambio economico, produzione di simboli o di oggetti, visione complessiva del mondo e della vita di ciascuno che non meriti e non abbia bisogno di analisi logica e di dialettica intellettuale.

Portfolio delle competenze

Dai 3 ai 18 anni, ogni allievo che frequenta il sistema educativo di istruzione e di formazione è accompagnato da un apposito portfolio delle competenze. Esso comprende la scheda di valutazione e la scheda di orientamento.

La prima è redatta sulla base delle indicazioni fornite dal Ministero e, eventualmente, dagli altri organi della Repubblica per quanto di loro competenza, a proposito «degli indirizzi generali circa la valutazione degli alunni e il riconoscimento dei crediti e dei debiti formativi» (art.8, Dpr. 275/99, comma 1, punto g).

La seconda è costruita dalle scuole e dai responsabili del processo educativo seguito dagli allievi, e si stratifica lungo il percorso formativo. Al fine di offrire indicazioni di orientamento fondate sulle reali risorse personali, ancorché non pienamente espresse attraverso i tradizionali apprendimenti disciplinari, nel portfolio, gli operatori scolastici, insieme alle famiglie e ai ragazzi stessi, aggiornano indicazioni e dati, raccolti in ordine ai seguenti aspetti:

La scheda per l’orientamento assume un particolare significato nei due anni terminali della scuola media. Occorre mettere in condizione il ragazzo di effettuare una scelta tra istruzione e formazione secondarie sulla base non solo delle competenze acquisite, ma soprattutto delle capacità rimaste impregiudicate o sottoutilizzate durante tutto il periodo della scolarizzazione precedente (nelle attività scolastiche e di laboratorio). Le indicazioni che la scuola offre in ordine alla prosecuzione degli studi non possono, perciò, limitarsi ad indicare la tipologia degli indirizzi dell’istruzione o della formazione secondarie più adatti allo studente, ma dovranno soprattutto argomentare precise indicazioni di percorso, coerenti con quanto rilevato nelle varie voci del portfolio e compatibili con gli interessi, le attitudini e le capacità del ragazzo. In tale modo, l’orientamento verso gli istituti dell’istruzione e della formazione secondarie si configura come una precisa assunzione di responsabilità da parte della scuola. Essa dovrà monitorare, negli anni successivi, seguendola diacronicamente, in collaborazione con le scuole successive, la carriera dell’allievo e verificare se e fino a che punto il consiglio orientativo espresso sia stato pertinente. Ogni scuola secondaria di I grado potrà così migliorare il proprio complessivo know how orientativo.

Lo stesso discorso, con gli adattamenti del caso, si deve riproporre per i due anni terminali dell’istruzione e della formazione secondarie, sia per i corsi di Qualifica, al 3° anno, sia per quelli di Diploma, a tempo pieno o in alternanza. Viste le caratteristiche di serietà e di rigore degli accessi all’istruzione e alla formazione superiori, è importante che i Licei e gli Istituti abbiano acquisito, durante il percorso, credibilità orientativa agli occhi dei giovani, cosicché il loro consiglio orientativo finale non sia tanto percepito come un atto burocratico, ma come la migliore corrispondenza possibile tra attese e capacità personali e vincoli di realtà.

Valutazione e Servizio Nazionale per la Qualità del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione.

La valutazione degli allievi, con la certificazione delle competenze finali acquisite, è affidata esclusivamente ai docenti delle istituzioni di istruzione e di formazione frequentate. Le competenze aggiuntive, acquisite in itinerari di sviluppo degli apprendimenti scolastici o in attività formative extrascolastiche, valgono, inoltre, come credito formativo legale se certificate non solo da enti esterni riconosciuti, ma anche dalle istituzioni di istruzione e di formazione a cui si domanda il loro riconoscimento.

All’inizio della 1° (con modalità adatte all’età dei bambini), 3°, 5° classe dell’istruzione primaria, della 2° classe dell’istruzione secondaria di I grado, della 1° e 3° classe degli istituti di istruzione e di formazione secondaria di durata quadriennale, nonché alla fine della 3° media e dell’ultimo anno dell’istruzione e della formazione secondarie (e nelle classi ad esse corrispondenti per i percorsi in alternanza scuola-lavoro), il Servizio Nazionale per la Qualità del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione predispone, comunque, verifiche sistematiche sulle conoscenze e sulle abilità linguistiche, scientifico-matematiche e storico-sociali degli allievi e richieste dai piani di studio nazionali; le predispone, invece, ogni quattro anni per le conoscenze e le abilità degli allievi, relative alle dimensioni culturali rimanenti (ogni tre anni, all’inizio del 3°, nei corsi triennali di Qualifica della formazione secondaria).

La scelta di operare le verifiche soprattutto all’inizio del ciclo scolastico successivo piuttosto che alla conclusione del precedente è motivata dal desiderio di attribuire alle verifiche stesse un carattere promozionale, formativo ed ermeneutico piuttosto che sanzionatorio, sommativo e lineare. Il Servizio Nazionale per la Qualità del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione elabora, infatti, statisticamente i risultati ottenuti e, entro la metà del primo trimestre (per questo è consigliabile che le prove di inizio ciclo si svolgano tra il 1° e il 10° settembre degli anni indicati), li restituisce, aggregati comparativamente per classe, per istituto, per provincia, per regione e per l’intero territorio nazionale, con propri commenti generali, ad ogni istituzione scolastica, per gli opportuni processi di autovalutazione di istituto, nonché per consentire ai docenti una programmazione delle attività del ciclo che ne tengano debitamente conto. Sotto debite forme che non si prestino a semplificazioni e speculazioni demagogiche, li rende anche pubblici, per la libertà di scelta educativa delle famiglie e per una discussione sullo stato generale dell’istruzione nel Paese.

A mano a mano che le stesse classi sono sottoposte alle prove di verifica nel corso dei bienni o dei quadrienni, l’elaborazione dei dati consente confronti diacronici molto interessanti. Si scopre se i risultati percentuali migliorano o peggiorano e si possono formulare spiegazioni circa il ruolo svolto dalla scuola piuttosto che dall’ambiente sociale in questa dinamica del mancato o guadagnato ‘valore aggiunto’ nell’apprendimento.

L’insieme di queste informazioni offre agli organi di governo del sistema educativo di istruzione e di formazione supporti indispensabili per un buon pilotaggio della riforma. Perciò, se l’attività del Servizio Nazionale per la Qualità del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione non ha diretta influenza né sulla valutazione dei singoli allievi, né, tantomeno, sulla valutazione del servizio dei docenti, riveste in ogni caso un ruolo centrale e strategico nel processo di miglioramento della qualità dell’istruzione e della formazione nazionali. È sottinteso che, accanto all’attività di verifica degli standard di apprendimento degli allievi, il Servizio Nazionale per la Qualità del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione promuova, con apposite metodologie, anche quella della funzionalità di sistema, e che faccia debitamente interagire le due direzioni di ricerca.

I piani di studio.

La struttura dei piani di studio delle istituzioni che compongono il sistema educativo di istruzione e di formazione dovrà scaturire dal combinato disposto dell’ipotesi progettuale che confluirà nella legge di modifica alla legge 30/2000, dall’articolo 8 del Dpr. 275/99 e, soprattutto, dalla normativa, diretta e indiretta, nazionale e regionale, conseguente alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3. Proprio per approfondire questo plesso di reciproche implicazioni, il Grl propone ai soggetti istituzionali che dovranno assumersi la responsabilità di questo compito di confrontarsi con alcune esigenze e con una precisa ipotesi di organizzazione dei piani di studio che si presenta separatamente per il sistema di istruzione e per il sistema di formazione.

I piani di studio nel sistema di istruzione.

In questa prospettiva, si può congetturare che i piani di studio del sistema educativo di istruzione constino, salvo che per la scuola dell’infanzia alle cui specificità si rimanda (cfr. più avanti), dei seguenti punti.

  1. Identificazione del profilo educativo, culturale e professionale degli allievi che si desidera far maturare alla conclusione dei corsi di studio (in pratica alla fine della terza media e dei Licei). Tali profili tengono conto degli obiettivi generali del processo educativo stabiliti ex articolo 8, c. 1 del Dpr. 275/99 e, nel segmento secondario di II grado, delle differenze specifiche esistenti tra i diversi Licei. Il profilo educativo, culturale e professionale terminale è la condizione dell’unità di senso e di indirizzo degli obiettivi specifici di apprendimento previsti nei diversi cicli biennali di formazione e delle altre componenti che caratterizzano i piani di studio.
  2. Esplicitazione degli obiettivi specifici di apprendimento che scaturiscono dai profili e che la Repubblica detta alle istituzioni del sistema educativo di istruzione come obbligatori, anche sotto forma di standard di prestazione. Tali obiettivi sono indicati per ogni biennio di ciascun grado e indirizzo, relativamente agli aspetti linguisticoletterari, scientifico-matematici e di storico-sociali (storia, geografia, studi sociali, filosofia, religione cattolica); sono, invece, formulati alla fine del quarto anno dell’istruzione primaria, del terzo anno dell’istruzione secondaria di I grado e del quarto anno dell’istruzione secondaria per tutte le altre non meno importanti dimensioni formative. Gli obiettivi specifici di apprendimento precisano le conoscenze (di avvenimenti, di concetti, di leggi, di teorie ecc.) e le abilità (disciplinari, interdisciplinari, transdisciplinari), definite ambedue anche in termini operativi, da richiedere agli studenti alla fine di ogni ciclo biennale o quadriennale. Le istituzioni del sistema Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Pag. 37 educativo di istruzione, a partire da un’esplorazione delle capacità dei loro allievi, sono chiamate, per le prerogative dell’autonomia didattica, a trasformare questi obiettivi specifici di apprendimento prima in obiettivi formativi (art. 13 del 275/99), ovvero in compiti di apprendimento realmente significativi e accessibili ai ragazzi concreti che hanno dinanzi, e dopo, alla fine delle attività educative e didattiche intraprese e programmate secondo autonome determinazioni di tempo e di spazio, in competenze degli allievi che è loro dovere certificare. Gli obiettivi specifici di apprendimento sono anche la base impiegata dal Servizio Nazionale per la Qualità del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione per definire le verifiche sistematiche dell’apprendimento condotte a livello nazionale. Va indicata tra gli obiettivi specifici di apprendimento anche la circostanza di prevedere in ogni articolazione biennale dell’istruzione primaria e secondaria di I e II grado un nucleo di attrazione e di ordinamento unitario degli obiettivi stessi. Nucleo che varia, ovviamente, a seconda dell’età, degli ambiti culturali e dei bienni. Per esempio, prevedere la lettura della Commedia nei primi due anni dei Licei come testo di ricapitolazione di una tradizione culturale e di unificazione di diverse prospettive disciplinari (arte, filosofia, religione, matematica, cosmologia, antropologia, linguistica, storia, geografia ecc.), di cui si specificano le componenti. Stesso discorso per i Promessi sposi nel secondo biennio, e per altri testi-nodo di natura letteraria, artistica, filosofica o scientifica. Oppure l’autobiografia personale e poi ambientale rispettivamente nel primo e nel secondo biennio dell’istruzione primaria.
  3. Allo scopo di realizzare il profilo educativo, culturale e professionale terminale e gli obiettivi specifici di apprendimento di cui ai punti precedenti, i piani di studio del sistema educativo di istruzione contemplano tre percorsi formativi che si devono integrare e far sempre interagire, sebbene con le opportune specificità, a seconda delle età evolutive.
    1. Il primo percorso è quello di responsabilità della famiglia e delle altre istituzioni sociali. Con appositi incentivi ed interventi, si tratta di creare le occasioni perché genitori, mass media, attori sociali, imprese, enti locali, centri culturali, imprenditori del tempo libero ecc. possano diventare risorsa culturale ed educativa per gli allievi, e si facciano sempre più carico della loro maturazione. Molte dimensioni esplicitate nei profili terminali e confluite negli obiettivi specifici di apprendimento, perciò, possono benissimo, in molti casi, attraverso progetti educativi integrati, essere acquisite dagli allievi anche in ambienti extrascolastici. La scuola, in questo senso, certifica il raggiungimento di risultati finali ed esonera, per gli aspetti che lo consentono, dai percorsi scolastici facoltativi, ritenuti necessari per raggiungerli. Sembra ragionevole attribuire sempre maggiore importanza a questo percorso a mano a mano si sale nell’età evolutiva. I crediti formativi acquisiti all’esterno della scuola e di cui si chiede la certificazione alla scuola, infatti, di solito aumentano in proporzione al grado di autonomia degli studenti e all’intensità della loro vita sociale e culturale extrascolastica. In questa prospettiva, è difficile immaginarne l’uso sistematico prima della quarta classe dell’istruzione primaria.
    2. Il secondo percorso è quello obbligatorio per tutti, di responsabilità delle istituzioni del sistema educativo di istruzione. Se, come si diceva, la funzione dell’extrascuola è più informativa, quella delle istituzioni del sistema educativo di istruzione si riconosce per la sua caratura soprattutto critico/formativa. Serve scavare in maniera riflessiva su esperienze, conoscenze e abilità che non vanno mai apprese, né all’esterno, tantomeno all’interno della scuola, per imitazione esecutiva e in modo ripetitivo, ma sempre in modo attivo, relazionale e criticamente contestualizzato. In questo spirito, il percorso obbligatorio del sistema educativo di istruzione precisa i seguenti elementi:
      • il numero delle ore annuali di lezione assicurate a tutti; nell’ipotesi che proponiamo alla discussione, 825 annuali (25 ore settimnali);
      • la distinzione tra quota nazionale e locale di tale monte ore; nella nostra ipotesi, 20 ore settimanali (660 annuali) a quota nazionale e 5 (165 annuali) a quota locale (non senza aver precisato che, nella nostra ipotesi, la quota locale obbligatoria dei piani di studio è pensata non tanto come aggiuntiva rispetto a quella nazionale, bensì come intensiva rispetto ad essa: un approfondimento di quanto essa già contiene, con opportuni adattamenti alle realtà locali, piuttosto che un suo ampliamento);
      • l’elenco delle discipline di insegnamento e delle attività (stage aziendali compresi) obbligatorie su tutto il territorio nazionale, con l’indicazione delle ore annuali riservate a ciascuna di esse. Elenco, cioè nome, delle discipline e delle attività che le istituzioni del sistema educativo di istruzione sono tenute ad insegnare e a svolgere. Non i contenuti specifici di tali discipline ed attività: i contenuti specifici da svolgere anno per anno, mese per mese in classe sono, infatti, determinati dai docenti sulla base del profilo e degli obiettivi specifici di apprendimento. L’elenco in questione è utile soprattutto ai fini della determinazione dell’organico funzionale di istituto con docenti dotati di determinate classi di abilitazione. Sul piano dell’organizzazione dell’insegnamento, ciò significa soprattutto due cose: che le discipline di studio e le attività di insegnamento non sono fini, ma mezzi del processo educativo di apprendimento; che ogni docente non è soltanto chiamato ad insegnare la disciplina o a svolgere l’attività che, sulla base dell’organico funzionale di istituto, gli è affidata, con il rischio di chiusure disciplinaristiche autoreferenziali, bensì è invitato a mettere a disposizione l’intero bagaglio della proprie competenze professionali ed umane per realizzare nel complesso il profilo educativo, culturale e professionale terminale e gli obiettivi specifici di apprendimento dell’indirizzo di studi in cui presta il proprio servizio. A causa di questa seconda implicazione, è naturale, quindi, aspettarsi che un docente di italiano e storia o di matematica, per esempio, debba promuovere, se così si stabilisce nella programmazione didattica collegiale, anche sensibilità estetiche, conoscenze geografiche, riflessioni morali, abilità operative, atteggiamenti sociali ecc. richiesti nel profilo educativo, culturale e professionale o contemplati negli obiettivi specifici di apprendimento, ancorché non riferibili, in senso stretto, né alla sua classe di abilitazione, né ad un’altra disciplina prevista in maniera formale nel piano degli studi. D’altra parte, non esiste una conoscenza o una abilità stabilità che sia riconducibile in maniera univoca e biunivoca ad una sola ed esclusiva dimensione disciplinare: ogni conoscenza e ogni abilità, anche la più semplice e la più nitidamente disciplinare, è sempre una complessità che si contestualizza in una serie di rimandi che giungono fino all’unità della cultura umana e che, dunque, mostrano sempre visibili segni di relazione con dimensioni non solo logico-formali (pluri e interdisciplinari), ma anche affettive, estetiche, etiche, sociali, tecniche, perfino religiose (se, come ha ammonito Bettelheim, non è nemmeno possibile insegnare le tecniche della lettura se chi le apprende non le inserisce in una più grande e generale motivazione alla propria salvezza);
      • la definizione degli standard relativi alla qualità del servizio che deve essere assicurato da ogni istituzione scolastica (art.8, Dpr. 275/99, comma 1, punto f). Con l’espressione «standard relativi alla qualità del servizio», si devono intendere gli standard di prestazione relativi al funzionamento della scuola e alle prestazioni dell’insegnamento. In particolare, nella nostra ipotesi: l’offerta obbligatoria dei Laboratori, il tutorato per gli allievi, determinate prestazioni di insegnamento (per esempio: in nessuna scuola si insegni fisica senza la disponibilità del relativo laboratorio e senza che il docente lo utilizzi almeno una volta al mese). Lo scopo di queste disposizioni è permettere alla comunità sociale, alle famiglie e agli studenti di esercitare non soltanto il tradizionale diritto al mugugno, ma ben più corposi e non evanescenti servizi consacrati a veri e propri interessi legittimi da rivendicare, protetti dalla legge;
      • gli «indirizzi generali circa la valutazione degli alunni e il riconoscimento dei crediti e dei debiti formativi» (art.8, Dpr. 275/99, comma 1, punto g), con conseguente determinazione (art.10 dello stesso Dpr) dei «nuovi modelli per le certificazioni» che, nella nostra ipotesi, devono permettere a chiunque (allievo, genitore, comunità sociale) di capire: a) le capacità che, secondo la scuola, ogni allievo mostra di possedere; b) il grado delle conoscenze (sapere) e delle abilità (saper fare) acquisito dall’allievo; c) le competenze finali maturate dall’allievo; d) i crediti formativi maturati e come sono stati certificati. Costituiscono indirizzi generali per la valutazione degli allievi anche i seguenti aspetti sui debiti e sui crediti: ambedue devono indicare quali siano gli obiettivi specifici di apprendimento da recuperare o da abbuonare; il recupero del debito deve essere certificato da chi lo assegna, mentre l’abbuono riconosciuto e valutato da chi lo riceve; i comportamenti che siano indice di impegno, responsabilità, partecipazione, costanza, coerenza ecc. vanno premiati e quelli di segno contrario sanzionati; il passaggio tra le classi interne dei bienni è indipendente dal numero di debiti assegnati nella seduta di scrutinio finale, la promozione al biennio successivo, però, è condizionata dal recupero di tutti i debiti accumulati nel biennio, salvo due, di cui uno anche relativo al comportamento; se alla fine del secondo anno del biennio, lo studente ha recuperato i debiti dell’anno precedente, ma ne ha accumulati due diversi, può essere ammesso al biennio successivo con obbligo di recupero di tali debiti nel primo anno: nel caso in cui non riesca nel compito scatta la ripetenza.
    3. Il terzo percorso disponibile per realizzare il profilo educativo, culturale e professionale terminale e gli obiettivi specifici di apprendimento di cui ai punti precedenti è quello facoltativo, da 0 a 300 ore annuali. Le scuole comprensive o le reti di scuole sono obbligate ad istituirlo nel territorio, ma gli allievi e le famiglie decidono se, quando, come e in quale scuola lo vogliono usufruire, anche tenendo conto di una negoziazione educativa da loro stipulata con i docenti dei figli. Oltre le 300 ore annuali le famiglie devono pagare il servizio nella misura stabilita dalle istituzioni scolastiche. È il percorso che, in mancanza di meglio, abbiamo chiamato dei Laboratori: Informatica, Attività motorie e sportive, Attività espressive (musica, pittura, disegno, teatro, fotografia, cinema… ), Lingue, Attività di progettazione (di artefatti manuali o simbolici, di interventi di azione sociale, di soluzioni produttive e gestionali, di stage aziendali, del proprio progetto di vita, professionale e no, ecc.), Recupero e sviluppo degli apprendimenti. In mancanza di meglio, perché non vorremmo che si intendesse, con questo, che il percorso obbligatorio debba strutturarsi senza attività laboratoriali. Il contrario. Esse devono essere, invece, una costante di tutto l’insegnamento. Questi Laboratori facoltativi potranno essere impiegati anche per lo svolgimento del percorso obbligatorio. Inoltre, tale percorso obbligatorio potrà e dovrà, a seconda delle circostanze, anche prevedere altre tipologie laboratoriali aggiuntive (si pensi ai Laboratori scientifici di fisica, chimica, fisica, biologia, scienze della terra, o ai Laboratori geografici o storici ecc.). Ciò che differenzia la parte laboratoriale ordinaria obbligatoria e quella tipica del percorso facoltativo è una duplice caratteristica. La prima. Mentre il percorso obbligatorio si regge organizzativamente sulla dimensione dell’istituto e della classe, il percorso facoltativo si sposta sulla dimensione della rete territoriale e dei gruppi (di livello, di compito, di elezione). L’ottica è quella dell’ottimizzazione delle risorse e della loro specializzazione. Inutile predisporre due Laboratori di attività motorie o espressive in istituzioni scolastiche vicine (dell’istruzione primaria o secondaria poco importa), magari senza poter offrire il meglio in termini di risorse, competenza professionale dei docenti e servizi, quando invece è sufficiente che i ragazzi dell’una scuola vadano nell’altra per trovare organizzato un servizio di eccellenza competitiva. Ogni istituzione scolastica, fra l’altro, potrà, nella rete, sviluppare al meglio la propria identità e tradizione, coltivando più un aspetto che l’altro, e stipulando accordi di programma per la gestione flessibile del personale, indipendentemente dal fatto di appartenere ad un ordine e grado di scuola piuttosto che ad un altro. Seconda caratteristica. Se il profilo educativo, culturale e professionale terminale dell’allievo e gli obiettivi specifici di apprendimento dettati a ritmo biennale per la componenti formative linguistico-letteraria, scientifico-matematiche e storicosociali e a ritmo quadriennale per le altre sono vincoli di risultato inaggirabili per tutti gli allievi, è non meno vero che non tutti i ragazzi hanno bisogno dello stesso tempo e godono delle stesse opportunità familiari e ambientali per acquisirli. D’altra parte, molti allievi possono anche essere interessati a percorsi di eccellenza o ad un ampliamento delle proprie competenze. Infine, bisogna anche considerare che non tutti i ragazzi sviluppano nello stesso tempo motivazioni per le stesse attività di studio e di approfondimento. Avere a disposizione uno strumento flessibile come il percorso facoltativo aiuta le famiglie e la scuola a concretizzare la personalizzazione dei processi di apprendimento e di maturazione. Inutile sottolineare la grande responsabilità affidata, in questo modo, ai docenti e alle istituzioni scolastiche. Non solo devono sollecitare le famiglie, coinvolgendole con continuità nella comunicazione del grado di approssimazione con cui i figli si avvicinano, o meno, agli obiettivi specifici di apprendimento stabiliti, biennali o quadriennali che siano, ma devono negoziare con esse i modi migliori per programmare, nel tempo biennale o quadriennale, con reciproca soddisfazione e in piena affidabilità didattica, i percorsi formativi più adatti a ciascun ragazzo. Esiste, quindi, una parte del piano di studi che chiama fortemente in causa i ragazzi, i docenti, le famiglie, il territorio, e invita ciascuno di questi attori a confrontarsi al meglio possibile con l’autoorganizzazione, la responsabilità personale e la cooperazione formative. Va segnalato, infine, che il percorso facoltativo, con i relativi Laboratori, può diventare anche un’occasione per una funzione imprenditiva delle istituzioni scolastiche, al servizio dell’educazione permanente e ricorrente, per gli adulti e per gli anziani. Niente impedisce, infatti, di immaginare che la scuola possa offrire a pagamento molti dei corsi e dei servizi che progetta per gruppi di allievi anche a chi, nella comunità locale, fosse eventualmente interessato. In questa maniera, fra l’altro, al di là delle dimensioni economiche del fenomeno, che rimarranno probabilmente sempre modeste, si avrebbe un rilevante incentivo a rendere sistematico il rapporto scuola territorio e a radicare ogni istituzione scolastica nella comunità di appartenenza.

     

I piani di studio nel sistema della formazione.

Tenendo conto della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 e, allo stesso tempo, avvalorando le specificità metodologiche e didattiche espresse della migliore tradizione della formazione professionale, dell’istruzione professionale e di quella parte ancora consistente di istruzione tecnica (un buon 50% di quella esistente) rivolta alla creazione di figure immediatamente professionali e spendibili sul mercato del lavoro, non si può immaginare che i piani di studio del sistema educativo di formazione siano semplicemente una calco di quelli ipotizzati per il sistema dell’istruzione. Tuttavia, se si vuole che le Qualifiche e i Diplomi secondari e superiori, a tempo pieno o in alternanza, siano corrispondenti a standard nazionali e, ancor più, si meritino, come è opportuno, il riconoscimento della normativa europea, si può congetturare che i piani di studio del sistema educativo di formazione possano essere così caratterizzati e articolati.

  1. Identificazione del profilo educativo, culturale e professionale finale degli allievi, a cui devono mirare i corsi di Qualifica e di Diploma secondari e superiori. I tre aggettivi non sono di circostanza: educazione, cultura e professione sono elementi che non esistono da soli, ma che si inverano l’uno nell’altro. Tali profili, oltre che considerare le differenze esistenti nella durata e nella tipologia degli istituti di formazione, non possono non scaturire da una concertazione che vede coinvolte le regioni, lo stato, gli istituti stessi, il mondo del lavoro e delle professioni (comprese quelle dei docenti), le parti sociali. Per quelli della formazione superiore, va previsto il coinvolgimento obbligatorio anche delle università. Naturalmente, va preservata la spendibilità professionale della formazione. Il profilo educativo, culturale e professionale terminale, come già nel caso degli istituti del sistema di istruzione, assicura l’unità di senso e di indirizzo degli obiettivi specifici di apprendimento previsti nei diversi piani di studio. Inoltre, fino a 18 anni, per tutta la formazione secondaria, il fatto che il profilo educativo, culturale e professionale designi (punto m del nuovo art. 117 della Costituzione) uno dei «diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» e per i quali lo Stato è chiamato a determinare «i livelli essenziali delle prestazioni», implica non solo che obbedisca a standard nazionali ed europei predefiniti, ma che sia anche una verifica nazionale della corrispondenza finale tra i processi formativi di fatto attivati nei percorsi e il profilo educativo, culturale e professionale stesso. Diverso il caso della formazione superiore che non si rivolge a minori. Qui, la validità nazionale del profilo educativo, culturale e professionale, nella sue fasi della progettazione e della verifica, va concertata e autonomamente stabilita dagli attori stessi di tale formazione (le istituzioni scolastiche, le università, il mondo del lavoro e le parti sociali, le Regioni).
  2. Sembra comunque opportuno ricavare sempre dai profili gli obiettivi specifici di apprendimento che essi implicano. Per la formazione secondaria, la Repubblica (oramai «costituita da» e non più, come prima, ripartita in» Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato: art. 1 della legge 18 ottobre 2001, n. 3, che riformula il comma 1 dell’art. 114 della Costituzione) li detterà, poi, tutti o in parte, a seconda delle determinazioni legislative che si prenderanno, alle istituzioni del sistema educativo di formazione come obbligatori sull’intero territorio nazionale. Potrà accadere che una fetta variabile degli obiettivi in questione sia nazionale e una fetta delegata, invece, alla progettualità locale. Tali obiettivi sono, comunque, raccolti per ogni biennio nel caso di percorsi di formazione quadriennale e, al fine di favorire la permeabilità tra sistema dell’istruzione e della formazione, alla fine dei primi due anni e alla fine del terzo anno per i corsi triennali di Qualifica e del monoennio successivo di specializzazione per il Diploma secondario. Sono dettati in unica soluzione, di seguito al profilo educativo, culturale e professionale terminale, invece, per i corsi della formazione superiore, di qualunque durata essi siano. Gli obiettivi specifici di apprendimento sono costituiti da conoscenze (di avvenimenti, di concetti, di leggi, di teorie ecc.) e da abilità (disciplinari, interdisciplinari, transdisciplinari), definite ambedue in termini operativi e di prestazioni standard, da richiedere agli studenti. Gli istituti del sistema educativo di formazione, a partire da un’esplorazione delle capacità dei loro allievi, sono chiamati, per le prerogative dell’autonomia didattica, a trasformare questi obiettivi specifici di apprendimento prima in obiettivi formativi (art. 13 del 275/99), ovvero in compiti di apprendimento realmente significativi e accessibili ai ragazzi concreti che si hanno dinanzi, e dopo, alla fine delle attività educative e didattiche intraprese e programmate secondo autonome determinazioni di tempo e di spazio, in competenze degli allievi che è loro dovere certificare, coinvolgendo gli stessi soggetti che hanno contribuito a redigere il profilo educativo, culturale e professionale terminale e gli obiettivi specifici di apprendimento che contiene. Gli obiettivi specifici di apprendimento sono anche la base impiegata dal Servizio Nazionale per la Qualità del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione per definire le prove delle verifiche sistematiche dell’apprendimento condotte a livello nazionale. Va indicato tra gli obiettivi specifici di apprendimento degli istituti del sistema educativo della formazione anche la circostanza di prevedere, almeno nel primo biennio della formazione secondaria, un elemento di attrazione e di ordinamento unitario degli obiettivi stessi. Elemento che varia, ovviamente, a seconda degli ambiti formativi e dei bienni e che, in ogni caso, nella prospettiva di favorire i passaggi, è opportuno identificare tenendo conto delle analoghe scelte condotte a livello di primi due anni del sistema di istruzione.
  3. Allo scopo di realizzare il profilo educativo, culturale e professionale terminale e gli obiettivi specifici di apprendimento di cui ai punti precedenti, i piani di studio della formazione secondaria, al pari di quelli ipotizzati per l’istruzione secondaria, contemplano tre percorsi formativi che si devono integrare e far sempre interagire, sebbene con le opportune specificità.
    1. Il primo è quello di responsabilità della famiglia, delle politiche sociali e ambientali. Con appositi incentivi, come si diceva, si tratta di creare le occasioni perché genitori, mass media, attori sociali, imprese, enti locali, centri culturali, imprenditori del tempo libero ecc. possano diventare risorsa culturale ed educativa per gli allievi, e si facciano sempre più carico della loro maturazione.
    2. Il secondo percorso è quello obbligatorio per tutti, di responsabilità delle istituzioni del sistema educativo di formazione secondaria. Esso indica:
      • il numero delle ore annuali di lezione assicurate a tutti gli studenti (990 annuali);
      • l’elenco delle discipline di insegnamento e delle attività (stage aziendali compresi) obbligatorie su tutto il territorio nazionale, con l’indicazione, data la peculiarità della formazione rispetto all’istruzione, peculiarità che esige un maggior adattamento alle realtà territoriali, delle ore minime da riservare a ciascuna di esse nell’arco della durata del percorso di formazione;
      • la definizione degli standard relativi alla qualità del servizio che deve essere assicurato da ogni istituzione formativa;
      • gli «indirizzi generali circa la valutazione degli alunni e il riconoscimento dei crediti e dei debiti formativi» così come sono stati indicati per gli istituti del sistema di istruzione.
    3. Il terzo percorso disponibile per realizzare il profilo educativo, culturale e professionale terminale e gli obiettivi specifici di apprendimento di cui ai punti precedenti è quello facoltativo. Gli istituti del sistema educativo di formazione sono obbligati a mettere a disposizione di allievi e famiglie da 0 a 300 ore annuali di Laboratori che essi consumano se, quando, come e in quale istituto vogliono, in base alle loro necessità e in base alla negoziazione formativa stipulata con i docenti (oltre le 300 ore annuali le famiglie devono pagare il servizio nella misura stabilita dalle istituzioni scolastiche). Valgono anche per questi Laboratori le avvertenze già formulate per quelli relativi al sistema educativo di istruzione. Una sottolineatura, comunque, merita quello relativo al Recupero e sviluppo degli apprendimenti la cui funzione risulta strategica allo scopo di concretizzare ordinariamente il diritto non solo al recupero o allo sviluppo in discipline e attività previste nel piano di studi degli istituti di formazione, ma anche alla transizione reciproca tra il sistema educativo di istruzione e di formazione. Assume, quindi, una funzione strutturale molto più solida delle attuali ‘passerelle’, già nel nome pregiudicate da un alone di precarietà. Inutile sottolineare, infine, che, soprattutto nel sistema educativo di formazione, gli istituti possono esaltare la propria imprenditorialità, ‘vendendo’ formazione al territorio, al mondo della imprese e alla comunità sociale non solo con i Laboratori del percorso facoltativo, ma, forse, ancora di più, con quelli ordinari previsti nel percorso obbligatorio.

Iniziative di sostegno all’azione dei docenti e delle scuole.

L’autonomia organizzativa, didattica, finanziaria e di ricerca e sviluppo inserita nel quadro riformatore che si è abbozzato impongono alle istituzioni scolastiche e ai docenti numerose sfide professionali. Queste sfide è difficile che possano essere raccolte e vinte senza un adeguato e diffuso servizio di sostegno culturale e tecnicoprofessionale.

È prevedibile, ad esempio, che i piani di studio delle istituzioni del sistema educativo di istruzione e di formazione possano suscitare numerosi problemi applicativi. Sembrerebbe prudente, quindi, accompagnarne la mesa a regime con apposite Raccomandazioni. Come annuncia il termine, si tratterebbe di consigli pedagogici e psicologici, di presentazione di modelli organizzativi, itinerari metodologici e didattici privi di valore normativo, ma che possono svolgere un positivo ruolo orientativo o, se non altro, di stimolo per la discussione e il confronto. Il Ministero dell’Istruzione e gli altri organi della Repubblica competenti per il sistema educativo di formazione mettono le Raccomandazioni a disposizione dei docenti e dell’amministrazione delle istituzioni scolastiche e formative per accompagnare al meglio possibile l’attività dei docenti e la responsabilità di tutti gli attori del processo educativo.

Un altro esempio di sfida professionale che non si può lasciare alle sole forze dei docenti e delle scuole riguarda la connessione progettazione, programmazione, verifica, valutazione che i nuovi piani di studio esigono nel doppio ritmo biennale e quadriennale. Sia per le scuole che, incrociando i dati della valutazione esterna con quella interna, scoprono problemi didattici o strutturali che non riescono a risolvere, sia per i docenti che si sentono sopraffatti dalla complessità delle situazioni educative e didattiche che sono chiamati a progettare e a programmare, è necessario, perciò, predisporre iniziative di sostegno non episodiche, ma sistematiche e basate su alti, ancorché operativi, livelli di ricerca e di professionalità.

Scuola dell’infanzia.

Natura.

La scuola dell’infanzia partecipa alla funzione critica generale del sistema educativo di istruzione e di formazione, non dissimulando, tra tutti gli altri strumenti di intervento a sua disposizione, la centralità della strategia del gioco. Nel gioco, i bambini, contemporaneamente, pensano, imparano, sentono, esprimono, producono, agiscono, progettano, si relazionano con gli altri, diventano autonomi, pregano. A partire dal gioco dei bambini, quindi, spontaneo e organizzato, la scuola può inaugurare il proprio percorso educativo fatto di riflessioni ed azioni intenzionali via via più coinvolgenti. Questo impedisce di adottare, in questa scuola, la logica molto strutturata dei piani di studio pensati per il sistema di istruzione, magari con tanto di quota nazionale e quota locale, ma ripropone, aggiornata, quella già da tempo attiva degli Orientamenti per l’attività educativa.

Il carattere allo stesso tempo spontaneo e volontario del gioco, inoltre, induce a difendere, sul piano istituzionale, il carattere facoltativo della scuola dell'infanzia: l’adesione alla sua offerta formativa deve restare spontanea e volontaria, contemporaneamente manifestazione di libertà e di responsabilità.

Poiché, tuttavia, non esiste, per il bambino, nulla di più serio dell’attività ludica, per lui è sempre una grande sfida sociale, morale e scientifica, si tratta di garantire questa stessa condizione di serietà sul piano dell’organizzazione complessiva della scuola dell’infanzia. Per questo, è necessario evitare che il processo educativo proposto dai 3 ai 6 anni possa risultare il frutto di improvvisazioni più o meno assistenziali e di interventi professionali non legittimati in maniera adeguata sul piano scientifico. Occorre, al contrario, che sia il risultato di solide esplorazioni culturali, psicologiche, pedagogiche e didattiche e di mirati interventi sociali (rapida generalizzazione della scuola dell’infanzia) che pongono al servizio dello sviluppo di tutti i bambini italiani un itinerario unitario e progressivo di attività capaci di fare sintesi tra individualità e socialità, libertà e autorità, informalità e organizzazione, cultura e natura, volontà e spontaneità.

Perché il credito formativo?.

La legge 30/2000 ha riconosciuto l’appartenenza di questa scuola al «sistema educativo di istruzione» (art. 1, c. 2). La frequenza di ben tre anni di scuola dell’infanzia, tuttavia, per questa legge, continua a non valere nulla ai fini «dell’obbligo scolastico che inizia al sesto anno e termina al quindicesimo» (art. 1, c. 3). Inoltre, tacendo sulla formazione iniziale dei docenti che vi insegnano ed interessandosi soltanto dei «titoli universitari e dei curricoli richiesti per il reclutamento degli insegnanti della scuola di base» (art. 6, c.8), ha finito per giustificare l’antico pregiudizio secondo il quale, per insegnare ai bambini, servono meno competenze culturali e professionali che per insegnare ai fanciulli e ai preadolescenti.

Con la proposta di considerare la frequenza del triennio della scuola dell’infanzia come un credito valido ai fini della soddisfazione del diritto/dovere all’istruzione e/o formazione necessaria per acquisire una Qualifica entro il 18° anno di età (art. 68, c. 1 della legge n. 144/99), si riescono a raggiungere cinque risultati che, per il Grl, non vanno sottovalutati:

Nel merito, poi, l’intenzione della proposta del credito formativo non è quella di scambiare i guadagni conoscitivi, affettivi, relazionali, morali, operativi ecc. che la frequenza della scuola dell’infanzia permette a tutti i bambini e, in particolare, a quelli che si trovano in situazione di svantaggio con un qualsiasi accorciamento istituzionale del piano degli studi di istruzione primaria e secondaria di I grado e di formazione secondaria. La logica è un'altra. Si tratta di corroborare anche con un pubblico riconoscimento formale, appunto l’anno di credito formativo, il principio per il quale la frequenza della scuola dell’infanzia è un valore in sé per la crescita del bambino. Essa è un immediato compenso a se stessa proprio perché la seconda infanzia è una delle età più fertili della vita. Infatti, eventuali programmi di sviluppo delle capacità linguistiche, logiche, espressive, sociali, affettive, etiche, motorie della persona e, a maggior ragione, eventuali programmi compensativi per deficit di sviluppo accumulati in questi campi dai bambini per ragioni genetiche, neurofisiologiche o, peggio, familiari e sociali hanno tante più speranze di successo quanto più sono precoci e ben organizzati sul piano pedagogico. Dopo i cinque anni, a questo riguardo, tutto diventa più difficile e lento. È vero, viste le altissime percentuali di frequenza della scuola dell’infanzia, si potrebbe obiettare che non serve il riconoscimento formale di un anno di credito nel percorso di istruzione/formazione necessario per l’acquisizione di una Qualifica allo scopo di allargare tra le famiglie e nel corpo sociale le consapevolezze pedagogiche appena menzionate. Esse sono già opinione tutto sommato comune. La generalizzazione del servizio su tutto il territorio nazionale, così indispensabile per spostare le percentuali di frequenza dalla quasi totalità alla totalità dei bambini dai 3 ai 6 anni, potrebbe, del resto, essere promossa indipendentemente dal riconoscimento formale del credito.

Il ragionamento, tuttavia, se vero, è anche aristocratico. Quasi un respingere la sanzione positiva di un riconoscimento di legge per rivendicata autosufficienza morale. Non si vede, però, perché introdurre a pieno titolo la scuola dell’infanzia nel novero delle esperienze formative che possono definire il diritto di cittadinanza configurato dall’obbligo di istruzione/formazione stabilito dalla legge possa risultare problematico e compromettere il valore morale e pedagogico di questa scuola. Perché, poi, d’altra parte, sarebbe legittimo considerare spendibile ai fini del diritto/dovere delle attività formative di cui parla l’art. 68, c. 1 della legge n. 144/99 l’apprendistato dai 15 ai 18 anni e non una straordinaria esperienza triennale come quella della scuola dell’infanzia? Solo perché l’articolo in questione è il frutto di un accordo sul lavoro tra Governo e parti sociali?

Si potrebbe obiettare, sul mero piano della contabilità, in verità, che tre anni di frequenza della scuola dell’infanzia conterebbero come quella di un anno di scuola elementare o media o come tre di apprendistato. Dunque, al posto di avvalorarla, si confermerebbe una qualche forma di minorità per l’esperienza formativa condotta dai 3 ai 6 anni. Ma a parte il fatto che anche oggi, a legislazione invariata, per un quattordicenne che avesse concluso felicemente la terza media, poco meno di due anni di formazione professionale che dia una Qualifica regionale gli permetterebbero di aver assolto l’obbligo formativo, e quindi se tre valeva uno per la scuola dell’infanzia qui ci troviamo ad aver assolto quattro di obbligo formativo (dai 14 ai 18) con meno di due, il problema, a maggior ragione per la scuola dell’infanzia, vista anche la storia da cui proviene, è più di qualità che di quantità.

Si tratta di riconoscere che un costume sociale positivo, quello già adottato senza nessun obbligo e nessun credito dall’87% delle famiglie italiane, merita di essere sostenuto e generalizzato anche con l’aiuto di una norma. Per una tradizione che, finora, ha spesso accoppiato il concetto di obbligo scolastico a quello di coscrizione obbligatoria, utilizzando la norma per modificare il costume, abbracciare il contrario non pare un messaggio sociale e culturale da sottovalutare.

Per la prima volta si affermerebbe, infatti, in maniera quasi plastica, il principio che vuole l’istruzione e la formazione delle persone non più un obbligo di legge che commina pene a chi lo vìola, ma un diritto esercitato in libertà e gratuità, senza secondi fini, dai soggetti (tramite le famiglie); diritto che merita la sanzione positiva della legge per il suo significato sociale e politico, prima ancora che pedagogico. Se quest’inversione diventasse costume non solo a livello di scuola dell’infanzia, ma anche al livello dell’istruzione e della formazione successive, infatti, si realizzerebbe l’eccezionale condizione di una società civile nella quale le famiglie e i soggetti agirebbero per il bene comune individuale e collettivo in nome dell’autonomia, della libertà, della responsabilità e dell’autogoverno, e non più per la deterrenza più o meno persuasiva della legge.

Organizzazione.

Anche nel nuovo contesto, l’impianto organizzativo della scuola dell’infanzia resterebbe quello attuale. Nessuna scimmiottatura scolasticistica. Così come sembra una contraddizione con lo spirito complessivo della scuola dell’infanzia facoltativa ragionare in termini di orario obbligatorio e orario aggiuntivo: meglio, forse, offrire alle famiglie un servizio oscillante tra le 1000 e le 1800 ore, articolate nell’arco dell’anno e della settimana come più servono alla risoluzione dei problemi educativi dei bambini (molte famiglie, soprattutto per il primo anno, preferiscono un inserimento morbido del figlio, e un orario giornaliero flessibile e leggero).

Al contrario, esistono buone ragioni per rendere più espliciti di adesso, anche in senso operativo, gli «avvertibili traguardi di sviluppo» del bambino a cui i docenti e le famiglie devono mirare entro il sesto anno d’età. Ciò permetterebbe un più chiaro patto educativo della scuola dell’infanzia non solo con le famiglie, ma anche con il territorio. Inoltre, di incrementare sia le pratiche dell’autovalutazione della qualità educativa e didattica del percorso 3-6, sia quelle della valutazione esterna, in rapporto alle iniziative di controllo degli apprendimenti intraprese dal Servizio Nazionale per la Qualità del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione all’inizio della 1° classe dell’istruzione primaria. Nella prospettiva della generalizzazione del servizio, infine, favorirebbe un avvio della scuola primaria che, in tutte le zone del Paese, poggi su livelli di ingresso di apprendimento e di maturazione più solidi ed estesi degli attuali.

Gli Orientamenti per l’attività educativa diventerebbero una delle Raccomandazioni attraverso le quali il Ministero accompagnerebbe l’introduzione della riforma e sosterrebbe l’autonomia dei docenti e delle scuole.

Istruzione primaria

La distinzione tra istruzione primaria e secondaria si basa, da lungo tempo, su argomenti di epistemologia genetica. La prima si confronta con un’intelligenza ancora operativa, la seconda con un’intelligenza che ha raggiunto il traguardo del pensiero formale. La prima tratta con un fanciullo che, sul piano della maturazione affettiva, si trova in una fase, per così dire, di ‘latenza; la seconda deve affrontare profonde e talvolta, per i soggetti, sconvolgenti, trasformazioni puberali. Si potrebbe continuare con altri tratti della medesima natura. Nonostante tutte le revisioni scientifiche subite da questo genere di argomenti, revisioni che ne hanno molto attenuato lo schematismo, risulta, però, tutto sommato, ancora impossibile sostenere che non siano convincenti. Vanno, quindi, considerati acquisiti.

Per ragioni che non è il caso di richiamare in questa sede, invece, è un fatto che si sono sempre più affievoliti, nell’opinione professionale comune, gli argomenti di epistemologia della conoscenza che giustificano una distinzione tra sapere primario e sapere secondario. È, dunque, soprattutto a questi che, nel presentare, seppur in breve, la natura dell’istruzione primaria e di quella secondaria faremo riferimento.

Natura.

L’istruzione primaria aiuta gli allievi a rendere esplicite le conoscenze e le pratiche implicite assorbite dalle prassi familiari, ambientali e sociali in cui essi vivono. Parte, quindi, dall’esperienza vitale degli allievi, interna ed esterna, individuale e sociale; riflette su di essa, per scoprire, nel dialogo e nella reciproca discussione, se e quanto è costituita di credenze, certezze, abitudini, fantasie, pregiudizi, stati d’animo, automatismi, pratiche tacite o esperte, gusti, vizi e virtù. Ritorna, quindi, all’unità e alla totalità dell’esperienza vitale di ciascuno, riqualificandola e accrescendone, con una più forte consapevolezza critica, gli orizzonti di senso. Un maturare, quindi, insieme, come persone, in un ambiente, impadronendosi delle intenzionalità morali, culturali e sociali in esso sedimentate, delle produzioni collettive di simboli che esprime e degli strumenti fondamentali, a partire dalla lettura/scrittura, dal calcolo logico-matematico e dalle regole di comportamento, necessari per accedere alle prime e alle seconde. Un costruire volontariamente il mondo di cui si fa esperienza in modo per lo più involontario, perché non si presta attenzione a ciò che si fa, a come lo si fa e perché. In questo senso, l’istruzione primaria è il fondamento su cui si può innalzare l’edificio dell’istruzione e della formazione davvero secondarie. Nello stesso senso, non può essere fondata sulle discipline già formalizzate proprio perché si tratta di creare le condizioni logiche ed epistemologiche perché questa operazione sia resa successivamente possibile e diventi proficua.

Organizzazione.

In questa fase dello sviluppo del processo riformatore, si reputa prudente confermare la durata quinquennale dell’istruzione primaria e il ruolo in essa svolto dai maestri. Poiché si tratta di preparare il terreno ad un’organizzazione del sapere critico fondata sulle discipline, la scuola primaria presenta piani di studio che si aprono esplicitamente a queste ultime solo nell’ultimo anno. La circostanza giustifica la proposta di articolare in maniera coordinata, unitaria e progressiva i piani di studio dell’istruzione primaria e dell’istruzione secondaria di I grado. Assume, perciò, un ruolo centrale la 5° classe dell’istruzione primaria, per certi aspetti già primo anno di un’istruzione secondaria di I grado. Dalla 1° classe dell’istruzione primaria alla 3° classe dell’istruzione secondaria di I grado si può, quindi, procedere ad un articolazione biennale degli obiettivi specifici di apprendimento e delle attività di insegnamento.

Nel primo biennio, con una forte attenzione alle diverse identità anche biografiche dei bambini e ai loro diversi stili di apprendimento, si consolida la padronanza strumentale dei processi linguistici, logico-matematici e di relazione con gli altri, il territorio e la società locale.

Nel secondo biennio, proprio grazie alla padronanza strumentale consolidata nel precedente, è possibile esplorare tutte le dimensioni simboliche della cultura di cui ciascuno fa memoria e nella quale agisce. Sé, gli altri che si incontrano, vicini e lontani, gli oggetti, la tecnica, l’arte, l’ambiente, la società, il mondo: tutti incontri che mandano l’eco di bisogni, richiedono risposte, stimolano rappresentazioni e narrazioni di un senso complessivo che bisogna imparare ad interpretare e con cui non si può fare a meno di interloquire. Si passa dalle idee e dalle teorie personali sulle cose, sulle persone e sul mondo, attraverso il confronto con le idee e teorie altrui, per giungere all’elaborazione di reti semantiche progressivamente più ampie e argomentabili, ormai nettamente indirizzate verso le formalizzazioni disciplinari.

All’ultimo anno, si incontra, perciò, la realtà organizzata attraverso il punto di vista sintattico e semantico delle discipline di studio, ciascuna con un proprio oggetto formale, con un proprio metodo e linguaggio.

Gli obiettivi specifici di apprendimento linguistici, matematico-scientifici e relativi ai temi dell’identità storico-sociale sono articolati in bienni; quelli degli altri settori formativi richiesti dal profilo educativo, culturale e professionale terminale di alunno che si intende promuovere entro la fine della 3° media, lingua straniera compresa, sono indicati per il primo quadriennio (e per la 3° media).

La progettazione generale dei percorsi didattici e la programmazione specifica delle tappe che li devono contraddistinguere allievo per allievo, quindi, dovrà prevedere due velocità, ambedue negoziate con i genitori, anche tenendo conto dell’offerta formativa facoltativa dei Laboratori: una biennale e l’altra quadriennale. La velocità quadriennale può essere costante anno dopo anno, settimana dopo settimana, oppure subire accelerazioni ed espansioni modulari. I moduli intensivi si possono svolgere anche nei periodi di sospensione delle lezioni.

Grazie ai Laboratori e alla stretta collaborazione con le famiglie, l’istruzione primaria è anche le sede più adatta all’individuazione dei talenti artistici e musicali precoci. L’autenticazione e la coltivazione di tali dotazioni va condotta nell’orario facoltativo e, possibilmente, nel Laboratorio artistico o musicale più specializzato in proposito, disponibile sul territorio.

All’inizio della 1°, 3° e 5° classe il Servizio Nazionale per la Qualità del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione, tra il 1° e il 10 settembre, sottopone agli allievi le prove di verifica sulle conoscenze e sulle abilità acquisite nel triennio (nel caso della scuola dell’infanzia) o nei bienni precedenti (nel caso dell’istruzione primaria). In 1° classe si potranno adoperare strumenti misti: prove da sottoporre a bambini che non sanno ancora leggere e scrivere; schede di osservazione relative a conoscenze e abilità possedute dai bambini, compilate dai docenti.

I docenti utilizzeranno i risultati delle prove per progettare e programmare in maniera viepiù personalizzata e qualitativa l’itinerario didattico del biennio che si apre. Fatto salvo il ruolo insostituibile dell’équipe pedagogica nei compiti di insegnamento, si conferma l’opportunità di identificare sempre, in ogni gruppo docente di classe, un docente coordinatore. Tale docente sarà anche temporalmente prevalente nel I biennio (21 ore di insegnamento frontale in una classe e 3 delle sue ore di servizio dedicate al coordinamento dell’équipe pedagogica della classe stessa, composta a volta a volta da qualche docente dei Laboratori oltre che, eventualmente, da quelli di Religione cattolica e di Sostegno). L’insegnamento frontale del docente coordinatore di una classe scenderà fino ad un minimo di 15 ore nel II biennio, per cui sarà affiancato da un altro docente, oltre che dai membri che insegneranno anche nei Laboratori, dai maestri di Religione cattolica e Sostegno; in V istruzione primaria, infine, sempre coordinando ai fini dell’unità delle prestazioni didattiche di classe l’attività dei colleghi dei Laboratori, di Religione e di Sostegno, il docente coordinatore dividerà le 25 ore settimanali obbligatorie di insegnamento frontale con altri due colleghi (Lingua, Matematica e scienze, Storia, geografia e studi sociali). Naturalmente, il docente che coordina nel primo biennio, potrà essere coordinato nel secondo e nel terzo, e viceversa. Saranno poi le scuole a decidere se e come chi comincia l’insegnamento nel primo biennio possa proseguire con la stessa classe fino alla V e a trovare le formule organizzative e gestionali più adatte a garantire il principio della continuità didattica dei docenti e della progressiva diminuzione dell’orario frontale del docente coordinatore dalla 1° alla 5° classe.

Resta inteso, ovviamente, visto che il terzo biennio costituisce un’unità sul piano didattico, che il docente coordinatore della V classe parteciperà alle sedute di progettazione, programmazione e valutazione intermedia e finale dei docenti della 1° media, mentre il coordinatore designato di questi ultimi parteciperà alle sedute di progettazione, di programmazione e di valutazione intermedia e finale predisposte dai docenti della 5° classe dell’istruzione primaria. Ciò perché è indispensabile che si crei una abitudine alla continuità non solo negli istituti comprensivi, ma anche in nei rimanenti, e perché gli obiettivi specifici di apprendimento dettati per la fine della 1° media devono essere distribuiti in maniera equilibrata, al servizio dell’apprendimento degli allievi, nell’arco del biennio.

Dall’istruzione primaria all’istruzione/formazione secondarie: significato di una transizione.

Nell’istruzione primaria, i fanciulli partono da una concezione del mondo caratterizzata da presupposti ontologici molto forti e per lo più impliciti. Per questo sottratti a una effettiva possibilità di controllo critico. Rendere espliciti questi presupposti e riuscire a darne ragione nei loro limiti e nelle loro potenzialità intersoggettive è il compito progressivamente caratterizzante l’istruzione e la formazione secondarie e superiori.

Oltre la coincidenza tra la realtà e la sua descrizione.

L’idea di fondo che caratterizza l’ontologia primaria è quella di una coincidenza tra la realtà e la nostra percezione di essa, tra la natura e la rappresentazione che noi ce ne facciamo. Ne consegue il convincimento che quella percezione e questa rappresentazione siano non solo non convenzionali, ma sostanzialmente non problematiche, in quanto sorrette da una sorta di isomorfismo tra la sensazione e la realtà esterna.

Passare da un’istruzione primaria a un’istruzione/formazione secondarie significa, anzitutto, rendersi conto che qualsiasi rappresentazione, anche quella iconica, non comporta affatto una trascrizione completa e fedele dell'oggetto che si vuole rappresentare, bensì una selezione di certe qualità o scopi di esso

Da questo punto di vista, l'immagine che, sulla base di una similarità ‘effettiva’ ma anche ‘assegnata’, trattiene talune proprietà dell'oggetto, diventa essa stessa modello. Se si intende, infatti, per modello un meccanismo esplicativo fondato su un uso regolato e controllato dell'analogia, allora è proprio l'immagine a funzionare da modello. L'analogia fra immagine e oggetto c'è, ma è regolata e controllata. Tale normativa di controllo discende appunto da convenzioni, da proprietà «assegnate», che determinano il modo in cui l'uomo socializzato filtra i dati della realtà e costruisce immagini che, anche se non ‘ingenuamente’ iconiche, tuttavia permettono ad altri uomini di maneggiare la stessa realtà.

All’interno di questo quadro di presa progressiva di distanza dal “naturalismo ingenuo”, che caratterizza la concezione del mondo del bambino e del fanciullo, si inseriscono le considerazioni sulle distorsioni che si verificano quando il soggetto si concentra su uno stimolo dato. In linea generale, si può dire che ogni stimolo su cui ci si focalizza viene sopravvalutato. Ma poiché la sopravvalutazione di uno stimolo non può essere valutata in assoluto, occorre chiedere al soggetto di confrontare lo stimolo con un altro: la sopravvalutazione è sempre relativa. Le cause di questi effetti di centramento sono molteplici: lo stimolo fissato dallo sguardo viene proiettato nella parte più sensibile della retina, contraddistinta da una maggiore densità di cellule fotosensibili. Lo stimolo che deve essere confrontato con altri viene a trovarsi nella posizione privilegiata di "campione": il tempo dedicato all'osservazione di uno stimolo può essere maggiore di quello dedicato a un altro, ecc. D'altro lato, esiste un fenomeno molto primitivo di amplificazione dei contrasti fra due stimoli: quello che sembra più grande, più importante, che viene percepito meglio perché più nitido, ecc., è sempre sopravvalutato rispetto all'altro. Gli effetti di centramento (o effetti di campo) sono quindi delle deformazioni fondamentali che il soggetto introduce nella sua percezione.

Partendo da queste premesse, passare da un’istruzione primaria ad un’istruzione/formazione secondarie significa cominciare a scandagliare le modalità attraverso le quali si è giunti, storicamente, a elaborare e a mettere a punto la descrizione scientifica del mondo, concentrando, in particolare, l’attenzione, sul processo di matematizzazione degli oggetti fisici e sulla conseguente costituzione di un modello che letteralmente rimpiazza gli oggetti reali. Il modello matematico s’impone, dunque, via via, come elemento di congiunzione, vero a proprio “interfaccia”, tra la realtà cui si riferisce e la dimensione sperimentale. La complessità dei risultati ottenuti da questo modello rende necessaria una loro analisi in forma logicamente organizzata e una verifica alla luce delle prove sperimentali disponibili, analisi e verifica che possono a loro volta innescare un processo iterativo di modifica del modello, sino a quando i risultati ottenuti su una classe significativa di casi di studio non siano ritenuti soddisfacenti da chi ha posto il problema e lo deve risolvere. Col costante incremento della complessità dei problemi da affrontare, che spesso richiedono di operare su un numero cospicuo di variabili, il ruolo dei modelli si rafforza e si amplia.

Siamo così di fronte a un processo che allunga progressivamente la catena di anelli che separano l’evento del mondo reale e quello della descrizione che ne viene offerta dalle teorie scientifiche e, a maggior ragione, ideologiche.

Consapevolezze della secondarietà.

L’istruzione e la formazione secondarie devono riuscire, da un lato, a dar conto delle ragioni di questa separazione, dall’altro a evidenziare come non vi sia nessuna impotenza conoscitiva dietro di essa. Essa, al contrario, deve venire presentata come la progressiva e positiva assunzione di consapevolezza del fatto che la realtà è inesauribile perché, per quante facce si scoprano di essa, non è possibile coglierle tutte e, soprattutto, tutte insieme contemporaneamente. Collocarsi in modo critico nel mondo significa accorgersi di questa dinamica, sperimentarla e superare ogni residuo egocentrismo cognitivo di tipo infantile.

Quest’ultima notazione evidenzia un altro aspetto, che deve costituire un ulteriore elemento fondante della consapevolezza di chi transita da un atteggiamento conoscitivo primario ad uno secondario, e cioè il fatto che, proprio perché la realtà è inesauribile, essa si presenta inevitabilmente, agli occhi di chi la indaga, come un sistema fondamentalmente incompleto, e dunque "aperto", una collezione indistinta di eventi dai contorni labili e porosi, che può venire di volta in volta e provvisoriamente percepita e assunta come un "insieme conchiuso" di variabili soltanto in virtù di una specifica "decisione" metodologica” da parte del soggetto conoscente. Per assumere questa decisione quest’ultimo deve selezionare quei tratti della realtà (oggetto di studio) che sono da lui considerati i più incisivi e pertinenti ai fini della migliore caratterizzazione di essa e collegarli tra loro attraverso una fitta rete di relazioni di connessione. In questo modo comincia a emergere una "forma", attraverso la quale si conferisce una specifica norma agli eventi e si dà ad essi una struttura. Ciò che ne può e ne deve emergere è la obbligata parzialità dei punti di vista che si è costretti ad assumere nei confronti della realtà medesima e la conseguente diversità dei metodi e dei linguaggio con cui tali punti di vista si possono costituire.

In questo senso, l’istruzione e la formazione secondarie servono per comprendere che non esiste un metodo valido in assoluto, ma ne esistono tanti quanti sono i punti di vista da cui ci poniamo per guardare i fatti e, soprattutto, le condizioni in cui ci troviamo nel guardarli. L’oggetto di studio che selezioniamo nella realtà e le condizioni in cui ci troviamo per e mentre lo studiamo implicano anche in maniera intuitiva la mobilitazione di metodi che non possono essere copia uno dell’altro.

Questa molteplicità di metodi e punti di vista va comunque inserita –ed è questa un’ulteriore consapevolezza che va sollecitata nel passaggio da una conoscenza primaria ad una secondaria -, in un quadro caratterizzato dal rimando della parte al tutto e del tutto alla parte, in cui cioè le prospettive parziali siano collegate e poste in relazione reciproca in un sistema integrato che non ambisca a presentarsi come loro sintesi, ma si preoccupi di chiarire e approfondire il ruolo e il significato dell’una anche sulla base dei nessi e dei raccordi con le altre. In questo senso l’istruzione secondaria deve essere orientata a comprendere non solo che ogni disciplina scientifica chiama interdisciplinarità, ma anche che la più completa interdisciplinarità domanda il salto transdisciplinare, il confronto con l’unità della cultura e con la sua totalità.

Istruzione secondaria

L’istruzione mira al conoscere, abbiamo detto. L’istruzione secondaria al conoscere secondario, alle sue forme, ai suoi problemi. Storicamente questa forma di conoscenza si ritrova emblematicamente rappresentata nelle discipline di studio e nell’organizzazione del sapere da cui sono nate e che esse suggeriscono. È naturale, quindi, aspettarsi che nell’istruzione secondaria le discipline di studio giochino un ruolo fondamentale nella maturazione delle consapevolezze che ineriscono ad una conoscenza che da primaria è chiamata a farsi, per tutti i giovani, secondaria.

Istruzione secondaria di I grado.

Il cammino sistematico verso la scoperta della secondarietà delle discipline, dei loro oggetti di studio formali, dei loro metodi e dei loro linguaggi comincia, abbiamo visto, in 5° istruzione primaria. Trova l’occasione di un primo bilancio orientativo in 3° media. L’insieme del piano di studi, perciò, deve consentire al preadolescente di incontrare le esperienze formative che lo introducono alla scoperta delle quattro consapevolezze prima ricordate e a tradurle in maturazione personale. Non è scopo dell’istruzione secondaria di I grado pretendere il passaggio dalla comprensione dei problemi anche epistemologici in discussione al loro giudizio. Già il comprenderli, tuttavia, implica forme di giudizio logico e morale che sarà poi cura del percorso secondario di II grado perfezionare e anche tecnicamente irrobustire, fino alla maturità. Sul piano ordinamentale, l’istruzione secondaria di I grado resta triennale. La conferma degli otto anni tra istruzione primaria e secondaria di I grado consente, tra l’altro, di eliminare i problemi didattici e relazionali che sarebbero scaturiti dall’onda anomala provocata dal piano di fattibilità della legge 30/2000, di cui il Grafico n. 5 offre una rappresentazione. I professori insegnano dalla 1° alla 3° media.

Grafico 5

Anche nella scuola media, come nella primaria, va formalizzata la responsabilità del docente coordinatore di classe, incaricato non solo, se della classe 1°, di partecipare alle attività di programmazione/valutazione della 5 elementare di riferimento, ma, in particolare, di garantire un adeguato tutorato agli allievi e alle famiglie in ordine alla composizione integrata dei percorsi obbligatori, facoltativi ed extrascolastici, utilizzabili per concretizzare il profilo educativo, culturale e professionale terminale e gli obiettivi specifici di apprendimento dettati per la 1° e la 3° media.

A livello di piani di studio, se la 1° media è molto più collegata alla 5° elementare, la 2° e la 3° media costituiscono un biennio orientativo. Il carattere orientativo è intrinseco allo studio delle discipline condotto nel percorso obbligatorio. Esso è, però, anche il portato delle attività interdisciplinari volte alla scoperta di sé (un sé che è sottoposto agli straordinari dinamismi delle trasformazioni sessuali, e che cambia stili di apprendimento, interessi, abitudini, sentimenti, immagine di sé) e, nondimeno, alla scoperta del mondo in generale (contatti, scambi ecc.) e della produzione umana in particolare (visite ai diversi ambienti della produzione, dall’azienda familiare ed artigiana alla fabbrica; visita anche ai diversi ambienti della produzione intellettuale: laboratori di ricerca, università, scuole secondarie, biblioteche, musei didattici ecc.). Queste attività possono essere amplificate nella loro efficacia con un impiego accorto del percorso facoltativo. A scelta della famiglie e degli allievi, infatti, la scuola può dedicare una quota delle 300 ore annuali all’approfondimento parziale o totale di discipline che suscitano la curiosità degli allievi, e di esperienze di specifico interesse personale. Questi approfondimenti possono cambiare nell’arco del biennio terminale e quindi consentire una scelta responsabile e già, per certi aspetti, collaudata che il portfolio delle competenze dovrebbe registrare e sancire con adeguate documentazioni. Le diverse esperienze ed i diversi percorsi compiuti nella scuola media, ancorché corrispondenti agli interessi e alle capacità degli allievi, non sono, in ogni caso, vincolanti circa il corso di studi successivo.

Continua, nei Laboratori facoltativi, la coltivazione e l’autenticazione dei talenti artistici e musicali, già avviate nell’istruzione primaria. A partire dai 10 anni, è anzi opportuno dare una maggiore sistematicità a questi percorsi. È il caso, perciò, di identificare nel profilo terminale dell’allievo di 14 anni e, soprattutto, nei conseguenti obiettivi specifici di apprendimento i vincoli a cui devono attenersi i corsi facoltativi che mirano ad uno sviluppo specifico di tali talenti musicali ed artistici. I corsi potranno essere svolti dai Conservatori, dalle scuole medie presso le quali già attualmente tali corsi sono istituiti, da quelle che li istituiranno autonomamente, da scuole non statali accreditate, sulla base di convenzioni con le scuole del sistema educativo di istruzione.

Istruzione secondaria di II grado.

La cultura è e deve essere, a questo livello, soprattutto, giudizio. Quindi, molto più che proposizione consapevole ma descrittiva di alcunché (non parliamo, poi, di mera ripetizione di nozioni); essa si fa riflessione critica su se stessa: cultura alla seconda potenza: metagiudizio, metacognizione, con risvolti su tutti gli aspetti della personalità. Bisogna essere capaci non solo di comprendere, ma anche di esplicitare le condizioni sotto le quali i giudizi espressi e le ipotesi e le teorie su cui si fondano si possono dichiarare in tutto e in che senso affidabili e certi; ovvero 'scientifici', 'intersoggettivi'. Una continua esplorazione del perché delle cose, più che del loro come si presentano. Inoltre, bisogna che le consapevolezze sulla secondarietà del sapere si trasformino in atteggiamenti e in prese di posizione: in altre parole, in una personalità che, con e grazie ad esse, matura, si fa più saggia e prudente.

Questo processo conoscitivo, quando è condotto in maniera adeguata, richiede tempi di approfondimento non affrettati, una riflessione fatta di prove e controprove sistematiche, un dialogo continuo, una topica disciplinare che solo un'ispezione razionale vigile e instancabile riesce a trasformare in logica disciplinare. Del resto, l’adolescenza, quando è ben guidata e non è distratta da sollecitazioni caleidoscopiche, è un’età della vita molto adatta a questo cammino di interiorizzazione riflessiva. In una scuola secondaria di II grado, si impone, perciò, ancor più che in quella di I grado, una cospicua selezione delle prospettive disciplinari che alimentano la cultura presupposta dai profili terminali. Ciò non significa congedarsi dal dovere pedagogico di impostare, anche a questi livelli, un piano degli studi organico, unitario, educativamente attento a tutte le dimensioni della personalità, orientativo. Vuol dire soltanto che in una scuola nella quale si studia in modo progressivamente secondario un settore specifico della cultura si è chiamati a far rintracciare l'organicità, l'unitarietà, l'integralità educativa e l'orientatività dei saperi selezionati nel piano degli studi ad un livello più profondo rispetto a quello esperibile nell’istruzione precedente.

In un indirizzo di studi nel quale si scelga di esplorare in maniera 'secondaria' lo specifico settore matematico-fisico-naturalistico della cultura generale, infatti, non si possono trascurare anche le componenti linguistico-letterarie, estetico-espressive, storico-filosofiche e tecnico-applicative che esso implica e presuppone. Senza di esse, d'altra parte, le stesse discipline matematico-fisico-naturalistiche non potrebbero costituirsi. Pretendere di assumere la cura teoretica di tutte queste componenti della cultura, per ciascuna analoga a quella delle discipline matematico-fisico-naturalistiche sembra, tuttavia, impossibile. Se non di diritto, di fatto. Avremmo piani di studio ed orari smisurati, impraticabili sul piano prima logistico che psicopedagogico.

La soluzione semmai è quella di scoprire le condizioni e le dimensioni linguisticoletterarie, estetico-espressive, storico-filosofiche e tecnico-applicative delle conoscenze matematico-fisico-naturalistiche che caratterizzano un particolare corso di studi secondario. Analogamente, in altri indirizzi di studio, unitarietà e onnicomprensività della cultura significano scoprire dimensioni e condizioni matematico-fisiconaturalistiche, estetico-espressive, storico-filosofiche e tecnico-applicative delle conoscenze linguistico-letterarie che si intendono approfondire. E così via, in una circolarità mai conclusa, per ciascun grande settore della cultura coinvolto dai profili terminali e dagli obiettivi specifici di apprendimento dei diversi Licei.

Entrando in maggiori dettagli organizzativi, è utile rammentare che, alla fine della terza media, si è concluso il ciclo degli studi secondari di I grado con un esame. I Licei sono quadriennali e i piani di studio si compongono di due cicli biennali tra loro progressivi e successivi. Il profilo educativo, culturale e professionale terminale designa uno studente che frequenta un corso di studi con finalità non immediatamente professionalizzanti, ma di cultura generale specifica. Il Diploma consente di accedere, previo accertamento della preparazione da parte delle istituzioni riceventi, ai corsi universitari dell’istruzione superiore oppure ai corsi della Formazione superiore.

Il portfolio delle competenze degli allievi documenta il consiglio orientativo rilasciato dalla scuola media, nonché, appunto, il complesso delle competenze acquisite dallo studente. In 1° Liceo, la messa a punto della progettazione e della programmazione didattica individualizzata del biennio che si apre è favorita anche dall’analisi dei risultati delle prove di verifica nazionali sulle conoscenze e sulle abilità richieste per il biennio precedente. Esse consentono anche un’analisi della corrispondenza tra certificazioni inserite nel portfolio e risultati oggettivi nelle prove riguardanti conoscenze e abilità. I piani di studio, determinati con la procedura già indicata, si riferiscono, nella proposta del Grl, a otto Licei: Classico, Linguistico, Scientifico, Tecnologico, Economico, Umanistico, Musicale, Artistico. Ogni istituzione scolastica può prevedere anche la coesistenza di più Licei.

Per promuovere il profilo educativo, culturale e professionale terminale a cui si indirizza ciascun Liceo e l’acquisizione degli obiettivi specifici di apprendimento, articolati in scansioni biennali per le dimensioni linguistico-letterarie, scientificotecnologico- matematiche e storico-filosofico-sociali e quadriennali per le rimanenti, il piano degli studi prevede l’utilizzazione dei percorsi obbligatorio, facoltativo ed extrascolastico.

Nel primo, se si accettano le valutazioni espresse finora, si potrebbe immaginare la disponibilità di professori abilitati ad insegnare, oltre che la religione cattolica prevista dal Concordato, lingua e letteratura italiana, matematica, scienze, filosofia, storia, lingua straniera, più, variabili a seconda dei Licei, diritto ed economia (per il Liceo economico), latino e greco (per il Liceo classico), seconda e terza lingua e letteratura straniera (per il Liceo Moderno), tecnologia e disegno (per il Liceo tecnologico), storia dell’arte e storia della pedagogia (per il Liceo umanistico), ecc. Resta, ad ogni modo, confermato il principio che alcuni aspetti educativi e culturali del profilo terminale, nonché un numero variabile di obiettivi specifici di apprendimento costituiscono un compito comunque obbligatorio di apprendimento per i ragazzi, indipendentemente dal fatto che siano previsti un docente e una disciplina specifici che li promuova nel solo percorso obbligatorio. In questo caso, con il tutorato del coordinatore di classe o di altra figura professionale approntata dall’organizzazione scolastica, ciascun studente, sulla base di un bilancio delle proprie competenze, predispone un piano di studi personalizzato, usufruendo delle opportunità programmate e messe a disposizione dai docenti non solo per il percorso obbligatorio ma anche per gli altri due. Tipico il caso di conoscenze ed abilità informatiche, motorio-sportive, geografiche, artistiche o musicali che devono certamente essere di patrimonio comune: è impensabile immaginare che un giovane possa finire qualsiasi Liceo senza che i professori lo abbiano sollecitato comunque a padroneggiarle, modulando in maniera accorta l’impiego dei tre percorsi.

I debiti e i crediti si assegnano a livello biennale per le dimensioni linguistico-letterarie, scientifico-tecnologico-matematiche e storico-filosofico-sociali, e a livello quadriennale per le rimanenti.

L’orario del percorso obbligatorio può passare da 25 a 33 ore nei Licei artistico e musicale a causa della particolare natura del piano di studio che li deve caratterizzare.

Formazione secondaria

Natura.

Abbiamo già sottolineato come sia, più che controproducente, impossibile separare nettamente istruzione e formazione. Galilei, senza una bilancia e senza l’esperienza esperta degli operai dell’Arsenale veneziano, non avrebbe mai potuto avanzare, come ha fatto, nell’esplorazione delle leggi della meccanica. Allo stesso modo, non è possibile studiare la fisica quantistica senza un laboratorio con un sofisticato acceleratore di particelle. Scienza e tecnica non sono disgiungibili. L’una è distribuita nell’altra. Non per questo l’una è l’altra.

Conoscere, e agire, costruire e produrre per lo scopo principale di conoscere, infatti, non è la stessa cosa che conoscere per lo scopo principale di agire, costruire e produrre.

Sono orientamenti che si intrecciano, ma che non si confondono.

L’istruzione, abbiamo detto, desidera soprattutto concentrarsi sul conoscere secondario: sul sapere. La formazione sul produrre che implica conoscenze altrettanto secondarie: sul fare sapendo sempre ciò che si fa e perché lo si deve fare in un modo piuttosto che in un altro. Qualche giovane è più attirato dalle dimensioni grammaticali e teoretiche del sapere; altri da quelle pragmatiche ed operative del sapere di cui ha bisogno qualsiasi fare umano. Qualcuno più dalla scienza, altri più dalla tecnica. Prendere atto di queste diversità aiuta a non affrontare la questione in maniera ideologica, ma rispettosa sia dei suoi aspetti educativi, sia di quelli epistemologici. Si tratta allora di affrontare senza i pregiudizi del passato il problema della formazione in generale e della formazione professionale in particolare.

Tra domanda ed offerta.

L’attuale stagione di sviluppo economico vede la diffusione negli ambienti di lavoro di una pluralità di modelli organizzativi. Nelle imprese medio-grandi si nota prevalentemente il superamento del modello tayloristico, centrato sulla parcellizzazione delle mansioni, sostituito tendenzialmente da nuovi modelli organizzativi fondati sulla flessibilità e sulla polivalenza. Nelle imprese familiari con piccole e piccolissime dimensioni - la tipologia di impresa indubbiamente più diffusa nel nostro paese - si presentano modelli diversi comprendenti l'artigianato fondato su mestieri, organizzazioni tayloristiche, modalità organizzative nuove ad alta intensità di competenza e di polivalenza. In generale, la domanda emergente dal mondo delle imprese considera indispensabile la competenza tecnica, ma punta ad aggiungere a questa un'area di nuovi saperi di tipo informatico, linguistico ed organizzativo. Oltre a ciò viene posta crescente attenzione nei confronti di una cultura del lavoro concepita, da un lato, come una forma di vera e propria istruzione scientifica e tecnologica, e dall’altro, come pedagogica dotazione individuale di capacità volte alla curiosità, all’autonomia, alla responsabilità, alla collaborazione cooperativa, alla creatività.

Occorre dare una risposta di qualità a queste domande, mentre, invece, nel complesso, il versante dell’offerta di percorsi di istruzione/formazione professionale non si è sviluppato, negli ultimi venti anni, in modo organico, e non ha potuto acquisire quei caratteri di consistenza e di rilevanza culturale, istituzionale e sociale che lo avrebbero accreditato come una alternativa di pari dignità rispetto ai percorsi di sola istruzione.

La legge che ha innalzato l’obbligo di istruzione e formazione fino ai 18 anni ha ulteriormente evidenziato, però, la necessità di riorganizzare e rilanciare, in termini strategici, l’offerta di percorsi di istruzione/formazione dotati di un impianto strutturale che assicuri loro stabilità, gradualità, continuità, apertura verso la formazione superiore e continua.

In tale quadro, i percorsi di formazione secondaria, proprio perché ispirati da una solida sensibilità pedagogica e culturale, dovranno presentare una duplice finalità: la prima adattiva, ovvero rispondere alla domanda di professionalità che emerge dal mercato del lavoro; la seconda innovativa, ovvero creare le condizioni per modificare forme e contenuti delle professionalità esistenti, anticipando bisogni e dinamiche economiche e sociali ancora incoative.

La prospettiva che se ne ricava indica la necessità di consentire ai minori di maturare, tramite l’incontro con conoscenze scientifiche ed abilità tecniche ben strutturate, competenze stabili e profonde che lo rendono autonomo anche dinanzi alle sfide conoscitive e professionali più inedite. Inoltre, di collocare questo processo in una dimensione educativa e sociale generale attenta ai diritti soggettivi ed irrinunciabili del cittadino, in particolare alla cittadinanza, all’orientamento di sé e al proprio progetto di vita, alle competenze comunicative e relazionali.

Le aree professionali.

Se atteggiamento interdisciplinare, attività di laboratorio, stage e attività pratiche sono risorse metodologiche importanti per il sistema di istruzione secondaria lo sono ancora di più per il sistema della formazione secondaria. Non meno importante il Laboratorio di Recupero e sviluppo degli apprendimenti, finalizzato alla realizzazione di azioni personalizzate di compensazione e riequilibrio culturale, con particolare riguardo alle capacità linguistiche e logico-matematiche. L’ultimo anno dovrebbe essere destinato in prevalenza alle attività formative legate alla spendibilità del titolo nel mercato del lavoro.

Sulla base di queste premesse, e tenuto conto dei Licei previsti per il sistema dell’istruzione, vanno identificate le aree professionali con le quali confrontarsi per redigere i profili educativi, culturali e professionali terminali a cui debbono mirare gli istituti della formazione secondaria. La costruzione delle aree costituisce un passaggio importante, sia in relazione alla identificazione dei fabbisogni espressi dal mondo del lavoro, sia ai fini della successiva definizione dei piani di studio; infatti, da un lato, è poco produttivo formarsi in un’area professionale obsoleta e non più in grado di interpretare dinamiche reali del mondo economico; dall’altro lato, la coerenza nella progettazione di percorsi formativi a forte modularità è assicurata dalla pertinenza e dalla significatività delle aree professionali di riferimento, funzionale alla progressione Qualifica, Diploma secondario, Diploma superiore.

Considerata l’esigenza di assicurare il collegamento del sistema formativo con il mondo produttivo, per la definizione specifica delle aree professionali è necessario partire dall’esame di alcune tra le principali classificazioni delle attività economiche. In particolare sono state esaminate la classificazione ATECO ’91 elaborata dall’Istat e basata sulla classificazione comunitaria revisionata2, la classificazione del CNEL, che raccoglie tutti i contratti nazionali di lavoro, la classificazione messa a punto dall’Isfol per il Repertorio delle Professioni, la classificazione utilizzata nell’ambito dell’indagine sui fabbisogni dell’OBN, i settori individuati per la definizione dei contenuti formativi professionalizzanti per gli apprendisti.

Dal confronto fra le diverse classificazioni, è stata elaborata una proposta che identifica l’opportunità di prevedere istituti della formazione secondaria nelle seguenti aree: (Si tratta della classificazione NACE Rev.1 elaborata da un gruppo di lavoro costituito da rappresentanti dell’EUROSTAT e degli Stati membri, pubblicata su GUCE L 293 del 24.10.90 in allegato al Regolamento CEE n. 3037/90)

Accanto a queste aree principali, permane la necessità di salvaguardare la presenza della formazione professionale in altri settori che hanno una consistenza – e quindi esprimono una domanda di professionalità - poco significativa a livello nazionale, ma che possono rappresentare una voce importante in alcune economie locali (in particolare si fa riferimento alla produzione artistico – artigianale).

All’interno di ogni area saranno possibili una pluralità di percorsi graduali e flessibili per rispondere a bisogni molto articolati sul territorio:

Questa pluralità di percorsi dovrebbe trovare sede all’interno dello stesso istituto che dovrebbe avere dunque una forte connotazione settoriale, piuttosto che trasversale come avviene oggi. Pertanto all’interno dello stesso istituto i giovani dovranno poter avere accesso all’intera gamma delle proposte formative dell’area di riferimento, dai percorsi rivolti alla Qualifica fino a quelli del Diploma superiore.

Tipologie dei percorsi.

All’interno di ogni area sono previste differenti tipologie di percorso formativo:

All’interno di un sistema così articolato e che prevede dunque ampi margini di flessibilità una continuità maggiore dovrà essere sviluppata tra i percorsi quadriennali per il Diploma ed i percorsi di formazione superiore. Infine, tutti i percorsi che portano ad una Qualifica più professionalizzante potranno essere svolti in alternanza scuola-lavoro, sia pure prevedendo una maggiore durata del percorso.

Nel quadro seguente si può trovare, per i settori meccanico e grafico/multimediale, una esemplificazione di questi percorsi e delle relative figure professionali.

Formazione secondaria in alternanza.

Come la formazione secondaria a tempo pieno, anche quella in alternanza scuola-lavoro mira a far incontrare la domanda di personale qualificato, di tecnici e quadri aziendali espressa dalle imprese italiane con le attitudini e gli interessi dei giovani e con i progetti di vita che essi elaborano in quanto singoli e in quanto cittadini. Si prefigge quattro fondamentali obiettivi: rispondere ai bisogni educativi e di crescita delle conoscenze/abilità di quei giovani che desiderano incontrare al più presto il mondo del lavoro; ampliare l’occupazione giovanile attraverso politiche mirate di rimodulazione dei salari in funzione di una offerta formativa di qualità; finanziare l’occupabilità e la formazione in azienda per i giovani in obbligo formativo, ma anche per i lavoratori in generale; avviare una politica autonoma di sostegno all’inserimento dei giovani attraverso contratti a causa mista (Apprendistato e Contratto di Formazione Lavoro), anche con l’istituzione di un apposito fondo per l’occupazione e la formazione giovanile più cospicuo dell’attuale.

È pensata, quindi, per coinvolgere chi, dopo aver frequentato il primo anno di corsi di Qualifica o di Diploma secondari, si accorge di maturare i propri processi di apprendimento più in un’esperienza lavorativa concreta che nel lavoro d’aula; i dropouts scolastici, per portarli comunque ad una Qualifica; i giovani già qualificati che colgono l’occasione per crescere professionalmente; i giovani con Diploma di istruzione secondaria che possono puntare, attraverso il lavoro, a diventare quadri e tecnici di qualità (recuperando anche eventuali abbandoni dei corsi di studi universitari). Date le sue caratteristiche, tuttavia, è rivolta anche al mondo dei lavoratori adulti e può diventare una struttura formativa generale del sistema del lavoro e delle professioni. I titoli conseguiti attraverso l’alternanza scuola-lavoro sono identici a quelli acquisiti nei percorsi d’aula a tempo pieno. Si caratterizza come canale aperto, come terzo percorso (cfr. lo schema di sintesi iniziale, più l’apposita esplosione sull’alternanza), che coniugando lavoro e formazione, ogni volta con un anno ordinario in più rispetto agli analoghi percorsi della formazione secondaria, consente di accedere a tutti i livelli, sia nella direzione delle lauree tecniche ed economiche sia verso i Diplomi della formazione superiore. Dopo ogni blocco, percorso in modo compiuto, il giovane può decidere di ritornare alla formazione a tempo pieno.

Per poter svolgere una funzione qualitativa e non soltanto suppletiva ed emergenziale, deve contare, in prospettiva, su una programmazione di almeno 400 ore formative annue esterne all’azienda (incontri, seminari, lezioni, analisi di casi ecc.) e su 360 ore di apprendimento pilotato piuttosto che di produzione in azienda, ambedue raccordate da un unico progetto formativo che si colleghi alle tipologie di lavoro effettivamente praticato nell’azienda coinvolta.

I salari sono ovviamente da rinegoziare, sia per l’aumentato livello della formazione esterna, sia perché è la stessa azienda che si struttura come ambiente formativo (tutor, simulazioni, aggiornamento tecnologico delle macchine in uso). Sviluppando i primi segnali peraltro già contenuti nel Libro Bianco, bisogna, quindi, ipotizzare l’adozione di appositi incentivi per le aziende disponibili a praticare questo genere di esperienza. Gli imprenditori più lungimiranti non dovrebbero, del resto, restare insensibili a queste prospettive perché la formazione del tutore aziendale e la progettazione dell’ambiente di lavoro come ambiente formativo, oltre che investimento per la formazione continua dei propri lavoratori, costituisce un arricchimento del sapere organizzativo comunque disponibile in azienda, utilizzabile per la ricerca e l’innovazione delle metodologie di produzione. Proprio quanto serve in un Paese come il nostro, dove, contro una media europea di 5,3, si registra il deposito soltanto di 1,2 brevetti tecnologici ogni 10.000 abitanti, e dove, addirittura, per mancanza di adeguata formazione, tra il 1993 e il 1999, non si è riusciti ad aumentare di oltre il 25% nemmeno il consumo di brevetti importati dall’estero, contro una media Ocse che sfiora il 68% (in Spagna, ad esempio, l’aumento è stato del 78,4%).

Natale Cappellaro era un giovane operaio dell’Olivetti che, nel dopoguerra, progettò le nuove macchine da calcolo che fecero la fortuna dell’azienda eporediese. Quel modesto e marginale collaboratore fu poi fatto ingegnere honoris causa, divenne direttore generale dell’azienda e gli ingegneri nuovi assunti, 110 e lode all’allora inarrivabile Politecnico di Torino, facevano a gara per lavorare gomito a gomito con lui. In piccolo, questa vicenda si ripeté, nel dopoguerra, in molti laboratori artigianali e in moltissime officine. Un fervore progettuale, una gara per la ricerca di creative soluzioni tecnologiche e imprenditoriali, condotta nelle aziende, che fece la fortuna dell’Italia e del suo sviluppo. Difficile che si possa ripetere una stagione di questo genere senza restituire alla formazione in alternanza la centralità che merita, sia nei processi educativi, sia in quelli produttivi.

L’accesso all’istruzione e alla formazione superiore: le attività propedeutiche

L’art. 6, c. 1 del D. M. 509/99 statuisce che i «i regolamenti didattici di ateneo» richiedono a chi desidera iscriversi ai corsi universitari «il possesso o l’acquisizione di un’adeguata preparazione iniziale». «A tale fine - continua la norma - gli stessi regolamenti didattici definiscono le conoscenze richieste per l’accesso e ne determinano, ove necessario, le modalità di verifica, anche a conclusione di attività formative propedeutiche, svolte eventualmente in collaborazione con istituti di istruzione secondaria superiore».

I compiti delle università.

Secondo la norma attuale, quindi, una norma purtroppo spesso aggirata nella sostanza, prima di immatricolare uno studente, ogni università è tenuta a prefigurare quattro precisi adempimenti.

Anzitutto, stabilire per i diversi corsi di laurea le conoscenze (sapere) e le abilità (saper fare) d’accesso. Non si può abbassare il livello qualitativo dei corsi superiori. Ogni docente universitario deve poter cominciare il suo insegnamento nel primo semestre, sicuro di trovarsi dinanzi a studenti che hanno tutti gli strumenti intellettuali e conoscitivi per seguirlo e contribuire attivamente allo svolgimento delle lezioni.

In secondo luogo, verificare se chi chiede l’immatricolazione possiede davvero la preparazione iniziale necessaria per frequentare i corsi universitari in maniera proficua, ovvero se padroneggia le conoscenze e le abilità stabilite per l’accesso. L’accertamento, come si può intuire, ha natura diversa da quello che si compie con gli esami di stato. In questo secondo caso, lo scopo è di registrare la congruenza tra il progetto formativo elaborato negli ultimi tre anni, e soprattutto nell’ultimo anno di secondaria, e i risultati ottenuti dallo studente a riguardo di tale progetto complessivo. La causa finale dell’operazione è sommativa. Nel caso dell’accertamento per accedere ai corsi universitari, invece, la causa finale è diagnostica, da un lato, e orientativa e perfino predittiva, dall’altro. La posta in gioco è responsabilmente sapere e far sapere se un giovane ha la preparazione adatta a cominciare con ragionevoli speranze di successo quel corso di laurea, con quelle caratteristiche specifiche.

In terzo luogo, obbligare chi non possedesse la preparazione iniziale ritenuta necessaria a frequentare «attività formative propedeutiche, svolte eventualmente in collaborazione con istituti di istruzione secondaria superiore». Naturale che si tratti di attività di recupero che hanno lo scopo di riallineare la preparazione dello studente ai livelli qualitativi richiesti per l’accesso.

Infine, verificare se le attività propedeutiche in questione abbiano sortito gli effetti sperati; in caso contrario, indicare «specifici obblighi formativi aggiuntivi da soddisfare nel primo anno di corso». Tali obblighi possono includere la partecipazione degli studenti ad attività di studio o di laboratorio appositamente studiate per la miglior partecipazione possibile ad alcuni corsi universitari di base, e sono aggiuntivi alle normali attività previste nel piano degli studi. In questo senso, non riconoscibili come credito universitario. Va sottolineato che «tali obblighi formativi aggiuntivi sono assegnati anche agli studenti dei corsi di laurea ad accesso programmato che siano stati ammessi ai corsi con una votazione inferiore ad una prefissata votazione minima». Insomma, poiché spesso capita che per alcuni corsi a numero programmato, siano disponibili più posti di candidati, per cui essi risultano tutti ammessi, non è detto che l’ammissione li sollevi dall’obbligo di assolvere il debito di alcuni moduli formativi aggiuntivi da soddisfare nel primo anno di corso.

Il coinvolgimento obbligato dell’istruzione e della formazione secondarie.

Diagnostici, sommativi o formativi è difficile, comunque, che si possa immaginare sia un accertamento della «preparazione iniziale» a finalità proattiva/predittiva, sia un accertamento dei risultati ottenuti con la frequenza delle attività propedeutiche che siano sbrigativi o rituali. La docimologia ha insegnato a diffidare delle strumentazioni o troppo semplici e parziali (tipo i tradizionali test, oppure il rimandare alle votazioni ottenute agli esami di stato) o troppo complesse e globali (per esempio, i tradizionali ‘temi’, oppure i colloqui). La via preferita è quella di un’accorta modulazione degli strumenti valutativi disponibili, inseriti in un unitario sviluppo narrativo.

Non si può immaginare che un servizio di questa natura, così delicato e impegnativo, che richiede anche uno specifico know-how tecnico-didattico, possa essere esclusivamente affidato alle strutture universitarie. Non si può per motivi pragmatici (le università sono già caricate di compiti e funzioni che non riescono a svolgere) e non si può per motivi intrinseci (il principio della continuità adottato come uno dei principi organizzatori della complessiva proposta di revisione della legge 30/2000 impone un coinvolgimento anche dei percorsi di istruzione e di formazione pre universitari). Il Grl, perciò, raccomanda che si proceda all’espletamento di questo servizio, ipotizzando una stretta collaborazione tra docenti dell’istruzione e della formazione secondaria e dell’università. L’«eventualmente in collaborazione con istituti di istruzione secondaria superiore» di cui scrive la norma dovrebbe diventare tout court un «in collaborazione con gli istituti di istruzione secondaria superiore».

Se è compito specifico dell’università identificare i prerequisiti orientativi che meglio corrispondono alle esigenze e alle caratteristiche dei corsi universitari è senza dubbio conveniente che l’elaborazione metodologica e tecnica delle prove che possono esplorare la preparazione iniziale delle matricole in ordine a tali prerequisiti si svolga coinvolgendo i docenti dell’istruzione e della formazione secondaria.

Analogamente, visti i risultati delle prove circa la preparazione iniziale, se è compito specifico delle università stabilire i piani di studio e la durata modularmente variabile (una settimana, un mese, un anno) delle «attività formative propedeutiche» necessarie, sembra utile affidare lo svolgimento di tali «attività» a docenti dell’istruzione e della formazione secondaria appositamente selezionati dalle stesse università, nonché prevedere, alla fine, una valutazione, se non comune, almeno condivisa, tra questi docenti e quelli universitari, dei recuperi ottenuti.

Infine, anche gli «specifici obblighi formativi aggiuntivi da soddisfare nel primo anno di corso» possono essere proficuamente cogestiti dal personale dell’istruzione e della formazione secondarie e dai docenti universitari.

In questa maniera, la connessione università e istruzione/formazione secondarie diventa sistematica e arricchisce ambedue i segmenti di consapevolezze critiche e del know how tecnico-didattico per il perfezionamento della reciproca qualità formativa.

In prospettiva, d’altra parte, una più puntuale conoscenza dei livelli di accesso richiesti dai diversi corsi di laurea potrebbe anche portare l’istruzione e la formazione secondarie a distribuire lungo il loro ultimo biennio, utilizzando il percorso facoltativo dei piani di studio da 0 a 300 ore, la trattazione dei temi che l’esperienza dimostra caratterizzare le «attività propedeutiche» e «gli obblighi formativi aggiuntivi». Sempre più giovani, di conseguenza, se con un orientamento futuro già chiarito negli ultimi anni dell’istruzione e della formazione secondaria, potranno ragionevolmente essere guidati ad una preparazione che consente loro di superare le prove di accesso all’istruzione e alla formazione superiore a 18 anni, senza doversi sottoporre al prolungamento del proprio percorso formativo. Resta acquisito, tuttavia, il principio di un obbligo istituzionale delle università, in collaborazione con la scuola, a garantire anche ai ragazzi che non dovessero superare le prove di accesso la possibilità di riallineare la loro preparazione agli standard richiesti.

Proprio per le caratteristiche dell’autonomia universitaria, da un lato, e dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, dall’altro, è naturale, però, pensare che questa collaborazione interistituzionale sistematica si debba sviluppare a rete e non necessariamente in un diretto ed esclusivo rapporto di tipo territoriale (tanto più se angustamente localistico). Ciò permetterà alle università e alle scuole, attraverso lo strumento giuridico delle convenzioni, di riferirsi all’intero territorio nazionale più come ad una risorsa che come ad un limite. Significative opportunità potranno essere offerte anche dai corsi a distanza.

Vincoli analoghi per la formazione superiore.

Il carattere contemporaneamente simmetrico ed integrato che ha il sistema dell’istruzione secondaria e superiore con quello della formazione degli stessi livelli, spinge a ritenere opportuno che le linee della normativa vigente per l’accesso all’università si debbano estendere, con i dovuti adattamenti di contenuto e di responsabilità dei soggetti coinvolti, anche all’accesso ai corsi della formazione superiore. Anche qui le competenze non vanno presupposte, nemmeno quando esista una stretta congruenza tra la tipologia del Diploma secondario acquisito e quella del Diploma superiore al quale si concorre. Esse, al contrario, vanno sempre valutate e certificate in ingresso, tenendo conto della natura e dello svolgimento dei corsi previsti. In questa maniera, il principio generale dell’equità che attraversa l’intero sistema educativo di istruzione e di formazione risulterebbe molto esaltato. Grazie alla durata variabile delle attività propedeutiche che riallineano la preparazione eventualmente carente dei candidati all’immatricolazione, tutti i giovani che provengono da qualsiasi tipo di Diploma possono aspirare all’iscrizione presso qualsiasi tipo di istruzione o formazione superiori.

La formazione superiore.

Natura.

La formazione superiore intensifica le caratteristiche della formazione secondaria. Il suo obiettivo è la preparazione all’esercizio di lavori e professioni che non abbiano carattere dirigenziale, ma che implichino però conoscenze ed abilità complesse sul piano scientifico, tecnico e relazionale.

Ha bisogno, perciò, di istruzione, ma la impiega, appunto, per operazioni concrete e per trasformare stati ideali in stati fisici e reali. Per converso, abitua a scorgere in stati fisici e reali, le idee che possono spiegarli ed adattarli meglio a nuove e diverse esigenze. Vedere il tutto nella parte e la parte nel tutto, e darne le ragioni; collocare ogni situazione professionale nel suo contesto; trasformare ogni apprendimento personale in organizzazione e ogni organizzazione in apprendimento personale; scorgere e frequentare più i confini che gli estremi (non superteorici o superpraticoni, ma quadri che connettono alto e basso, centro e periferia, l’ingegnere e il tecnico). Tutto questo per costruire professioni né solo autoreferenziali, né solo adattative, ma innovative.

La dinamica ologrammatica si ripete anche nello specifico rapporto locale/globale. Non esiste, oggi, un’organizzazione imprenditoriale che sia solo locale o solo globalizzata. I due livelli si integrano e si richiamano l’uno con l’altro. Non disgiungerli è segno di formazione superiore. Soprattutto in una Paese come il nostro dove la tradizione identitaria è più nel piccolo (nei Comuni) che nel grande (Regioni, macroRegioni) e dove la stessa struttura industriale ha sempre rifuggito dalle grandi aziende e ha sempre privilegiato le piccole e medie aziende (ne esiste una ogni 14 abitanti). Fino all’enfasi sulla peculiare storia dei distretti industriali italiani.

Ma la dinamica parte/tutto si ripete anche nell’evoluzione della personale esperienza formativa: non un tempo dell’istruzione un altro della formazione, né un tempo della formazione e un tempo dall’azione professionale, ma sempre un intreccio di istruzione e formazione, nonché di formazione e azione professionale: del resto, il senso più autentico del lifelong learning in una società industriale avanzata. In questo senso, la formazione superiore è il luogo dei laboratori, dei tirocini tecnici, degli stage, oltre che dell’esercizio delle competenze linguistiche, matematiche, scientifiche e relazionali indispensabili a garantire a queste esperienze operative il carattere di azioni riflessive, di un fare che si sa, si giustifica, e che si riesce a comunicare.

Se la formazione superiore è, quindi, destinata ai giovani che intendono, dopo il Diploma di istruzione o di formazione secondari, acquisire un Diploma di formazione superiore o, semplicemente, un attestato di specializzazione, è non meno rivolta a qualsiasi adulto che abbia scoperto l’importanza della manutenzione costante del rapporto che egli deve intrattenere tra teoria/pratica in ogni realtà lavorativa che voglia mantenersi competitiva.

Soggetti promotori.

Rimangono ferme le disposizioni dell’art. 142 del D.lgs. 112/98 e soprattutto della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3. Al di là di questi, peraltro dovuti richiami, va comunque sottolineato che le caratteristiche appena evocate ingiungono di per se stesse di considerare la formazione superiore espressione della sinergia di quattro diversi soggetti: la Regione, gli istituti dell’istruzione/formazione secondaria, il mondo delle lavoro e delle professioni regolamentate e non regolamentate, l’università.

La partecipazione dell’università è importante non solo ai fini delle garanzie scientifiche da assicurare all’offerta formativa, ma anche perché, in questo modo, essa può meglio autenticare se e in quale misura la frequenza di determinati percorsi, soprattutto quelli più strutturati, sia coerente e spendibile con il quadro di cultura professionale tipico di alcune lauree. Ne consegue il riconoscimento in misura più o meno ampia della formazione superiore come cfu.

La partecipazione dell’università è importante, però, anche perché solo dal concerto con gli attori prima menzionati si può comprendere se determinati profili professionali, per le più diverse ragioni, è meglio che siano attivati come lauree, magari con una terminalità professionale superiore a quella delle lauree ordinarie, le quali, come è noto, hanno come fine la «cultura professionale», non l’esercizio di qualche professione, oppure debbano rimanere corsi di formazione superiore a taratura professionale abilitante. Dipende, appunto, dalle circostanze e dalla dinamica della domanda e dell’offerta non solo lavorativa, ma anche formativa.

La programmazione è regionale. La progettazione e la gestione coinvolge soggetti a rete attraverso la costituzione di associazioni temporanee di scopo o consorzi ai quali partecipino scuole, università, agenzie di formazione, imprese. Il soggetto attuatore è individuato dai soggetti associati oppure in base ai criteri stabiliti dalle Regioni oppure in base a criteri concertati a livello nazionale. Un comitato di progetto assume la responsabilità scientifica dei percorsi.

Per connettere locale/nazionale, è importante, tuttavia, che si definiscano a livello nazionale i profili professionali generali che si possono articolare a livello locale e, soprattutto, gli standard per tali profili. La formulazione nazionale di standard implica che i medesimi soggetti coinvolti in questa determinazione partecipino anche, nei momenti successivi, alla loro verifica e valutazione.

Durata e organizzazione.

Si prevedono corsi a durata variabile, dai 3 mesi a tre anni, a seconda degli scopi e dell’ampiezza dei vincoli nazionali a cui si intende essere sottoposti. Se in alternanza scuola lavoro, il tempo della formazione superiore aumenta della durata necessaria a coprire anche la parte di formazione teorica prevista nel profilo professionale terminale. Punto di riferimento centrale resta la Direttiva Ue n. 92/51. I corsi sono scelti da coloro che dopo il conseguimento del Diploma vogliono accedere ad ulteriori percorsi di rafforzamento e/o completamento della loro preparazione professionale sia sotto l’aspetto tecnico scientifico sia sotto l’aspetto operativo, attraverso stage e tirocini in azienda.

La loro durata variabile, fino a 4 semestri, impone un’organizzazione modulare. Questa, tuttavia, non può essere ridotta ad una pura meccanica dei crediti capitalizzati, ma deve restare un processo organico, qualitativo. Per questo è sempre importante la definizione del profilo professionale terminale e, rispetto ad esso, l’insieme delle conoscenze e delle abilità che, sulla base degli standard nazionali concordati, è scopo del corso trasformare in competenze degli allievi, certificabili ed inseribili nel portfolio individuale. Bisogna, però, evitare il rischio che sia credito la semplice frequenza. Per questo, anche le certificazioni intermedie devono riferirsi a competenze reali contestuali e di senso compiuto, e non a skill astratti ed atomizzati.

I percorsi di formazione superiore distribuiti da 4 a 6 semestri hanno, per lo più, lo scopo specifico di permettere l’iscrizione agli albi professionali, secondo le concertazioni nazionali che saranno stabilite negli appositi organismi con il coinvolgimento degli stessi ordini. Naturalmente, gli ordini devono anche partecipare ai corsi, sia attraverso forme di praticantato guidato, sia attraverso contributi operativi specifici.

Geometri, periti, figure infermieristiche non dirigenti e altre professioni contabili e ragionieristiche possono essere i più diretti interessati a questi tipo di prospettiva. La presenza dell’università tra i soggetti promotori di questi percorsi potrebbe aprire interessanti prospettive di integrazione tra istruzione e formazione superiori. La presenza attiva degli ordini e del mondo del lavoro dovrebbe, per converso, cautelare dai rischi di piani di studio troppo accademici.

Il caso degli infermieri è un tipico esempio di quanto lo spostamento esclusivo di tutta la formazione a questa professione verso la laurea comporti, da un lato, paurose carenze di personale (oltre 46.000 posto vacanti che costringono ad importare dall’estero anche infermieri formati con un percorso meno impegnativo di quello previsto nel nostro Paese), e dall’altro, l’apicalizzazione indebita delle prestazioni, lasciando scoperte mansioni che, invece, sono preziose e che troverebbero benissimo soddisfazione anche con una formazione più mirata, meno lunga e non necessariamente di studio universitario.

Interessanti prospettive si potrebbero aprire anche ipotizzando una collaborazione sistematica con la Pubblica Amministrazione. Il Ministero delle Finanze, per esempio, presenta allo stesso tempo problemi di sotto organico e difficoltà di reclutamento per la carenza di profili professionali adatti alle attuali mansioni richieste dall’amministrazione finanziaria. Trasformare la formazione superiore in un percorso in alternanza, dove la formula del praticantato trovi la sua valorizzazione, significa soddisfare due convergenti esigenze: quella dell’amministrazione finanziaria che potrebbe svolgere una politica del reclutamento più protetta e quella dei soggetti interessati, oltre che alla formazione in sé, non solo e non tanto ad un praticantato contrattualizzato, ma soprattutto ad un praticantato che sbocchi poi in un rapporto di lavoro che da precario si fa stabile. Stesso discorso per la formazione di professionalità destinate a ruoli di determinate qualifiche nella Pubblica amministrazione.

I docenti della formazione superiore si reclutano al 50% dal mondo del lavoro e delle professioni. In questo caso, oltre alla competenza specifica, appositamente verificata secondo le modalità stabilite dai promotori dei corsi, è richiesto anche il requisito oggettivo di almeno 5 anni di esperienza nel settore professionale al quale il corso fa riferimento. Il rimanente 50% è reclutato tra i docenti dell’istruzione e della formazione secondarie e dell’università. Non esistono ruoli, ma ogni docente è scelto in base alle competenze richieste dal progetto formativo che si intende attuare. Può essere utile la costituzione di elenchi dei docenti interessati, periodicamente aggiornati. I corsi di formazione superiore più strutturati, quelli da 4 a 6 semestri, possono contare, però, anche su un corpo docente che può essere distaccato dall’istruzione/formazione superiori per un certo numero di anni.

La formazione iniziale dei docenti.

L’accesso alla laurea specialistica in generale.

L’art. 6, c.2 del D.M. 509/99 dispone che «nel caso di corsi di laurea specialistica per i quali non sia previsto il numero programmato dalla normativa vigente in materia di accessi ai corsi universitari, occorre altresì il possesso di requisiti curricolari e l’adeguatezza della personale preparazione verificata dagli atenei». La ratio della norma è chiara.

Ricorda ad ogni consiglio di corso di laurea specialistica che, per far accedere gli studenti alle lauree specialistiche dalle lauree, è obbligatorio un doppio controllo: quello dei requisiti curricolari dei candidati (quanti crediti hanno maturato e di che tipo) e quello dell’adeguatezza della loro personale preparazione. Come a dire che non necessariamente possedere i requisiti curricolari significa anche aver maturato una preparazione adeguata ad affrontare l’uno piuttosto che l’altro percorso specialistico. Avverte, inoltre, che l’eventuale numero programmato stabilito dalle norme per accedere alle lauree specialistiche dovrebbe già implicitamente costituire un pleonasmo intensivo di questo doppio controllo previsto per le lauree specialistiche non a numero programmato (anche se, purtroppo, di fatto, capita, invece, spesso, l’inverso: se il numero di candidati è inferiore al numero dei posti, vengono tutti ammessi a prescindere dai requisiti).

Ancora una volta, quindi, almeno come ratio, la preoccupazione generale della norma è quella di evitare ogni automatismo d’ammissione tra laurea e laurea specialistica, e di introdurre, a questo scopo, un’affidabile valutazione diagnostica allo stesso tempo proattiva e predittiva del grado di successo che è lecito attendersi dal candidato nell’affrontare il nuovo corso di studi.

Naturale anche a questo livello, come d’altronde nei precedenti, ricordare il principio della continuità, per cui sarebbe stravagante che il doppio controllo prima evocato si svolgesse senza il coinvolgimento dei docenti delle lauree nel caso in cui essi non coincidessero con quelli delle lauree specialistiche.

Non meno naturale ricordare che «l’adeguatezza della personale preparazione» dei laureati che chiedono l’ammissione alle lauree specialistiche non può essere affidata a strumentazioni solo impressionistiche e intuitive, ma anche a metodi oggettivi e scientificamente accreditati che superino i soliti quiz.

Pari dignità e complessità della professione docente.

Se la scuola dell’infanzia entra a pieno titolo nell’obbligo di istruzione e/o formazione di almeno 12 anni con la soluzione del credito di un anno per chi ne frequenti il triennio non obbligatorio e unitario, il silenzio della legge 30/2000 sulla formazione dei docenti della scuola dell’infanzia non è più accettabile. Tanto meno accettabili sono le ipotesi elaborate nella precedente legislatura per attuare il dispositivo dell’art. 6, c. 8 della legge 30/2000.

Come è noto, queste ipotesi prevedevano che i docenti della scuola dell’infanzia dovessero acquisire la laurea e perfezionarsi poi in un anno di specializzazione presso le Ssis; che anche per i docenti della scuola di base bastasse la laurea, ma con un perfezionamento Ssis biennale e, infine, che solo i docenti della secondaria superiore dovessero ottenere la laurea specialistica, seguita da un anno di Ssis.

Queste ipotesi costituivano un esplicito rinforzo normativo al tradizionale pregiudizio professionalmente piramidale, secondo il quale per insegnare ai bambini della scuola dell’infanzia sarebbe sufficiente una formazione culturale e professionale minore di quella necessaria per insegnare nella scuola di base, e per insegnare in questa una formazione culturale e professionale a sua volta minore rispetto a quella richiesta per insegnare agli adolescenti della scuola secondaria (con tutte le conseguenze in termini di prestigio sociale, stato giuridico e contrattuale, qualità dell’offerta formativa). Quasi tutta la ricerca scientifica del novecento, tuttavia, ha accumulato argomenti per rompere questo pregiudizio e, anzi, per documentarne, in alcuni aspetti, perfino la pericolosità.

Se non si vuole, perciò, lasciare la scuola dell’infanzia irretita dall’inerzia del paradigma assistenziale (l’antico «asilo») e caratterizzata da interventi professionali più volenterosi ed empirici che scientifici, sembra indispensabile avere a disposizione docenti ad alta qualificazione. La consapevolezza che le differenze derivanti dall’influenza negativa degli ambienti socio-economici e culturali di provenienza deprivati si consolidano o si smantellano in questa età, e che gli ostacoli di cui parla l’art. 3 della Costituzione si possono rimuovere soprattutto nella fase più fertile dello sviluppo psico-fisico (0-6) con appropriati interventi educativi, aumenta il carattere strategico, sociale e cognitivo, di questa esigenza.

Analoghe esigenze di alta qualificazione, del resto, sono state da imposte dalla ricerca psicopedagogica a proposito dei docenti della scuola primaria. Se si intende ribadire il carattere educativamente e culturalmente fondativo di questo grado scolastico, non trova alcuna giustificazione una formazione dei maestri minore sul piano culturale professionale rispetto a quella dei professori.

Al contrario, si tratta di affermare il principio della pari dignità ed ampiezza della formazione iniziale dei docenti delle scuole di ogni ordine e grado. Pari dignità ed ampiezza non significa anche uguaglianza di tale formazione. Insegnare ad un bambino nella scuola dell’infanzia non è la stessa cosa che insegnare ad un fanciullo nella scuola primaria o a un preadolescente o ad un adolescente nelle scuole secondarie di I e II grado, alcune discipline più che altre. Cambiano i contesti, i metodi, i significati, l’organizzazione, i contenuti dell’apprendimento, oltre che, ovviamente, con l’età evolutiva, le caratteristiche degli allievi. Prendere atto di queste trasformazioni e sapersi loro adattare con successo è un aiuto molto rilevante alla qualità dell’educazione di ciascuno e di tutti.

Una laurea specialistica per l’insegnamento.

Le dimensioni professionali appena evocate coincidono con quelle formalmente assegnate dal comma 5 dell’articolo 3 del Decreto 509/99 al profilo di una laurea specialistica. Essa, infatti, «ha l’obiettivo di fornire allo studente una formazione di livello avanzato per l’esercizio di attività di elevata qualificazione in ambiti specifici». L’insegnamento è senza dubbio «un’attività di elevata qualificazione», non inferiore a quella necessaria per poter poi esercitare l’architettura, l’ingegneria, l’avvocatura, la medicina, la gestione aziendale e commerciale, la filosofia ecc. Inoltre, è anche un «ambito specifico» sul piano culturale e professionale, visto, per esempio, che un conto è sapere qualunque scienza, oppure informare, divulgare, intrattenere, persuadere ecc., un altro insegnare. L’insegnamento, infatti, è un’attività specifica che, per poter essere esercitata, va studiata con le sue peculiari regole metodologiche e la sua complessa natura epistemologica. In questo senso, è, per esempio, sotto numerosi punti di vista, analogo alla medicina e, soprattutto, alla clinica.

Non pare, quindi, inopportuno consigliare che, per un’adeguata professionalizzazione del mestiere, la formazione iniziale dei docenti delle scuole di ogni ordine grado si sviluppi, come ogni laurea specialistica, su un arco di 300 crediti universitari (cfu) e che, alla fine di questo percorso, al pari delle lauree mediche, si acquisisca una laurea specialistica abilitante, nel nostro caso all’insegnamento in uno specifico grado scolastico e, se di grado secondario, in una specifica classe di concorso. Potrebbe essere una nuova classe che si aggiunge alle attuali 104.

Proprio perché abilitante, inoltre, sarebbe contraddittorio privarla dello sbocco nell’esercizio concreto della professione, anche se tale sbocco non potrà essere senza rete, bensì accompagnato da un apposito supporto formativo. È utile, allora, far seguire ai 300 crediti abilitanti altri 60/90 crediti di Laboratori e di Tirocini attivi, supervisionati dall’università, da distribuire nei primi due anni di straordinariato professionale dei docenti. Alla fine di questo percorso formativo basato sull’azione riflessiva, scuola e università, in collaborazione paritaria, decretano la conferma in ruolo del laureato specialista in insegnamento, previa valutazione delle competenze dimostrate lungo i due anni, in diretta situazione professionale.

Per arricchire di sempre maggiori stimoli culturali e professionali chi è interessato all’insegnamento è, inoltre, conveniente prevedere che, con l’aggiunta di ulteriori 60-70 crediti a seconda delle circostanze, dopo una laurea specialistica per l’insegnamento, sia possibile ottenere una seconda laurea specialistica disciplinare affine, oppure anche una seconda laurea specialistica abilitante per l’insegnamento in classi di concorso vicine a quella precedentemente ottenuta.

L’accesso alla laurea specialistica per l’insegnamento.

La selezione in ingresso alle lauree specialistiche, come si ricordava all’inizio del paragrafo, è importante sempre, ma diventa ancora più cruciale per quelle abilitanti all’insegnamento. A parità di requisiti curricolari e di preparazione, infatti, meglio scegliere un candidato che vuole fare l’insegnante piuttosto che un altro che si limita ad adattarsi a questa professione. Il portfolio e il colloquio personali possono molto aiutare, in questa direzione.

In secondo luogo, proprio a causa della strutturale connessione esistente tra abilitazione e insegnamento attivo, è indispensabile che il numero degli ammessi debba coincidere, con la normale correzione statistica d’uso in questi casi, con il numero dei posti di insegnamento effettivamente disponibili dopo due anni, a laurea specialistica per l’insegnamento acquisita. Chi accede alla laurea specialistica per l’insegnamento deve, quindi, essere sicuro di poter concludere il suo percorso formativo non solo con un’abilitazione, ma anche con un posto che gli garantisce uno stipendio, prima con un contratto di formazione e lavoro e, poi, con un contratto ordinario a tempo indeterminato. Tutto sommato, un’evoluzione di quanto già avviato e previsto negli attuali corsi di Sfp e delle Ssis.

Il sapere disciplinare.

«Influenzata dalla psicologia e dai dogmi del pragmatismo, la pedagogia si è trasformata in una scienza dell’insegnamento, fino a rendersi del tutto indipendente dalla materia che di fatto insegna. Secondo questo concetto, un insegnante è una persona capace di insegnare non importa cosa; una persona abilitata, dal proprio tirocinio, all’insegnamento: non alla padronanza di qualche specifica materia (… ). Dal momento che il professore non ha bisogno di conoscere la propria materia, non è raro che egli sia di appena un’ora ‘più avanti’ della sua classe. Di conseguenza, gli studenti sono in realtà abbandonati a se stessi, e anzi, la fonte più legittima dell’autorità del professore (l’essere questi, comunque si metta la questione, uno che sa e sa fare ‘di più’ dello studente) perde ogni efficacia». Cfr. H. Arendt, La crisi dell’istruzione, in Tra passato e futuro (1954), trad. it. di T. Gargiulo, a cura di A. Dal Lago, Garzanti, Milano 1991, p. 238-239.

«Non occorre, quindi, molta fantasia per vedere i pericoli del continuo abbassarsi dei valori minimi richiesti da tutto un sistema scolastico».

Per evitare questi rischi, serve una forte preparazione disciplinare, non indulgente sulle proprie radici epistemologiche e sulle frontiere della ricerca che esplora. Il docente delle scuole di ogni ordine e grado è chiamato sia dalla normativa (art. 6 del Dpr. 275/99) sia, soprattutto, dal processo di riforma che si desidera attivare ad essere non soltanto ad essere un ricercatore sull’insegnamento e dell’insegnamento che gli è affidato (il «professionista riflessivo» che connette teoria, tecnica e pratica), ma anche un ricercatore sul e del sapere epistemico che è chiamato poi a trasformare, con appositi mediatori didattici, in apprendimento degli allievi.

Fatta, perciò, salva l’adeguatezza della preparazione disciplinare specifica all’inizio del cammino universitario, aspetto che va sempre ricordato, pena la stessa decadenza della laurea, non sembra possibile prevedere una formazione universitaria dei docenti che non preveda crediti disciplinari oscillanti tra un minimo di 170 per le abilitazioni monodisciplinari e i 220 per quelli pluridisciplinari.

Le scienze dell’educazione.

Il sapere è condizione di ogni insegnamento. Si può insegnare, infatti, soltanto ciò che si sa. Sapere, tuttavia, non significa anche di per se stesso saper insegnare. Sapere che cosa insegnare non vuol dire sapere anche perché insegnarlo proprio ora, e non dopo o prima, e come insegnarlo a questo allievo, con queste caratteristiche, piuttosto che a quello. Occorre una specifica preparazione a questo scopo, correlata all’orizzonte di senso da attribuire all’educazione (filosofia dell’educazione, pedagogia generale, filosofia morale ecc.), alle condizioni (logistiche, relazionali, sociali, storiche, tecnologiche ecc.) in cui si svolge l’insegnamento e ai fattori (neurofisiologici, psicologici, sociologici ecc.) dell’apprendimento.

Sapere, tuttavia, che cosa insegnare, perché e come non è ancora sufficiente per poter insegnare davvero: serve anche confrontarsi direttamente con questa esperienza e dimostrare di affrontarla in situazione con la sagacia, la prudenza e la saggezza necessarie. Bisogna, quindi, imparare a fare i conti critici con l’esperienza di insegnamento altrui (confronto con i modelli, con i ‘maestri’ della professione) e, nondimeno, con una propria diretta esperienza di insegnamento.

Lo spazio delle scienze dell’educazione è, perciò, un secondo elemento costitutivo della formazione iniziale dei docenti delle scuole di ogni ordine e grado. Esso può ragionevolmente oscillare a seconda delle lauree mono o pluridisciplinari, dai 110 ai 60 crediti, di cui da 20 a 10 riservati ai Tirocini cosiddetti osservativi, durante i quali ci si impadronisce delle metodologie e delle tecniche con cui riflettere sulle azioni professionali altrui e proprie. I crediti rimanenti per giungere ai 300 vanno addebitati alle altre voci previste dai punti e) ed f) dell’articolo 10 del Decreto 509/99.

Il Tirocinio in azione.

Lo schema teoria (lezioni, ricerca scientifica), tecnica (laboratori di riscoperta operativa dei paradigmi concettuali precisati nelle lezioni e tirocini osservativi o comunque di studio degli strumenti di analisi dell’esperienza professionale) e pratica (tirocini in situazione reale, ovvero esperienza di insegnamento sul campo durante la quale si dimostra la propria competenza e la si consolida con l’azione riflessiva individuale e di gruppo) sembra ormai costituire un paradigma per l’organizzazione del piano di studi di qualsiasi formazione iniziale dei docenti. La triangolazione teoria, tecnica, pratica, tuttavia, esplode a cannocchiale: non c’è soltanto nella formazione iniziale dei 300 crediti, bensì condiziona anche la qualità della formazione iniziale in servizio, nonché della formazione ricorrente in servizio. Da questo punto di vista, è sbagliato pensare la formazione iniziale dei docenti limitata a quella universitaria: bisogna prevedere anche che la formazione accademica accompagni la formazione di accesso alla professione (praticantato con i 60/90 crediti di cui si diceva) e quella in servizio proprio per non interrompere il circuito di cui si discorreva.

La carriera.

Il coinvolgimento dell’università per la formazione dei docenti, infine, deve essere previsto anche per il consolidamento e lo sviluppo della carriera dei docenti stessi. Dopo una certa anzianità di servizio a tempo indeterminato (8 anni), un docente può accedere alla formazione universitaria sempre giocata sul circuito teoria, tecnica e pratica per diventare, ad esempio, figura di sistema o di staff (responsabili di progetti speciali di istituto, documentalisti ecc.: 30 crediti); docente aggregato (60 crediti; il docente aggregato, chi non vuole abbandonare l’insegnamento ma vuole far carriera nell’insegnamento, potrebbe confluire in un albo che consente la chiamata diretta da parte delle scuole autonome); direttore della progettazione dei piani di studio di istituto (90 crediti); dirigente scolastico di rete (120 crediti).

Nella carriera dei docenti, inoltre, dovrà essere prevista anche una significativa valorizzazione dei titoli universitari (curricula individuali molto ricchi, altre lauree specialistiche, dottorati, altre esperienze formali di ricerca attraverso contratti e borse), ottenuti senza dover mirare per forza a figure e posti previsti dall’organigramma organizzativo della scuola.

Lauree specialistiche e lauree specialistiche per l’insegnamento.

Il DM sulle lauree specialistiche assegna un alto numero di classi al settore umanistico. Sono particolarmente eclatanti i casi della Filosofia (tre classi) e di Storia (quattro classi). Va sottolineato che, sia per quanto riguarda le declaratorie e l'individuazione delle attività professionali di riferimento, sia per quanto riguarda i settori scientificodisciplinari, le differenze tra le classi sono minime e, in qualche caso, a giudizio di molti, pretestuose. Le Facoltà che avrebbero voluto o vorrebbero attivare una sola laurea specialistica, accorpando i settori di quelle ministeriali, si sono d'altra parte trovate e si trovano in serie difficoltà "tecniche" a causa dei vincoli cui sono sottoposte nella suddivisione dei crediti.

Anche indipendentemente dall'introduzione di una classe di laurea specialistica per l'insegnamento, la questione andrebbe, quindi, affrontata al più presto, ad esempio: a) facendo scendere sotto il 50% la quota dei crediti vincolati dal centro; b) abolendo o almeno riconsiderando la distinzione tra attività formative e conseguenti ambiti di base, caratterizzanti e affini (oltretutto impostata attualmente in maniere difformi tra classe e classe); c) rendendo possibile l'attivazione di corsi di laurea e di laurea specialistica interclasse.

L'introduzione della laurea specialistica per l'insegnamento, però, è destinata a moltiplicare i problemi delle lauree specialistiche dei settori umanistici. Non è difficile immaginare, infatti, che quanto più queste risulteranno effettivamente frazionate, come effetto delle attuali tabelle, tanto più crescerà il rischio (in presenza dell'alternativa rappresentata dalle lauree specialistiche finalizzate all'insegnamento) che non vengano neppure attivate, specie nelle università medio-piccole (ma non solo), o abbiano comunque un seguito molto modesto. In parte, beninteso, la scossa potrà essere salutare, considerata l'espansione esagerata di molti settori, ma potrebbero anche intervenire ripercussioni serie e irreversibili sulla sopravvivenza stessa di tradizioni culturali e scientifiche importanti al di là della loro relativa "marginalità".

A maggior ragione, in questa prospettiva, sembrerebbe allora opportuno operare nelle tre direzioni prima accennate. Con l'aggiunta, nel caso delle classi in questione, di una loro riduzione, facendo ad esempio confluire tutte quelle filosofiche e tutte quelle storiche in classi unificate, che potrebbero, come tali, meglio sopravvivere, distinguendosi semmai, da sede a sede, per la specificità di indirizzi e curricula. Nel decreto istitutivo della classe di laurea specialistica per l'insegnamento si potrebbe prevedere quantomeno l'attivazione di una commissione ministeriale che riveda nella prospettiva accennata il quadro delle lauree e delle lauree specialistiche a vario titolo coinvolte. Tenuto conto delle situazioni per un verso del settore umanistico, per un altro verso di quello scientifico-tecnologico, si potrebbe poi pensare sin d'ora (cioè fino dalla declaratoria della nuova classe da istituire) alla possibilità per gli atenei di stabilire un raccordo più esplicito e in qualche misura istituzionale tra la laurea specialistica per l'insegnamento (ad accesso programmato) e la o le lauree specialistiche "disciplinari" più affini.

Vero è che lo studente potrebbe comunque acquisire crediti comuni alle due lauree specialistiche, facendole valere in tempi diversi (e con una successiva iscrizione specifica), per il conseguimento dei due titoli. Ma sussiste il forte rischio che, una volta conseguita la laurea per l'insegnamento ed entrati nel biennio di praticantato, la laurea specialistica non venga più conseguita. Così come sussiste il rischio, in particolare nei settori scientifici e tecnologici, che si scelga la laurea specialistica disciplinare, evitando o lasciando ai meno capaci quella per l'insegnamento, che non verrebbe, così, scelta affatto.

In parte toccherà probabilmente alle università delineare e proporre percorsi che colleghino meglio il conseguimento delle due lauree, evidenziando i crediti da conseguire allo scopo. Bisognerebbe, però, prevedere che accanto al percorso probabilmente seguito dai più - laurea, laurea specialistica per l'insegnamento, biennio di praticantato - possano sussisterne altri due: a) laurea, laurea specialistica disciplinare, laurea specialistica per l'insegnamento, biennio di praticantato; ovvero: b) laurea, laurea specialistica per l'insegnamento, laurea specialistica disciplinare, biennio di praticantato. Trattandosi di un percorso più lungo ma sicuramente più qualificante (per l'interessato, ma anche per la scuola), bisognerebbe prevedere anche una forma di riconoscimento che possa valere da incentivazione: e in particolare, oltre che con l’eventuale, dovuto riconoscimento di crediti nel passaggio da laurea specialistica disciplinare a laurea specialistica per l’insegnamento, che la laurea specialistica disciplinare possa dar luogo a significativi riconoscimenti per la successiva carriera dei docenti. Per esempio, il titolo di docente aggregato, nel caso di affinità tra laurea specialistica e laurea specialistica per l’insegnamento, potrebbe essere sancito fin dalla conferma in ruolo, senza attendere gli 8 anni di anzianità di cui prima si discorreva. In questo modo si incrementerebbe sia l’incentivo ad una formazione iniziale molto forte sul piano culturale, sia quello di una politica della formazione e del reclutamento da parte delle scuole autonome, in grado di privilegiare, grazie ad eventuali concorrenze delle chiamate, i giovani migliori.

Quale profilo professionale?

I 300 crediti della laurea specialistica per l’insegnamento e i successivi 60/90 non valgono in sé. Sono da collegare ad un preciso profilo professionale che distingue per quanto è necessario le conoscenze (disciplinari e interdisciplinari) e le abilità (didattiche, relazionali, di intuizione psicologica, gestionali, organizzative ecc.) richieste ai docenti che intendono insegnare nei diversi gradi di scuola.

Confrontarsi con questa declaratoria di conoscenze e abilità significa spostare l’attenzione dall’interpretazione quantitativa e meccanica dei crediti, spesso un po’ grottesca, a quella qualitativa. In questo senso, il piano di studi universitario non conta perché ricco di crediti disciplinari o interdisciplinari, oppure relativi all’uso della lingua straniera e delle abilità informatiche; conta se e nella misura in cui ha permesso una reale e controllata trasformazione delle conoscenze e delle abilità richieste dal profilo in competenze professionali.

Questo implica anche che, mentre per le altre lauree specialistiche l’autonomia degli atenei può essere molto ampia, essa, in una laurea specialistica per l’insegnamento, visto i vincoli del profilo professionale terminale, vincoli che non possono essere generici se si vuole una vera professionalizzazione del mestiere, non potrà che risultare inferiore; anche in deroga, se serve, alle disposizioni del 509/99.

Handicap e diversità per tutti.

Va inserito nel contesto del profilo professionale terminale anche la preparazione di tutti gli insegnanti per il trattamento dei soggetti portatori di handicap e delle diversità culturali (migranti, stranieri ecc.). L’idea che questa preparazione si possa ridurre ad una serie di conoscenze e di abilità aggiuntive alla professionalità docente ordinaria è lesiva della stessa identità deontologica dell’insegnante. Occorrerà tarare le conoscenze e le abilità richieste sia sulla formazione iniziale universitaria sia su quella relativa al biennio di straordinariato, ma nell’uno e nell’altro caso deve trattarsi di una preparazione professionale trasversale che tematizza la presenza ordinaria dei soggetti portatori di handicap e delle diversità culturali nelle comuni classi scolastiche, e riesce a gestirla in maniera educativa.

Tutti i docenti, perciò, devono essere capaci di interloquire in maniera proficua con gli specialisti di territorio (terapisti della riabilitazione, neuropsichiatri, psicologi; animatori, mediatori culturali, assistenti sociali) e, al contempo, possedere gli strumenti metodologici e didattici che consentono di trasformare l’handicap e la diversità in una risorsa per la qualità dell’insegnamento, delle relazioni interpersonali degli allievi e dell’organizzazione della classe e della scuola.

Se è ragionevole prevedere che questa formazione dei docenti si possa acquisire nei piani di studio per l’abilitazione all’insegnamento nella scuola dell’infanzia e primaria con 300 crediti a tempo pieno e 60 crediti a tempo parziale durante i primi due anni straordinariato, si può prevedere l’acquisizione della stessa formazione per i docenti delle scuole secondarie con 300 crediti a tempo pieno e 90 crediti a tempo parziale durante i primi due anni di straordinariato.

Questo non esclude, comunque, l’ipotesi di definire, dopo la laurea specialistica per l’insegnamento, anche corsi universitari intensivi di alta specializzazione per particolari tipologie e trattamenti dell’handicap, destinati sia a docenti che devono diventare figure di sistema nelle istituzioni scolastiche ordinarie, sia a docenti che operano in strutture educative speciali o potenziate. Si può dire, anzi, che ne sia la condizione.

Il problema della collocazione.

Dove prevedere la collocazione della laurea specialistica per l’insegnamento? Questo punto resta ancora aperto. Descrittivamente, si possono, però, fare tre ipotesi con relative conseguenze in termini di impostazione del decreto attuativo.

  1. La formazione degli insegnanti è di competenza delle Facoltà (secondo la prassi tradizionale). Formazione primaria a Scienze dell’educazione, i professori di materie letterarie a Lettere, quelle di matematica e scienze a Scienze Matematiche, Fisiche, ecc., quelli di Lingue a Lingue e Letterature Straniere e così via. La Ssis non ha più ragion d’essere (perché la laurea è specialistica e non una specializzazione). Si potrebbe trasformare in un Servizio per la formazione degli insegnanti a cui le facoltà fanno riferimento per le attività di tirocinio e per la gestione e certificazione dei 60/90 cfu post lauream, nonché per gli insegnamenti e le attività didattiche di scienze dell’educazione nelle sedi dove non c’è Scienze della Formazione. Dove invece c’è la Facoltà di Scienze della Formazione essa, oltre ad assicurare il funzionamento del Corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria, dovrebbe farsi carico dei corsi di scienze dell’educazione per gli studenti di Lettere, Scienze, Lingue, ecc. (a meno che queste Facoltà non intendano con il tempo organizzarsi in proprio). Vantaggi di questa opzione: non si cambia molto la struttura tradizionale, le Facoltà sarebbero valorizzate e incentivate e, dunque, sosterrebbero con convinzione questa ipotesi. Svantaggi: non si valorizza l’esperienza delle attuali Ssis, le Facoltà non sono in genere molto interessate agli aspetti della formazione didattica con il rischio che ci potrebbe essere una certa separatezza tra preparazione scientifica e cultura formativa. Per dare attuazione a questa ipotesi occorrerebbe mettere a punto un decreto analogo a quello delle lauree delle professioni sanitarie con l’indicazione della sede ove sono previste le attività didattiche necessarie per conseguire la laurea abilitante alla professione docente (contrariamente a tutte le altre classi di laurea che invece lasciano piena libertà agli Atenei di regolarsi come credono).
  2. Soluzione speculare alla precedente è quella di ridurre il ruolo “politico” delle Facoltà e affidare il coordinamento della formazione degli insegnanti ad una apposita struttura speciale di Ateneo, creata mediante il concorso delle Facoltà. Tale struttura speciale, già prevista dagli attuali ordinamenti universitari, coordina e svolge con il concorso delle Facoltà le attività didattiche per il conseguimento delle lauree specialistiche per la professione docente. Ha facoltà di un regolamento e autonomia gestionale e didattica. Avrebbe come organi il Preside o Direttore, il Consiglio della Scuola e il Consiglio dei Corsi di Laurea. Il Consiglio della Scuola sarebbe costituito dai rappresentanti delle Facoltà coinvolte nelle lauree specialistiche; i membri sono eletti dai rispettivi Consigli di Facoltà, cura e formalizza il rapporto con le scuole, delibera i programmi istituzionali e didattici, elabora e approva il bilancio, ha i compiti tipici dei Consigli di Facoltà ed, infine, elegge il Direttore/preside. Vantaggi: questa soluzione può contare sul nucleo delle attuali Ssis e “centralizzerebbe” in modo unitario la formazione dei docenti. Svantaggi: è facile immaginare che le Facoltà che per antica tradizione si occupano di docenti sarebbero contro questa soluzione che le priverebbe non tanto e non solo di una quota cospicua di studenti, ma soprattutto della stessa loro ragion d’essere. Scienze della Formazione, ad esempio, si troverebbe ad essere del tutto sbilanciata sull’extrascolastico, senza poter mettere a frutto l’esperienza maturata per la scuola e l’insegnamento. Anche in questo caso, come in quello precedente, per dare attuazione a questa ipotesi occorrerebbe mettere a punto un decreto analogo a quello delle lauree delle professioni sanitarie con l’indicazione della sede ove sono previste le attività didattiche necessarie per conseguire la laurea abilitante alla professione docente (contrariamente a tutte le altre classi di laurea che invece lasciano piena libertà agli Atenei di regolarsi come credono).
  3. Una possibile terza soluzione è quella di prevedere soltanto, ma in maniera molto precisa e perfino rigida, l’indicazione dei profili, dei crediti e le tabelle della laurea specialistica (o delle lauree specialistiche) necessari per accedere alla professione docente, senza l’indicazione delle sedi ove conseguire i crediti. Vantaggi: si lascerebbe libertà di organizzazione ai singoli Atenei, valorizzando l’autonomia universitaria. Svantaggi: si moltiplicherebbero le modalità operative ed organizzative nelle quali formare i docenti (Facoltà, Scuole Speciali Interfacoltà, ecc.). Per dare attuazione a questa soluzione occorre un decreto che si limiti a fissare i crediti e condizioni necessarie per accedere ai posti di insegnamento, lasciando agli Atenei la responsabilità di gestire anche questa classe (o queste classi) in analogia all’impianto delle altre 104 classi di lauree specialistiche. In questo caso il decreto dovrebbe anche precisare le modalità di acquisizione dei 60/90 cfu post lauream (lasciando anche qui libertà agli Atenei di organizzarsi come credono oppure prevedendo una struttura omogenea sul territorio nazionale?). Qualunque soluzione si assuma, sarebbe bene evitare il rischio di una eccessiva frantumazione campanilistica della formazione dei docenti. La leva finanziaria dovrebbe, invece, essere adoperata per favorire progetti formativi coordinati tra diversi atenei, della stessa o di diverse regioni, al fine di ottimizzare non solo le risorse materiali e intellettuali presenti in un territorio, ma l’identità, la tradizione e la ricchezza delle diverse sedi universitarie.