Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
Rapporto finale del Gruppo Ristretto di Lavoro
costituito con D.m. 18 luglio 2001, n. 672
Roma, 28 novembre 2001
Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca

 

Parte II

Il controllo e la discussione dell’ipotesi

SOMMARIO CAPITOLO I -

da Palermo a Torino: l'ascolto delle scuole.

Resoconto ed impressioni
Scuola Materna
Scuola Elementare
Scuola Media
Licei
Istruzione Tecnica e Professionale
Le risposte della Formazione Professionale alle prospettive della Riforma

CAPITOLO II -

Le Raccomandazioni del Ministro in discussione
Risposte alla raccomandazione n. 1
Risposte alla raccomandazione n. 2
Risposte alle Raccomandazioni n. 3 e n. 4
Risposte alla raccomandazione n. 5.
Risposte alla Raccomandazione n. 6.
Risposte alla Raccomandazione n. 7.
Risposte alla Raccomandazione n. 8.
Risposte alla Raccomandazione n. 9

CAPITOLO I - da Palermo a Torino: l'ascolto delle scuole.

Resoconto ed impressioni

(a cura di Norberto Bottani, con contributi di Giuseppe Bertagna, Giorgio Chiosso, Michele Colasanto, Ferdinando Montuschi e Silvano Tagliagambe)


Uno degli elementi della strategia di consultazione messa in atto dal gruppo d’esperti per svolgere una complessiva riflessione sull’intero sistema scolastico e per fornire concreti riscontri in vista del suo riordinamento è stata l’organizzazione di una serie di incontri con le scuole, di visite sul terreno per verificare la pertinenza delle ipotesi di lavoro, accertarne la comprensione alla base, nelle scuole, nonché per appurare, con un rapido e parzialissimo sondaggio, lo stato d’animo dei docenti, degli operatori scolastici, degli studenti e dei genitori rispetto ai lavori in corso.
Il cantiere della riforma della scuola italiana aperto quattro anni fa è tuttora in pieno fermento. Al gruppo d’esperti è parso indispensabile tastare lo stato d’animo delle scuole prima di azzardarsi a formulare nuove proposte ed ipotesi. Sarebbe infatti sommamente controproducente e per molti versi controindicato proporre cambiamenti che sarebbero di primo acchito rifiutati da coloro che quotidianamente si trovano sul fronte della scuola, si occupano degli studenti, sono confrontati con le aspettative o le assenze delle famiglie, intrattengono un dialogo con gli enti locali, le forze sociali ed i movimenti associativi.
Negli intenti del gruppo d’esperti, il programma degli incontri, previsti nella settimana 15- 20 ottobre, doveva includere scuole di ogni livello e di ogni tipo del settore dell’istruzione formale, con l’esclusione del settore terziario o universitario, ma con l’inclusione del settore prescolastico. Per la scelta delle scuole e l’organizzazione degli incontri, il gruppo d’esperti si è avvalso della collaborazione delle direzioni generali regionali. Un ringraziamento speciale va rivolto ai tre direttori generali regionali che hanno organizzato le visite in loco e che hanno ospitato in maniera signorile la nostra delegazione : Michele Calascibetta per la Regione Sicilia; Pasquale Giancola per la Regione Abruzzo; Marina Bertiglia per la Regione Piemonte

Il gruppo si è limitato a segnalare al Ministero le aere nelle quali avrebbe voluto recarsi : una nel Sud, una nel Centro ed un'altra nel Nord. Nelle intenzioni del gruppo, la scelta avrebbe dovuto includere istituti "ordinari", rappresentativi della media delle scuole della regione, e non scuole note per sperimentazioni eccezionali o d’avanguardia. Nelle località prescelte, ogni membro del gruppo d’esperti ha visitato una scuola e ha incontrato un consiglio di classe ed il consiglio d’istituto La ripartizione dei compiti all'interno del gruppo è stata la seguente: Ferdinando Montuschi : scuola materna; Giorgio Chiosso : scuola elementare; Giuseppe Bertagna : scuola media; Silvano Tagliagambe :licei; Norberto Bottani : istituti tecnici e professionali; Michele Colasanto : centri formazione professionale.

 

Questo programma è stato rispettato. La lista delle scuole visitate e degli interlocutori incontrati in ogni sede scolastica è inserita nella relazione, alla fine d'ogni sezione.

Le regioni che hanno cooperato all’organizzazione degli incontri e le località in cui erano ubicate le scuole visitate sono state le seguenti :

Sicilia : Palermo e Marsala

Abbruzzo : L’Aquila

Piemonte : Torino e Val di Susa

Il gruppo d’esperti non ha purtroppo potuto visitare scuole della regione del Lazio come era stato inizialmente preventivato per cause estranee alla sua volontà.

Scuola Materna

a cura di Ferdinando Montuschi

Nei consigli di intersezione e di circolo il tema messo in discussione è stato quello del riconoscimento del valore formativo dell'esperienza triennale maturata dal bambino nella scuola materna : più precisamente, nei consigli di intersezione e di Circolo, è stata avanzata e discussa l'ipotesi di riconoscere, per tale esperienza, il credito formativo di un anno da computare nei 12 anni di obbligo formativo previsto per legge, senza che tale riconoscimento introduca né anticipi, né modifiche alla natura o alla durata dei successivi percorsi scolastici. Nella presentazione della ipotesi si è sottolineato l'intento di valorizzazione l'esperienza formativa triennale della scuola materna ricongiungendola al sistema formativo scolastico; la utilità per i ragazzi di poter scegliere, all'età di 17 anni, se rimanere nella istituzione scolastica oppure se dedicarsi ad una esperienza di formazione professionale per poter intraprendere, compiuti i 18 anni, una esperienza lavorativa; l'opportunità per gli insegnanti della scuola materna di poter ottenere, attraverso questo riconoscimento, una maggiore valorizzazione del loro ruolo professionale, anche in vista di uno sviluppo di carriera nei ruoli direttivi della scuola o per altri incarichi che comportano il possesso della laurea. La discussione nei vari organi collegiali ha messo in evidenza atteggiamenti ambivalenti che vengono qui di seguito esplicitati.

  1. Reazioni negative alla proposta La prima impressione di fronte alla proposta è stata caratterizzata dal sospetto, dalla preoccupazione che il "credito" nascondesse un inganno, un "trucco" per conseguire un fine educativo non chiaro e non dichiarato. Altra perplessità è risultata alimentata dalla individuazione di una presunta ingiustizia nei confronti di quanti - proseguendo gli studi - non possono usufruire di alcun vantaggio a fronte di un beneficio dichiarato invece per tutti. Altri ancora hanno intravisto un inopportuno abbassamento dell'obbligo formativo proprio per i più bisognosi di formazione : quelli che lasceranno gli studi all'età di 17 anni. Vi è chi ha avuto difficoltà ad accettare la proposta trovando una sorta di contraddizione fra motivazione iniziale ed effetto finale. "La motivazione di valorizzare il triennio della scuola materna è buona, mentre è negativo e perverso l'effetto finale di diminuire un anno di formazione". Su questa logica alcuni aggiungevano : "Il genitore è stimolato ad iscrivere il figlio alla scuola materna con la prospettiva negativa di un esito fallimentare per il figlio : quello di non proseguire gli studi!".

    Altri argomenti sfavorevoli alla proposta : "Il credito fatto valere a distanza di tanti anni provoca destabilizzazione nella famiglia. Il figlio, a 17 anni, può accusare i genitori di non avergli fatto frequentare la scuola elementare quando era il momento. In ogni caso, proprio le famiglie più svantaggiate finiscono per non riuscire ad utilizzare pienamente l'offerta formativa obbligatoria della scuola". Gli atteggiamenti negativi nei confronti della proposta di riconoscere un anno di credito formativo alla esperienza triennale della scuola materna ha immediatamente portato ad una controproposta : quella di rendere obbligatoria la scuola materna (almeno l'ultimo anno) e di rendere obbligatoria una valutazione dei risultati finali di questa esperienza formativa. L'obbligo viene dunque considerato - da questo gruppo di interlocutori minoritari - l'unico modo per attribuire valore all'esperienza formativa, mentre la libera scelta non attribuirebbe valore : in ogni caso non può interferire né abbreviare un'esperienza "obbligante" come quella dei dodici anni previsti dalla legge. Su questa linea di valutazione negativa o parzialmente negativa si sono collocati il Consiglio di Circolo dell'Aquila, e di Torino; il consiglio di intersezione di Susa.

    Alcuni non vedono l'utilità e la reale "spendibilità" del credito, e avanzano una controproposta : "consentire ai bambini che hanno frequentato il triennio della scuola materna di potersi iscrivere anticipatamente alla scuola elementare purché compiano il sesto anno entro il mese di gennaio dell'anno successivo". Le posizioni contrarie più intransigenti sostengono che "la formazione deve terminare per tutti a 18 anni, oppure, per tutti, a 17 anni".

  2. Gli argomenti per una valutazione positiva Gli insegnanti della scuola materna sono risultati i maggiori sostenitori della proposta, ed hanno visto in essa :
  3. Problemi relativi al riconoscimento del credito formativo di un anno Un problema ampiamente discusso riguarda le "condizioni" per il rilascio della certificazione relativa al credito. Tutti concordano nell'individuare criteri chiari e definiti per non aprire un contenzioso insanabile fra scuola e famiglie in vista del rilascio della certificazione. Un primo dato che trova tutti concordi riguarda il fatto che la semplice iscrizione, di per sé, non dà diritto a certificazione. Alcuni pongono il problema di legare il credito ai risultati conseguiti e accertati. L'argomento è suggestivo perché una eventuale esperienza riconosciuta senza risultati non può garantire crediti. La discussione si protrae e si approfondisce, soprattutto nel consiglio di intersezione della scuola materna di Marsala. Una insegnante esprime la seguente considerazione di sintesi : "nella mia lunga esperienza non ho mai registrato casi di totale insuccesso. Tutti i bambini che hanno regolarmente frequentato hanno conseguito risultati formativi utili, sia pure con esiti tra loro molto diversi. Il vero problema è dunque la frequenza".

    Il problema del riconoscimento del credito non va dunque legato all'accertamento dei risultati quanto piuttosto alla frequenza che necessita di essere regolamentata e quantificata. I risultati finali, acquisti - che sono comunque significativi a fronte di una significativa presenza - restano utili per la programmazione successiva, ma non per la certificazione da rilasciare. Per quantificare la presenza, tendendo conto che inizialmente la frequenza è più difficile da realizzare (adattamento, malattie esantematiche, ecc.), vengono avanzate le seguenti proposte : - si ritiene valida la frequenza se nei primi due anni la frequenza è pari al 50% e nel terzo anno pari almeno al 75% dei giorni previsti; - si ritiene valida -- proposta alternativa -- la frequenza se l'alunno risulta presente almeno 2/3 delle giornate computate sull'intero triennio; oppure, se le assenze sono giustificate e le presenze sono almeno di 300 ore nel triennio. Alla istituzione scolastica si propone di attribuire il potere di adottare deroghe, giustificate e documentate, solo in casi eccezionali.

  4. Altri problemi In alcune sedi (soprattutto in Sicilia) si segnala l'impossibilità di accogliere tutti i bambini i cui genitori abbiano fatto richiesta. Esistono infatti consistenti "liste di attesa" che rendono incerto, e a volte impossibile, l'esercizio del diritto al credito formativo, A fronte dunque di questa proposta, si pone allora il problema dei finanziamenti necessari per mettere tutte le sedi scolastiche in condizione di istituire, in ogni sede, sezioni per soddisfare le richieste di tutti i richiedenti. Si segnala altresì che attualmente le sezioni, un po’ dovunque, superano il numero di trenta alunni. Inoltre si attira l'attenzione sul fatto che le statistiche indicanti una frequenza del 96% per l'ultimo anno e del 87% per il triennio sembrano più relative alle iscrizioni che alla effettiva frequenza sistematica dei bambini. Il dato statisticamente ottimale sembra allora, nei fatti, molto meno soddisfacente e richiede provvedimenti economici aggiuntivi per passare dalla semplice iscrizione alla effettiva frequenza.
  5. Gli attuali "Orientamenti didattici" Il giudizio è unanimemente positivo sugli attuali "Orientamenti didattici" nazionali. Gli insegnanti dichiarano di aver molto faticato a capirli e ad applicarli : attualmente li trovano utilizzabili, aperti e non gradirebbero un loro cambiamento. Ritengono invece importante che vengano tenuti presenti sia per tradurli in obiettivi di riferimento sia per elaborare una griglia di valutazione degli esiti educativi al termine dell'esperienza della scuola materna, al fine di fornire agli insegnanti delle elementari un utile punto di partenza per elaborare la loro programmazione didattica.
  6. Indicazioni conclusive La proposta di riconoscere un credito formativo ai bambini che frequentano sistematicamente, e con giustificazione delle assenze, i tre anni di scuola materna appare largamente condivisibile dagli insegnanti; qualche perplessità proviene dai genitori e dagli insegnanti di scuola elementare. Il problema sembra stimolare, almeno inizialmente, una risposta più emotiva che razionale, e calamitare tutte le scontentezze che provengono da delusioni su altri fronti della riforma scolastica. La motivazioni a favore della proposta risultano emergere dal concetto stesso di "formazione" come concetto più ampio di quello di "istruzione" : un concetto più comprensivo e non legato al tempo in cui si realizzano e pertanto di valore permanente. Così come un trauma della prima infanzia permane per tutta la vita, allo stesso modo una esperienza formativa significativa della prima infanzia permane nel tempo : non solo per il periodo dell'obbligo scolastico ma anche oltre e con effetti positivi riscontrabili sull'apprendimento scolastico poiché incide sulla persona che di tale curricolo è protagonista. Le garanzie che vanno comunque date devono portare ad un collegamento e ad una continuità "forte" fra scuola materna e scuola elementare, con la indicazione di criteri di valutazione dell'esperienza di scuola elementare in vista della sua prosecuzione nella scuola elementare; ad una formazione iniziale ed in servizio dei docenti dei due ordini di scuola per molti aspetti comune e di uguale durata; alla realizzazione effettiva dell'obbligo di istituire le scuola dell'infanzia su tutto il territorio scolastico per soddisfare le richieste reali dei genitori; alla definizione chiara dei criteri di certificazione e di validità della frequenza.

DIREZIONE DIDATTICA "LOMBARDO RADICE", PALERMO (15 ottobre 2001)

Dirigente scolastico : Agata Caruso,

Partecipa il Consiglio di Intersezione Parteci il Consiglio di Circolo

CIRCOLO DIDATTICO "GARIBALDI", MARSALA (16 ottobre 2001) Dirigente scolastico : Coppola A.

Partecipa il Consiglio di Interclasse Partecipa il Consiglio di Circolo

DIREZIONE DIDATTICA "PADRE GEMELLI" TORINO, (19 ottobre 2001)

Dirigente scolastico : Bisicchia Simona Partecipa il Consiglio di Circolo

DIREZIONE DIDATTICA, BUSSOLENO (20 ottobre 2001)

Partecipa il Consiglio di Intersezione (sezioni A, B, C)

Partecipa il Consiglio di Circolo

PS : Non è pervenuto l'elenco dei partecipanti agli incontri avvenuti all'Aquila.

Scuola Elementare

a cura di Giorgio Chiosso

Il mio "viaggio pedagogico" (mi sento quasi nei panni del livornese e giramondo Enrico Mayer al quale dobbiamo un celebre "viaggio pedagogico" pubblicato nel primo’800) inizia la mattina del 15 ottobre 2001 con un volo Torino-Palermo che atterra in perfetto orario all’aeroporto di Punta Raisi dove incontro, come previsto, tutti i componenti il Gruppo di Lavoro. Da questo momento in poi comincia la nostra avventura all’interno del "continente scuola" italiano. Per una settimana lo sezioneremo in sala operatoria (confrontando le ipotesi di riforma con consigli di classe e consigli di istituto) e non ne parleremo soltanto tra noi e gli esperti, distanti dalle voci degli allievi e dalle preoccupazioni quotidiane degli insegnanti.

Non vorrei che queste riflessioni preliminari fossero prese come un inutile divagazione, perché qualsiasi nostra iniziativa non può prescindere dallo stato d’animo, dalle intenzioni e anche dai pregiudizi di chi la compie. Credo di dover precisare, in sostanza, il luogo (psicologico e culturale) nel quale mi sono dislocato, allo scopo di restituire negli appunti che seguono non l’astratta "obiettività", ma quello che ho percepito, ho vissuto ed ho anche direttamente partecipato insieme agli insegnanti e ai genitori presenti alle audizioni, nei limiti del mio ruolo di "consultore".

Onestà intellettuale vuole che dica con franchezza che ero alquanto scettico sulla reale utilità, ai fini del nostro lavoro, di questa scorribanda in Italia che mi sembrava non apportare novità particolari all’impianto della possibile riforma già approfondito, nelle precedenti settimane, con esperti, studiosi, opinionisti, esponenti del mondo del lavoro e della formazione, ecc. Mi sembrava che il "viaggio pedagogico" si configurasse piuttosto come una "operazione immagine" messa in campo per giustificare i ripetuti impegni assunti dal Ministro intorno alla volontà di sentire "la scuola".

Devo, invece, riconoscere che il bagno di realtà vissuto nella settimana di visite ha positivamente integrato un approccio fino a quel momento un po’ troppo teorico e politico alla riforma, mettendomi (mettendoci) di fronte a quella che il Machiavelli chiama la "realtà effettuale" alla quale nessuno sfugge e della quale occorre tenere il massimo conto nel momento in cui si progetta un intervento così strategico quale quello al quale il Gruppo di lavoro sta pensando.

In secondo luogo temevo che le scuole, ovviamente informate in precedenza della nostra visita, ci mostrassero il cosiddetto "vestito della festa" nella, peraltro più che ragionevole preoccupazione, di "fare bella figura" (con il Direttore regionale, con noi "inviati del Ministro", ecc.). Ed invece così non è sempre stato.

A Marsala, ad esempio, ho vissuto in diretta le preoccupazioni del Dirigente scolastico seriamente impegnato a far funzionare la mensa, ancora in fase di rodaggio. All'Aquila siamo stati rallegrati dal vociare di allegre scolaresche in ricreazione nel cortile su cui si affacciavano le finestre aperte del locale dove si svolgeva la riunione. A Sant'Antonino di Susa, la gentile Preside ha rallegrato con i pasticcini una giornata un po' scura a causa del maltempo e molto fredda (compresa l'aula dei nostri incontri) che mi è costata una tracheite e un abbassamento della voce. Ad Ostia (sesta virtuale tappa del nostro "viaggio") ho sperimentato il fatto che talvolta le cose non funzionano come dovrebbero e, di conseguenza, non abbiamo potuto visitare le scuole prescelte per la semplice ragione che nessuno si è ricordato di confermare il nostro arrivo e, dunque, non erano stati convocati i consigli scolastici previsti dal protocollo di visita. Piccoli spezzoni di vita di tutti i giorni, con un sano bagno nella "realtà" che non guasta.

Detto questo non intendo cadere nel rischio opposto (e cioè nella convinzione di aver visto la "scuola reale"), ma posso dire serenamente che, almeno per quanto mi riguarda, le ore (da 5 a 6 in media) trascorse nelle scuole hanno consentito di cogliere stili di lavoro, modalità organizzative, difficoltà e pregi delle diverse situazioni e soprattutto la personalità, più o meno forte, dei dirigenti che, almeno in un caso, ha anche in parte condizionato l’andamento della consultazione.

La continuità tra scuola dell’infanzia e scuola primaria

Il primo tema posto all’attenzione dei consigli di interclasse e di circolo è stato quello del rapporto tra scuola dell’infanzia e scuola primaria, consapevole che se si imposta la riforma all’insegna del principio di continuità, tale principio non può essere smentito neppure nel passaggio tra i due segmenti scolastici inferiori. La questione è stata molto dibattuta nelle due scuole siciliane (nei cui consigli di circolo erano presenti anche rappresentanti delle scuole dell’infanzia) in ragione del fatto che per mancanza di posti-alunno numerosi bambini tra i 3 ed i 6 anni non possono frequentare la scuola dell’infanzia e giungono alla prima classe della scuola primaria senza la padronanza di quei cosiddetti "pre-requisiti" (so bene che non si potrebbe usare questa parola, ma non me ne viene nessun’altra migliore) per entrare nel sistema della piena scolarità infantile.

La richiesta insistente (tanto a Palermo quanto a Marsala) è stata perciò quella del potenziamento della scuola dell’infanzia in modo da soddisfare le esigenze di famiglie e di bambini, pur conservando alla scuola dell’infanzia le caratteristiche attuali : non obbligatorietà e forme educative non scolasticistiche. Se l’introduzione del credito può contribuire ad incrementare e migliorare l’offerta di scuole dell’infanzia (questo mi è sembrato il ragionamento più ricorrente) allora questa strada può essere percorsa, anche se in genere è sembrata di non facile (e tanto meno immediata) comprensione l’ipotesi di un credito da "spendere" soltanto nel canale della formazione e al 17° anno.

Un atteggiamento improntato ad una più convinta (e meno pragmatica) adesione al credito annuale (rispetto alla frequenza dell’intero triennio) ho ritrovato nelle scuole dell’Aquila e di Torino. In un solo caso ho invece registrato la richiesta di anticipo della scolarità obbligatoria al 5° anno, pur nelle forme didattiche attuali (consiglio di interclasse, Istituto comprensivo di Sant’Antonino di Susa).

Nell’insieme mi pare abbastanza generalizzata la convinzione che occorre agire sui primi anni di scuola per scongiurare una serie di potenziali esiti negativi o insoddisfacenti e che questo occorra farlo radicando in modo forte la scuola dell’infanzia nel sistema scolastico, evitando derive assistenzialistiche o stile servizi sociali come potrebbe accadere nell’ipotesi che questo segmento formativo passasse alle dipendenze delle Regioni che finirebbero per "agganciarlo" all’asilo-nido, creando un unico blocco di interventi per l’arco 0-6 anni.

Scuola primaria quinquennale in continuità con la scuola secondaria di 1° grado

Salvo in un caso (di cui dirò tra breve) non ho riscontrato soverchie nostalgie per la scuola settennale prefigurata dalla legge n. 30, provvedimento che in genere appare circondato da qualche punta di scetticismo per l’evidente difficoltà a gestire il fenomeno della cosiddetta "onda anomala". Invece ho trovato (fenomeno che trovo singolare) abbastanza diffusa la convinzione (parlo ovviamente degli insegnanti) che gli "Indirizzi" predisposti dal ministro De Mauro si possano ormai ritenere i "Nuovi Programmi", con una grande confusione non solo tra "Indirizzi" e "Programmi" (nella scuola dell’autonomia i "Programmi" non possono essere più previsti) e tra ciò che è ancora in fase di decisione (gli "Indirizzi", mai entrati in vigore) e ciò che invece ancora esiste sul piano ufficiale (i "Programmi" del 1985).

Soltanto nella scuola elementare "Pallavicino" di Palermo ho incontrato un consiglio di interclasse che ha combattivamente sostenuto la validità della scuola settennale, dichiarando di ritenere un grave passo indietro la conservazione dell’articolazione quinquennio scuola primaria/triennio scuola secondaria di 1° grado. Mi è, tuttavia, parso che dietro all’energica difesa del progetto Berlinguer-De Mauro stessero più ragioni ideologiche che approfondite e documentate convinzioni pedagogiche.

Ad ogni modo è opportuno tenere conto anche ai fini del nostro lavoro che occorre scontare una quota di insegnanti favorevoli al principio della continuità istituzionale.

Il generale consenso all’ipotesi della distinzione ordinamentale e della continuità curricolare si è articolato intorno ai seguenti punti :

Scuole comprensive e in rete

Il ridotto campione delle scuole visitate era costituito da un solo istituto comprensivo (Sant’Antonino di Susa, materna/elementare/media, con dirigente una preside di scuola media) e da quattro circoli didattici tradizionali con alcune sezioni di scuole materne. Ho tratto due impressioni che restituisco con tutta la provvisorietà del caso :

L’idea delle scuole in rete risulta vista in modo positivo, anche se tuttavia nessuna delle sedi lavora già ora realmente secondo la logica della rete. Nel migliore dei casi esistono forme di interazione e di collaborazione intorno a specifiche questioni (come, ad esempio, nel caso delle prove dei livelli di apprendimento sperimentate presso il circolo "Galilei" dell’Aquila). Non sembra particolarmente avvertita l’esigenza di "direttori didattici" in grado di svolgere funzioni di animazione didattica (c’è il timore che possano essere eventualmente limitate le libere iniziative dei gruppi docenti). Perplessità sono state manifestate anche verso l’ipotesi del docente prevalente nel primo ciclo (si preferirebbe la soluzione a moduli). Ragionevole appare invece la scansione dei due docenti per le classi del secondo ciclo e del gruppo docente (tre-quattro) per la 5a classe.

Aspetti e problemi della valutazione

Nell’ultima parte delle riunioni ho sottoposto ai presenti anche istanze e problemi riguardanti il Servizio Nazionale per la Qualità del Sistema di Istruzione e di Formazione, formulando anche precise proposte in ordine all’assetto che il servizio potrebbe assumere sul piano dell’organizzazione delle verifiche periodiche intorno ai livelli di apprendimento stabiliti in coerenza con gli obiettivi specifici di apprendimento. Riferisco gli orientamenti scaturiti dalle discussioni :

Credo che su questo punto si possa concludere con una doppia riflessione. Sia pure con sensibilità e argomenti diversi, il principio di periodici sondaggi in ordine alla qualità degli apprendimenti non è contestato in via di principio (anche se le quote più sindacalizzate, ved. circolo "Pallavicino" di Palermo lo guardano con grande sospetto e tutto lascia intendere che potrebbero contrastarlo con vigore nel caso fosse messo in pratica). Esso è, comunque, sottoposto ad una raffica di osservazioni critiche e di puntualizzazioni pratiche, anche da parte di chi lo ritiene necessario e tutti alla fin fine (anche se nessuno lo dichiara in modo esplicito) sperano che nulla cambi (la pratica di soluzioni così lontane dalle consuetudini correnti appare addirittura fantascientifica).

La posizione dei genitori risulta invece decisamente più favorevole a valutazioni di carattere generale, senza eccessivi distinguo. Nelle mie consultazioni si può anzi dire che questo sia l’unico punto in cui la posizione dei genitori è emersa con una certa chiarezza (in genere sono stati abbastanza silenziosi o si sono allineati alle posizioni degli insegnanti).

DIREZIONE DIDATTICA "PALLAVICINO", PALERMO (15 ottobre 2001)

Dirigente scolastico : Dr Leonardo Sagunto

Partecipa il Consiglio di interclasse Partecipa il Consiglio di circolo

4° CIRCOLO DIDATTICO "SAPPUSI", MARSALA (16 ottobre 2001)

Dirigente scolastico : Dr.sa Maria Grazia Sessa

Partecipa il Consiglio di interclasse Partecipa il Consiglio di circolo

CIRCOLO DIDATTICO "G. GALILEI", L’AQUILA (18 ottobre 2001)

Dirigente scolastico : Dr.sa Maria Corridore

Partecipa il Consiglio di interclasse Partecipa il Consiglio di circolo

DIREZIONE DIDATTICA "DUCA D’AOSTA", TORINO (19 ottobre 2001)

Dirigente scolastico : Dr.sa Giovanna Ternavasio

Partecipa il Consiglio di interclasse Partecipa il Consiglio di istituto

ISTITUTO COMPRENSIVO DI SANT’ANTONINO DI SUSA, SANT’ANTONINO DI SUSA (20 ottobre 2001)

Partecipa il Consiglio di interclasse

Partecipa il Consiglio di istituto

Scuola Media

A cura di Giuseppe Bertagna

Cercando di sottolineare maggiormente in un caso il punto di vista dei docenti e nell’altro dei genitori, ogni consiglio di classe e ogni consiglio di istituto è stato introdotto da una breve relazione nella quale :

Riassumo qui di seguito i pareri e le reazioni raccolti nelle cinque sedi visitate.

Scuola media statale Ignazio Florio, Palermo (15 ottobre 2001)

Insiste su due vasti quartieri della città, il Resuttana San Lorenzo e il Pallavicino. Un suo studente, Claudio Domino, venne assassinato 11 anni fa ‘per mano omicida’ (mafia ? criminalità comune ? altro ? : ancora non si sa) dinanzi ai cancelli della scuola. Registra tra gli studenti "comportamenti inquietanti predittivi del costume mafioso quali il familismo, l’affiliazione, il bullismo, la prevaricazione, l’antagonismo, nonché tratti di xenofobia". Per questo, guidata da una dirigente molto attiva e impegnata, dichiara nel Pof di "realizzare la finalità del suo progetto politico : sviluppare e trasformare la cultura del territorio", attivando "un processo di liberazione e coscientizzazione" che vada "oltre i bisogni espliciti" espressi dalle famiglie e dall’ambiente. locali sono recenti (1998), non esistono doppi turni. Ha a disposizione un docente distaccato con le funzioni di psicopedagogista. Il Pof è molto curato, arricchito di indagini sociologiche e psicologiche sulla realtà della scuola e degli allievi. Numerosi i progetti attivati nell’istituto (tra cui ‘Adottiamo un monumento’ e il ‘Progetto Giano’ contro la mentalità ed i comportamenti mafiosi). Interessante la circostanza che per ogni classe si disponga dei dati relativi alle prove di ingresso degli allievi (265 iscritti, 249 testati), riguardanti le abilità di base (numeriche, di studio, di ragionamento e di lettura) e le dimensioni etiche, motorie, relazionali, creative, decisionali e della personalità. Ne risulta una documentazione molto utile sia a verificare se davvero le classi sono state costituite, come era intenzione, in base al criterio della equieteroneità, sia ad impostare con consapevolezza le attività didattiche annuali.

Il consiglio di classe coinvolto nell’audizione è stato quello della 1a C. Sono presenti, oltre ai docenti di classe, anche lo psicopedagogista e il vicepreside. Le preoccupazioni maggiori di 5 docenti sui 9 di classe che sono presenti riguarda l’incapacità dei ragazzi di rispettare le regole stabilite per la vita di classe. La professoressa di matematica segnala piuttosto la loro inadeguatezza nella comprensione dei testi e la loro scarsa capacità di attenzione e di concentrazione. Su questa base si apre la discussione sulle ipotesi della legge 30 e su quelle presentate dal Gruppo di lavoro ministeriale. Solo la preside e la professoressa di matematica, pur riconoscendo all’ipotesi del Gruppo di lavoro numerosi meriti, messi di fronte ad una scelta ritengono di preferire la soluzione adottata dalla legge 30. Gli altri docenti la ritengono al contrario inadatta. Soprattutto li preoccupa il fatto che ragazzi ancora così poco maturi siano costretti a scegliere tra i diversi indirizzi della secondaria a 13 invece che a 14 anni. Un anno in più, soprattutto se visto nell’ottica del biennio terminale di orientamento, avrebbe sicuri effetti positivi. Consensi unanimi riceve comunque la scelta di ipotizzare un biennio che comprenda la 5a elementare e la prima media e che obblighi i docenti dei due gradi scolastici a collaborare insieme nei momenti della programmazione e della valutazione. Anche la prospettiva di prove nazionali predisposte dal Servizio nazionale per la Qualità della scuola non desta preoccupazioni, ma viene anzi accolta come un’opportunità da adoperare per migliorare la qualità e la responsabilità della scuola.

La discussione si fa invece molto più animata nel consiglio di istituto. La preside e tre docenti sentono la proposta del Gruppo di lavoro più come una disconferma politica dell’azione del precedente governo e della legge 30 da esso propiziata che come una diversa e migliore soluzione riformatrice. Inoltre, ravvisano nell’eventuale adesione alla proposta di un Gruppo di lavoro nominato dal Ministro una specie di delegittimazione della militanza pedagogicamente e socialmente progressista che hanno sempre testimoniato anche a livello sociale e professionale. Ritengono perciò che sarebbe un segnale negativo non confermare la legge 30, anche con i problemi di fattibilità che, pure, riconoscono, la accompagnano. Non sono di questa opinione, al contrario, tre docenti e i quattro genitori presenti. In particolare, il presidente del consiglio di istituto. Essi ritengono che i problemi educativi, culturali e didattici dei ragazzi sarebbero meglio tutelati con l’impianto predisposto dal Gruppo di lavoro.

Scuola Media Statale "V. Pipitone", Via Sarzana 3, Marsala (16 ottobre 2001)

La scuola media si trova in una zona centrale della città. Ha anche corsi Eda, che vedono coinvolti docenti della scuola elementare e della scuola media. Non è comprensiva, ma è collocata in una sede contigua al Liceo classico. Tra le due istituzioni non esistono, tuttavia, integrazioni a rete o diretto per particolari iniziative, o didattiche o di presenza sociale. I docenti dell’Eda non impostano, peraltro secondo la norma, la propria attività sull’insegnamento solo disciplinare ma anche su progetti. Esiste la seconda lingua, per cui si ha un orario settimanale di 33 ore. Le ore di insegnamento sono di 50 minuti per poter avere a disposizione tempo per i Laboratori, nel corso dei quali si svolgono attività pluridisciplinari o si affrontano problemi complessi. I Laboratori prendono il 15% del tempo curricolare. L’organizzazione scolastica è modulare per educazione artistica e musicale, nel senso che sono portate, per i ragazzi, a 4 ore per ogni quadrimestre. A richiesta delle famiglie, la scuola offre anche laboratori didattici pomeridiani di lingue straniere (con lettori di madre lingua di inglese e francese), informatica, attività teatrali e gruppo sportivo.

I due consigli di classe coinvolti nell’audizione sono della 1a D e del centro Eda. Numerose le domande di chiarimento sia sulla legge 30, che non risulta affatto conosciuta nei dettagli e di cui si ha un sostanziale timore, sia sulla proposta alternativa di revisione. Ogni docente esprime poi la propria posizione. Chi scrive è colpito dai toni misurati e dai continui riferimenti alla concretezza educativa dei problemi posti in discussione. Si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad una scuola che non tenta di imporsi al tessuto sociale che serve e che la circonda con propri progetti più o meno ideologici e pedagogici, ma che intende costruire insieme ai genitori e all’ambiente un percorso di cambiamento condiviso e comunemente coinvolgente. La critica alle soluzioni adottate dalla legge 30 non è mai ideologica, ma giustificata da sistematici riferimenti a problemi e situazioni concrete vissute dai singoli nel contesto di lavoro. Il rischio, si sottolinea, era che per voler realizzare un disegno in astratto anche condivisibile si finisce per promuoverne un altro molto meno convincente. Solo un docente, quello di educazione tecnica, interviene per segnalare la propria piena adesione ai dispositivi della legge 30, ma rimanendo più su un piano ideologico che operativo e didattico viene si può dire persuaso dagli altri con esempi e con simulazioni a riconoscere la necessità di superare la propria posizione, cosa che esplicita proprio in chiusura di seduta. Pur non negando i problemi che anche la proposta alternativa pone alla professionalità dei docenti, professionalità che esige un forte investimento nel cambiamento soprattutto nel passaggio dalla quinta elementare alla prima media, alla fine la totalità dei presenti reputa una sfida percorribile e da raccogliere quella tracciata dal Gruppo di lavoro, e ne sottolinea i caratteri sia di innovazione sia di adesione ad un know how per certi aspetti già presente nell’azione e nella tradizione della scuola italiana. Qualche perplessità, invece, si esprime sulle 25 ore obbligatorie e sulle 300 facoltative perché si teme che in questo modo i ragazzi e le famiglie siano spinti a considerare conclusi i propri percorsi formativi solo con l’orario obbligatorio, ma è anche viva la consapevolezza, come sostiene il dirigente, che proprio questo apre per la scuola e la professionalità docente una interessante prospettiva di sollecitazione e di coinvolgimento dei ragazzi e delle famiglie.

Ancora più interessante della seduta dei consigli di classe è stata quella del consiglio di istituto. La discussione è stata intensa, ricca di curiosità non banali. Soprattutto i genitori vi hanno partecipato. Il signor Stefano Caruso, per esempio, ha ritenuto di presentare per scritto alcune sue osservazioni. "Ho apprezzato innanzitutto, egli scrive, la disponibilità al confronto con chi vive le diverse realtà scolastiche reali, al fine di individuare eventuali correttivi alla legge 30. Non credo ci siano precedenti in tal senso. Inoltre, a mio modo di vedere, altro aspetto di fondamentale importanza è quello di avere disquisito sull'argomento da un punto di vista tecnico, relegando, così come deve essere, l'aspetto politico ad elemento non prioritario. Ciò premesso Lei ha individuato come fulcro della riforma gli alunni, tralasciando la classe docente che, essendo a mio avviso oggi estremamente appiattita, deve essere opportunamente motivata sia economicamente che moralmente, assicurando, nel contempo, una più rigorosa valutazione lungo tutto il percorso lavorativo. Faccio presente che è tuttora in uso fra i docenti assumere posizioni e comportamenti propri dello schieramento politico di appartenenza, quando, invece, è solamente dimostrando con chiari criteri oggettivi ed opportune garanzie che realmente chi qualitativamente è più valido deve andare avanti, differenziandosi da chi non profonde alcun impegno, che, al contrario, non può e non deve trovare analoga considerazione. Anche la lingua inglese da tutti quotidianamente considerata "straniera", nel nostro contesto deve essere studiata al pari dell'italiano, sin dall'età infantile, che è il periodo di maggiore e più facile apprendimento. Nel prospetto da Lei illustrato ritengo particolare attenzione abbia il momento di formazione che racchiude il 5° e 6° anno scolastico : infatti conflittualità possono sorgere tra maestri e professori, ritenendosi quest'ultimi più qualificati dei primi. Estremamente importante è anche, come Lei ha evidenziato, ricreare nuove sinergie tra docenti e genitori, tra scuola e realtà sociali. Infine gli scrutini finali di ogni biennio e le prove d'ingresso al biennio successivo meritano, a mio avviso, un approfondimento perché si rischia, senza le opportune strategie di breve e medio periodo che motivino la nostra classe docente, di avere giudizi disomogenei o addirittura contrastanti". Anche il signor Mancuso esprime un’adesione convinta al progetto di revisione della legge 30, sottolineando di vedere come acquisto la presenza di uno sviluppo progressivo, e non ripetitivo, come accade ora, dei piani di studio della scuola primaria e media. In questa prospettiva attribuisce un significato molto importante al terzo biennio che vede lavorare insieme maestri e professori. Come recita il verbale dell’incontro, infine, "tutti i membri del Consiglio di istituto esprimono parere favorevole e si mostrano complessivamente soddisfatti degli emendamenti proposti dal Gruppo di studio ministeriale alla riforma".

Scuola media “Alighieri” , L’Aquila (18 ottobre 2001) a cura di Giovanni Desco

La scuola è dotata di ottime strutture, ed è situata nella prima periferia della città, a fianco del liceo scientifico. La scuola è dotata di un laboratorio informatico molto conosciuto e apprezzato. Sono stati svolti 3 incontri, 4 consigli di classe accorpati in 2 riunioni ed il consiglio di istituto.

Nel corso del primo Consiglio di classe la discussione si concentra sulla valutazione nazionale e sulla proposta dei laboratori opzionali. Quanto alla prima, tutti gli intervenuti trovano interessante istituire un momento di valutazione nazionale all’inizio di ogni biennio, purché si chiarisca molto bene che questa costituisce il punto di partenza della programmazione del biennio che inizia (e non diventi invece una indiretta valutazione dei docenti del biennio precedente). Sui laboratori, si intravedono difficoltà di organizzazione concreta, difficoltà accentuata dalla volontà di evitare la logica “materie obbligatorie – materie facoltative”: molti dei presenti si interrogano quindi sulla modalità possibile per “tagliare” 5 ore dall’attuale orario obbligatorio e “spostarle” nelle 300 ore opzionali. Il Dirigente Scolastico nota che l’orario facoltativo si potrebbe realizzare bene con l’organico di Istituto. Sempre sui laboratori, alcuni evidenziano il rischio di una forte concorrenza con le scuole private e soprattutto con le altre agenzie di formazione (es. istituti di lingue straniere). Si sottolinea, però, che la valutazione finale circa il raggiungimento degli obbiettivi specifici di apprendimento spetta in ogni caso alla scuola. Altre insegnanti, al di là delle difficoltà organizzative, intravedono nell’ipotesi presentata più opportunità che rischi (al contrario dei colleghi), facendo espressamente riferimento al laboratorio informatico e a quello musicale, che sarebbero fruibili da un maggior numero di studenti rispetto agli iscritti della scuola.

Anche nel secondo Consiglio la discussione si focalizza sulla valutazione nazionale e sui laboratori. Come per il precedente Consiglio, la proposta di una valutazione su scala nazionale viene apprezzata con alcune precisazioni: in particolare si sottolinea l’importanza della trasparenza e della conoscenza dei criteri e anche dei contenuti con cui si svolge PRIMA dell’insegnamento nel biennio, in modo che se ne possa tenere conto nella programmazione didattica. Il docente di Educazione Tecnica apre il dibattito sui laboratori, portando all’attenzione dei presenti l’eventualità di una classe molto debole che deve usare tutte le 10 ore settimanali per il recupero degli apprendimenti e chiede come si concilia questa eventuale circostanza con il fatto che certi obbiettivi di apprendimento si devono raggiungere tramite i laboratori. Il docente di Lettere individua la principale positività dei laboratori nella differenziazione dei ragazzi (per valorizzare le eccellenze), ma rileva grandi difficoltà organizzative; in particolare dichiara che servono nuovi OOCC per organizzare i nuovi percorsi (in particolare per i laboratori).

Alcuni insegnanti, infine, chiedono se l’insegnamento sarà modulare; come nel Consiglio precedente, ci si interroga sul futuro delle discipline in relazione alla nuova organizzazione ipotizzata (percorso obbligatorio, laboratori): ci si interroga sul fatto che il raggiungimento di alcuni obbiettivi specifici di apprendimento possa significare che intere discipline possano trovare nuova collocazione nei laboratori, oppure tutte le discipline resteranno, seppur essenzializzate, nel curricolo obbligatorio di 25 ore e nelle ore di laboratorio avranno una programmazione di potenziamento (eccellenza) e di recupero. Nel caso si voglia perseguire la seconda ipotesi, viene richiamata la situazione, prefigurata dal professore di Educazione Tecnica, di una classe particolarmente disagiata che debba usare tutte le ore di laboratorio per recupero. La riunione si conclude con la richiesta di essere aggiornati su come procederanno i lavori del Gruppo di lavoro ministeriale, con l’avvertenza di verificare attentamente la fattibilità concreta delle ipotesi allo studio (tendenzialmente condivise) per non commettere errori già visti nei tentativi di riforma della scuola italiana.

Nel Consiglio di Istituto la discussione è stata in gran parte condizionata da un genitore dimostratosi pregiudizialmente contrario alla revisione della legge 30, che pertanto ha sottolineato una radicale contraddizione nella proposta presentata tra il livello ordinamentale (5 + 3) e quello curricolare (4 bienni), specialmente nel caso del terzo biennio. Circa la proposta di percorso unitario, il medesimo genitore sottolinea che alcune ripetizioni sono utili perché a età diverse si apprende in maniera differente; chiede se si possono utilizzare i laboratori per queste ripetizioni di contenuto. La riunione sviluppa il tema dei laboratori, i partecipanti ai precedenti consigli di classe spiegano al genitore quanto emerso nelle altre riunioni. In conclusione, la maggioranza dei partecipanti si dichiara “aperta” alla proposta presentata, raccomandando di approfondire il tema dell’extra-curricolare, perché potrebbe trasformarsi in occasione di forti discriminazioni sociali.

Scuola Media "Mazzini", L'Aquila (18 ottobre 2001)

L’istituto è comprensivo. La dirigente proviene dalla direzione didattica della scuola elementare ed ha aderito con entusiasmo alle prospettive annunciate dalla legge 30, in particolare all’istituzione della scuola di base.

I consigli di classe riuniti a discutere sono due, uno di 2a media, uno del centro Eda, che svolge il proprio servizio anche come scuola carceraria. Si assiste ad una polarizzazione. La dirigente e una docente guardano con sospetto all’operazione di revisione della legge 30. Ritengono che possa gelare entusiasmi innovativi che invece l’applicazione della legge 30, senza sospensioni, poteva attivare. Inoltre, ritengono che le soluzioni adottate dalla stessa legge fossero in assoluto le più pertinenti. Gli altri docenti, chi per motivi sistemici (far scegliere tra Liceo classico o Liceo professionale a 13 anni è reputato, per esempio, una imprudenza pedagogica), chi per ragioni più contingenti e quasi di esperienza personale, sono invece del parere che sia stato un bene sospendere l’attuazione della legge 30 e procedere ad una sua correzione. Le ipotesi del Gruppo di lavoro per un verso non fugano i timori, in particolare, quelli che nascono dalle verifiche dell’apprendimento previste all’inizio di ogni biennio successivo al precedente. Si teme che ciò si possa risolvere in un controllo surrettizio della professionalità dei docenti invece che servire ai docenti e alla scuola come strumento per meglio tarare l’attività educativa e didattica. Per l’altro, trovano, tuttavia, anche convinte adesioni. In particolare, la distinzione tra presenza ordinamentale della scuola primaria e della scuola media e il suo superamento sul piano della continuità didattica, con l’articolazione in bienni; la scelta tra percorsi di istruzione liceale e di istruzione/formazione professionale a 14 anni; il carattere maggiormente orientativo, rispetto ad oggi, del biennio terminale della scuola media; la costruzione a doppia velocità dei piani di studio con ritmi biennali per le attività delle 825 ore obbligatorie e quadriennali per le attività di laboratorio.

Anche il consiglio di istituto ripropone una polarizzazione. La dirigente e una docente esprimono le loro perplessità e, pur riconoscendo pregevolezze anche alle ipotesi di correzione avanzate dal Gruppo di lavoro, alla fine ritengono che sarebbe meglio renderle compatibili con l’impianto già definito dalla legge 30, senza modificare l’impianto strutturale da essa presentato. Di opinione opposta tutti gli altri che giungono però a questa conclusione dopo un dibattito per nulla rituale e a tratti molto acceso. Soprattutto i genitori sostengono la necessità di superare le soluzioni della legge 30 e di adottare le correzioni prospettate durante l’incontro.

Istituto comprensivo Leonardo da Vinci, Via degli Abeti 13, Torino (19 ottobre 2001)

La scuola è di frontiera. Posta alla periferia della città, in un quartiere cresciuto troppo in fretta negli anni della grande immigrazione torinese dal Sud, sconta un tessuto sociale esterno fragile quando non, in certi casi, inesistente. La stessa collocazione della scuola ne è una prova. Alle 22, quando finisce il consiglio di istituto, si esce su strade buie, non adeguatamente illuminate; è impossibile prendere un mezzo pubblico che riporti in città ad una distanza ragionevole dalla scuola senza aspettare ore. Un taxi arriva dopo 15 minuti dalla chiamata. Il tassista dice, poi, che si è fortunati con appena 15 minuti, perché a quest’ora nessuno di loro, se non è già sulla strada del ritorno da un viaggio precedente, ama venire in questo quartiere dove le chiamate sono alcune volte abusive e la clientela non è quella comune.Si devono perciò comprendere le difficoltà incontrate dalla dirigente e dai docenti nello svolgimento del proprio lavoro.

Il consiglio di classe della 1a F esprime questo disagio. I docenti sono smagati. L’entusiasmo ha in molti casi lasciato il posto ad un senso di impotenza e a uno scetticismo sulla possibilità di risultati culturali ed educativi soddisfacenti. La strategia praticata, perciò, è più quella del contenimento del danno che quella della risoluzione dei problemi, del resto così sproporzionati rispetto alle reali possibilità della scuola da esigere forti interventi sistemici di natura sociale e culturale. Basta poco, però, per accendere un dibattito che rivela insospettate originalità anche professionali dei docenti. Si ha l’impressione che essi avessero più subito che voluto i dispositivi della legge 30. Guardavano con sospetto alla eliminazione della scuola elementare e media e alla nascita della scuola di base settennale. Vivendo fenomeni di bullismo spesso gravi avevano il timore di una loro moltiplicazione e di una difficoltà ulteriore nella gestione del fenomeno. Inoltre, non erano convinti che a 13 anni i loro ragazzi fossero maturi per poter decidere se iscriversi ad un Liceo classico o a un Liceo tecnologico o tecnico. Hanno perciò visto con sollievo due elementi : che un Gruppo ministeriale incaricato di mettere alla prova alcune ipotesi di riforma avesse sentito l’urgenza di confrontarsi con una scuola e con docenti come loro; che tale Gruppo avesse in qualche modo già elaborato ipotesi che, almeno in parte, tentavano una risposta alle loro preoccupazioni. Hanno, perciò, aperto un fuoco di fila di domande di chiarimento e di valutazione, portando ognuno la propria esperienza. Sulle scelte strutturali dell’impianto il consiglio non ha obiezioni. Esprime invece qualche paura per le prove del Servizio Nazionale per la Qualità della scuola : non andranno a penalizzare proprio le scuole di frontiera ? Il chiarimento che l’intenzione è contraria e che, in ogni caso, in questo tipo di prove non contano tanto i risultati assoluti bensì quelli diacronici che esprimono valore aggiunto culturale (osservare i miglioramenti che gli allievi raggiungono con il passare dei bienni, fatto anche 0 il punto di partenza) non li rassicura. Concordano sulla necessità di prove nazionali oggettive di comparazione, ma chiedono che si eviti ogni standardizzazione rigida e soprattutto influente sui finanziamenti alle scuole. Anche il percorso facoltativo delle 300 ore suscita molto interesse. Se ne ravvisa l’indubbia utilità e pure originalità. Si potrà con esse corrispondere sia ai bisogni del recupero degli allievi problematici sia a quelli dello sviluppo degli allievi eccellenti. Ma ancora una volta questa flessibilità non potrà nuocere alle scuole di frontiera ? Tutti i docenti del consiglio di classe, comunque, hanno riconosciuto che queste perplessità non dovevano essere assunte come presa di distanza da una proposta necessaria e da non lasciar cadere, ma piuttosto come una richiesta di aiuto per mettere a punto best practices di gestione dei laboratori in situazioni di scuola e di rete che sono difficili.

Molto più muscoloso è stato, almeno all’inizio, lo svolgimento del consiglio di istituto. Una genitrice e una maestra hanno inteso l’esposizione iniziale dei termini del problema in discussione come una requisitoria contro la legge 30 a fini politici. Il Gruppo di lavoro avrebbe elaborato la sua ipotesi per ragioni solo politiche, per squalificare l’operato del Governo precedente e per illustrare di conseguenza quello dell’attuale. Anche l’audizione del consiglio di istituto sarebbe stata, in questo senso, solo propagandistica, e non avrebbe affatto avuto il significato di una procedura metodologica indispensabile per saggiare ragionevolezza e praticabilità in situazione reale di soluzioni a problemi oggettivi presenti nella legge 30 e nel suo piano di fattibilità. Diverso l’atteggiamento degli altri componenti che, pur manifestando difficoltà nell’esprimere un giudizio comparativo sulle due ipotesi di riforma, hanno tuttavia molto apprezzato l'idea di articolare il percorso dai 6 ai 14 anni in bienni progressivi e con l’ultimo a carattere fortemente orientativo. Tutti del resto erano convinti che fosse meglio far scegliere ai ragazzi il tipo di percorso formativo preferito a 14 anni invece che a 13. La discussione è poi naturalmente scivolata su quanto stava prima della scuola primaria (la questione della scuola dell’infanzia e del credito che la sua frequenza avrebbe dovuto assicurare) e dopo la scuola media (l’istruzione secondaria e la formazione secondaria, con i relativi sviluppi nell’istruzione e nella formazione superiore).

La contrazione della scuola secondaria superiore a quattro anni ha suscitato numerose perplessità e anche l’ipotesi dei moduli propedeutici all’università o alla formazione superiore è parsa più un modo per riassorbire il personale della secondaria reso soprannumerario dall’eliminazione del quinto anno che un segmento formativo con la sua logica di riqualificazione della qualità complessiva del sistema.

Scuola Media Statale Francesco Gonin, Via don Pogolotto 45, Giaveno, Torino (20 ottobre 2001)

La scuola è visibilmente integrata con il territorio. Una dirigente scolastica particolarmente attiva è riuscita a costituire un nucleo di docenti motivati e innovativi e che permettono anche ricambi di personale senza che la continuità della struttura ne risenta. Progetti e Laboratori, distribuiti tra curricolo di base, opzionale e facoltativo, sono strumenti ordinari di lavoro della scuola, che da tempo ha superato l’esclusività della rigida partizione disciplinarista. Il motto della scuola è "una scuola a misura di alunno per crescere insieme sul territorio". Il percorso scolastico degli allievi è seguito con elaborazioni statistiche che danno una misura anche quantitativa dei fenomeni. Le bocciature, ad esempio, sono passate dal 5,8% del 1997/98 al 2% del 2000/01. Il dato è messo in relazione con la sperimentazione dell’autonomia che ha flessibilizzato l’offerta formativa e ne ha migliorato l’efficacia. Analogamente la scuola monitora il successo/insuccesso parziale/totale dei propri allievi nei primi anni della scuola superiore. Ha così a disposizione dati per non restare autoreferenziale e per verificare se e quanto la diminuzione delle bocciature nel triennio di scuola media trovi poi concreto riscontro nel successivo cammino dei ragazzi.

L’audizione avviene di sabato. L’opportunità di non costringere ad una seduta pomeridiana del consiglio di istituto suggerisce di farlo lavorare insieme al consiglio di classe. La discussione e la comparazione tra legge 30 e proposte di correzione si rivela, comunque, subito molto ordinata e costruttiva, basata più su elementi concreti che ideologici. Il consiglio di classe e il consiglio di istituto condividono alla fine le seguenti conclusioni :

Il modello di scuola elaborato dal Gruppo di lavoro ministeriale è per molti aspetti simile a quello già adottato dalla scuola. Vuol dire che razionalizza percorsi già in parte attivati dalle migliori esperienze didattiche militanti. È costruttiva la distribuzione degli otto anni in bienni, con il terzo in funzione di cerniera coprogettata tra primaria e media. Come è costruttiva la distinzione, nel piano degli studi, tra percorso scolastico obbligatorio, percorso scolastico facoltativo e percorso portato a valorizzare le esperienze formative dell’extrascuola. Ciò implica, però, una forte integrazione istituzionale e territoriale che non può essere data per scontata; e in ogni caso a anche un aumento della corresponsabilità educativa della scuola e della famiglia. Una sfida non facile, da vincere e che va molto sostenuta. Il rischio, infatti, è che proprio le famiglie e i ragazzi che maggiormente hanno bisogno di sollecitazioni educative siano penalizzati dal porli di fronte ad una scelta tra curricolo obbligatorio e facoltativo : potrebbero finire per optare per la scelta più facile e meno impegnativa, ma non per questo a loro più necessaria. Diversamente che nella scuola media precedente, non crea preoccupazioni la prospettiva di verifiche nazionali dell’apprendimento con ritmo biennale. La si ritiene anzi un contributo interessante al superamento delle tentazioni di autocentratura e al dovere professionale per l’autovalutazione di istituto. Il fatto di adottare procedure didattiche ed organizzative che già vanno in questa direzione spiega come essa non solo non spaventi, ma sia ben accolta.

La circostanza prova che se lo sconosciuto spaventa, il provato rende tutto meno drammatico. Inoltre, spiega anche perché tutti ritengano importante che lo Stato definisca non solo il profilo terminale dell’allievo a 14 anni, ma soprattutto il quadro, ad esso coerente, delle conoscenze e delle abilità che devono essere acquisite dagli allievi biennio per biennio. Si ritiene il provvedimento indispensabile sempre per quel lavoro di autovalutazione di istituto che è la condizione per il miglioramento della qualità della scuola.

SCUOLA MEDIA STATALE IGNAZIO FLORIO, PALERMO (15 ottobre 2001)

Partecipa il Consiglio di classe della 1a C

SCUOLA MEDIA STATALE "V. PIPITONE", VIA SARZANA 3, MARSALA (16 ottobre 2001)

Dirigente scolastico : Prof. Matteo Anastasi

Partecipa il Consiglio di classe 1a D Partecipa il Consiglio di classe del centro EDA

Partecipa il Consiglio di istituto

SCUOLA MEDIA "MAZZINI", L'AQUILA, (18 ottobre 2001)

Dirigente scolastica : Carla Gonnelli Partecipa il Consiglio di classe

Partecipa il Consiglio di istituto

SCUOLA MEDIA “ALIGHIERI” , L’AQUILA (18 ottobre 2001)

Dirigente Scolastico: Giuliano TOMASSI

Partecipa il Consiglio di classe 3^ B

Partecipa il Consiglio di classe 2^ C

Partecipa il Consiglio di classe 1^ A

Partecipa il Consiglio di classe 3^ E

Partecipa il Consiglio di istituto

ISTITUTO COMPRENSIVO LEONARDO DA VINCI, VIA DEGLI ABETI 13, TORINO (19 ottobre 2001)

Dirigente scolastica : Prof. L. Sorrentino

Partecipa il Consiglio di classe della 1a F Partecipa il Consiglio di istituto

SCUOLA MEDIA STATALE FRANCESCO GONIN, VIA DON POGOLOTTO 45, GIAVENO, TORINO (20 ottobre 2001)

Dirigente scolastica : Prof. Stefania Barsottini

Partecipa il Consiglio di classe : 2a B Partecipa il Consiglio di istituto

Licei

A cura di Silvano Tagliagambe

Complessivamente l’accoglienza riservata alle proposte presentate è stata più che buona come lo testimonia per esempio il commento seguente del Prof. Preve, del Consiglio di Istituto del Liceo scientifico Alessandro Volta di Torino: "tra le proposte che possono essere avanzate in questa fase per molti versi tormentata di vita della scuola italiana, questa è certamente la meno peggio e la più equilibrata possibile". Le critiche alle ipotesi di lavoro sono state, nel loro insieme, molto contenute.

Raccordo tra scuola secondaria e università

Il punto che ha ricevuto il maggior gradimento, e non ha incontrato obiezioni di sorta, è stato senz’altro quello relativo all’idea di stabilire un maggiore e più efficace raccordo tra la scuola secondaria e l’università attraverso i moduli di riallineamento di durata variabile. Il termine "riallineamento" non piace a tutti, più d’uno ci ha invitato a pensare a una definizione diversa, ma la sostanza della proposta (istituire un servizio che dia un contenuto effettivo alla possibilità di tutti di accedere all’università, anche dal canale della formazione superiore, e che non renda irreversibile le scelte - anche quella tra i diversi indirizzi liceali - fatte a 14 anni) è stata ben compresa ed è risultata convincente.

Formazione superiore

Altrettanto positivamente è stata accolta l’idea di istituire, parallelamente all’università, un canale della formazione superiore, di durata variabile (da uno o due semestri, fino a 6 semestri, con il conseguimento di un diploma professionale superiore equivalente, per il livello di formazione raggiunto, alla laurea triennale). E’ stata ben compreso e recepito il proposito di "decongestionare" l’università, sfoltendo il numero, da tutti giudicato insostenibile, dei corsi di laurea e di valorizzare un tipo di formazione più orientata al lavoro e al conseguimento di una specifica professionalità.

Riduzione della durata dei licei

Qualche perplessità è stata invece avanzata sulla riduzione a 4 anni dell’istruzione secondaria di II grado. Pur comprendendo le ragioni che sono alla base del superamento dell’idea di un ciclo della scuola di base di 7 anni (in particolare l’esigenza di superare gli effetti perversi dell’onda anomala) e concordando sull’opportunità di non superare i 12 anni di istruzione e/o formazione pre-universitaria (o pre-formazione superiore) la contrazione della durata dei licei viene vista da alcuni con preoccupazione. E’ accettato, e viene valutato positivamente, il proposito di sollevare il livello complessivo della scuola italiana, spingendo verso l’alto l’istruzione primaria e quella secondaria di I grado, ma non tutti sono convinti che questo sforzo, congiunto con la disponibilità dei moduli di raccordo con l’università, sia sufficiente a scongiurare il pericolo di un impoverimento della qualità dell’istruzione secondaria di II grado.

Articolazione tra l’istruzione liceale e quella professionale

Il giudizio sull’articolazione in due canali distinti del ciclo dell’istruzione/formazione secondaria è sfaccettato. In generale questa articolazione viene vista positivamente, però alcuni hanno sottolineato con forza l’esigenza che i due canali, pur distinti, come si è detto non siano separati e, soprattutto, non diano luogo a un’articolazione che sia anche gerarchica, con un’istruzione di serie A e una formazione di serie B. Per evitare questo rischio è stata sottolineata la necessità di passerelle, con il supporto di servizi di sviluppo e recupero degli apprendimenti prolungati ed efficienti, che rendano possibile, senza troppi condizionamenti, il passaggio, soprattutto nel primo biennio, dall’uno all’altro canale.

All’interno di questo quadro è stata comunque valutata positivamente la possibilità, anche per coloro che acquisiscano il diploma di formazione professionale, di accedere, previa la verifica della preparazione iniziale, prevista dall'art. 1, c. 1 del D.M. 509/99) a qualunque corso di laurea universitario. A proposito di quest’ultima normativa, che sancisce il venir meno dell’automatismo tra il conseguimento del titolo rilasciato dalla scuola secondaria superiore e l’iscrizione all’università, qualcuno (in particolare il preside del Liceo scientifico dell’Aquila), propone di sperimentare il non riconoscimento del valore legale dei diplomi rilasciati dalla scuola o dalla formazione secondaria, al fine di mettere in risalto e in primo piano la certificazione delle competenze rispetto al semplice rilascio dei titoli. Ci sono state anche proposte alternative, o comunque correttive, all’idea del doppio canale, così come è stata delineata :

Cicli biennali e verifica degli apprendimenti

La proposta di articolare la didattica in cicli biennali e di valutare la possibilità di essere tolleranti nel primo anno del biennio, permettendo il passaggio al secondo anche a chi presenta deficit e ha debiti formativi, cui deve però subentrare, al termine del secondo anno, il principio che i debiti debbono essere stati saldati, almeno in larga misura, per poter accedere al biennio successivo è stata generalmente ben accolta. Accoglienza ugualmente positiva ha avuto la proposta di ridare valore e incidenza, anche ai fini della prosecuzione, senza interruzioni e ripetizioni di singole tappe del percorso degli studi, alla valutazione del comportamento in classe e alla capacità di stabilire relazioni positive con gli altri studenti e con i docenti, dimostrando di aver raggiunto il grado di maturità nei rapporti sociali corrispondente al livello del sistema educativo al quale si è giunti.

Programmi d’insegnamento e orario settimanale

L’articolazione dell’orario in due quote, una di 25 ore settimanali, riservata all’insegnamento che è obbligatoria per le scuole erogare e per gli studenti seguire, e uno di 300 ore annuali, ripartite secondo un’articolazione anch’essa settimanale o per cicli intensivi, che è invece obbligatorio per le scuole erogare, ma facoltativo per gli studenti (pur rimanendo ovviamente fermo, anche in questo caso, il diritto-dovere delle scuole di accertare, in modo rigoroso, il conseguimento delle competenze, abilità e conoscenze stabilite anche per questi segmenti formativi) è stata anch’essa accolta positivamente. Piace, in particolare, l’idea di accoppiare a una gestione "autonoma" di gran parte dell’offerta formativa da parte dei singoli istituti, un’organizzazione a rete dei "laboratori" (o come si deciderà di chiamarli, considerato che il termine evoca esperienze di diverso genere e da molti non è ritenuto il più idoneo a esprimere la novità della proposta) con l’introduzione; da un lato, del principio di concorrenzialità, all’interno di uno stesso territorio, tra istituti che decidano di fornire lo stesso tipo di servizio, e dall’altro di quello della cooperazione tra scuole che decidano invece di distribuirsi, in modo concordato, tra loro i laboratori da attivare.

A questo proposito è stata comunque formulato l’invito a presentare la proposta in modo tale da evitare, anche in questo caso, qualsiasi rischio di gerarchia e di attribuzione di un diverso grado di importanza agli insegnamenti che rientrano all’interno del pacchetto obbligatorio delle 25 ore settimanali rispetto ai contenuti che fanno invece parte delle 300 ore annuali, riservate ai laboratori. Qualche preoccupazione è stata avanzata per la stabilità dei docenti chiamati a occuparsi dell’insegnamento dei contenuti che rientrano all’interno di questo secondo pacchetto: il gruppo di lavoro è stato invitato ad adoperarsi per evitare qualsiasi penalizzazione di questi docenti.

Vorrei concludere con una citazione del preside e di alcuni componenti del Consiglio di classe del Liceo di Salice d’Ulzio : "bisogna operare in direzione del riconoscimento di una sempre maggiore parità tra scuole statali e scuole non statali, da intendersi nel senso di una sempre maggiore liberazione delle prime dai vincoli e dai lacci e laccioli che attualmente ne frenano la libertà d’iniziativa. L’autonomia scolastica va intesa nel senso del riconoscimento alle scuole statali delle medesime possibilità e opportunità di cui possono fruire le scuole non statali". E’ in questa direzione che si situa tra l’altro il pacchetto di ipotesi presentato alle scuole.

LICEO SCIENTIFICO STATALE "S. CANNIZZARO", PALERMO (15 ottobre 2001)

Preside : Aldo Zanca

Partecipa il Consiglio di classe III o V sez. G:

Partecipa il Consiglio di istituto

LICEO CLASSICO SPERIMENTALE STATALE "GIOVANNI XXIII", MARSALA (16 ottobre 2001)

Partecipa il Consiglio di classe III sez. C

Dirigente scolastico : Gasparo Salvo

Partecipa il Consiglio di istituto

Liceo Scientifico "A. Bafile", L’Aquila (18 ottobre 2001)

Preside : Natale De Angelo,

Partecipa il Consiglio di classe

Partecipa il Consiglio di istituto:

Liceo Scientifico "Alessandro Volta", Torino (19 ottobre 2001)

Dirigente scolastico : Antonio D'Urso

Partecipa il Consiglio di classe IV D

Partecipa il Consiglio di istituto

Liceo classico e Istituto superiore "des ambrois" oulx (20 Ottobre 2001)

Dirigente scolastico : Pietro Ainardi

Partecipa il Consiglio di classe

Partecipa il Consiglio di istituto

Istruzione Tecnica e Professionale

A cura di Norberto Bottani

Nonostante l’impegno dello Stato e delle regioni per promuovere l’istruzione secondaria superiore, la percentuale dei diplomati alle fine della scuola secondaria superiore, ovverosia la proporzione dei titolari di un diploma riguardo alla popolazione totale della fascia d’età corrispondente all'età teorica di conseguimento del diploma, era in Italia nel 1999, pari al 73% ed era dunque ancora una delle più basse tra quelle dei paesi dell’UE. Le statistiche dell’OCSE specificano inoltre che il 28% degli studenti diplomati proviene dall’indirizzo d’istruzione generale (i licei), mentre il 65% si è diplomato nelle filiere d’indirizzo professionalizzante (gli istituti tecnici e professionali). La proporzione dei giovani che conseguono la qualifica dopo un percorso triennale è pari al 22%, poco più di un quinto di una coorte. Questi dati sono sufficienti per capire il posto e l’importanza del comparto istruzione tecnica e professionale nel sistema scolastico italiano e per reperirne anche le debolezze principali. Per questa ragione, l’incontro con gli istituti professionali non poteva non essere una componente fondamentale nella verifica delle ipotesi di lavoro messe a punto dal gruppo d’esperti.

In questa sezione si rende conto dei pareri raccolti negli incontri organizzati con consigli di classe e consigli d’istituto di cinque istituti professionali che si sono prestati a discutere le grandi linee della riforma e ad esprimere con franchezza e onestà la loro percezione dello stato della scuola italiana, senza mai nascondere le perplessità provate di fronte a certe prospettive od ipotesi né senza nemmeno mascherare le difficoltà incontrate quotidianamente nell’insegnamento.

I cinque istituti considerati in questa relazione sono i seguenti :

In tutte le scuole gli incontri sono stati franchi e diretti, e si sono svolti mettendo al bando inutili formalismi, in un clima caratterizzato da intensa partecipazione ed alto interesse. Il resoconto è articolato attorno a sette temi che mi sembra possono catalizzare l'insieme dei vari interventi Questi punti potrebbero a prima vista lasciar credere che ci si sia allontanati dalle ipotesi di lavoro, ma in realtà è il contrario che succede perché con essi si riesce a collocare gli interventi e le ipotesi in un quadro più politico che pedagogico, secondo un approccio per me più familiare, vista la mia estraneità al mondo scolastico italiano.

  1. Monopolio dell’approccio scolastico nel settore dell’istruzione professionale Il tema centrale affrontato nel corso delle sedute con i consigli di classe ed i consigli d’istituto è stato il modello "scuolacentrico" imperante nel settore dell’istruzione e della formazione professionale. L'orientamento che prevale in Italia è quello di una stretta integrazione tra istruzione generale e istruzione professionale che si consegue con una forte diluizione delle specificità professionalizzanti in molti indirizzi di studio. Questa situazione è stata sovente denunciata, ancorché nei Focus che hanno preceduto le visite nelle scuole sono stati più volte espressi pareri preoccupati sull'ipotesi di meglio distinguere istruzione generale e professionale. C’è reticenza e paura, esitazione e ostilità nei confronti di un orientamento come questo che propone un'impostazione della formazione secondaria di secondo ciclo diversa da quella fin qui in auge. Il timore di sacrificare la formazione umanistica e polivalente innestata su un tronco saldo di cultura generale lo si incontra però anche alla base. L’adesione al valore di una cultura scolastica che sovrasta la preparazione professionale e che fornisca agli studenti gli strumenti critici indispensabili non solo per capire il mondo in cui si cresce ma soprattutto per non essere mutilati e umiliati dalle esigenze utilitaristiche della produzione e della ricerca del profitto sono condivisi nelle sale dei docenti. Quale sia l’ampiezza di questo consenso è difficile dirlo, ma è d’uopo segnalare che esso si esprime in tutti gli istituti in modo più o meno esplicito ed aggressivo.

    La conoscenza e l'esperienza del mondo del lavoro, i problemi dell’occupazione e della transizione dalla scuola alla vita attiva, l’inserimento in ambiti professionali molto diversi da quelli virtuali ricostruiti nelle sedi scolastiche, sono temi ritenuti secondari rispetto a quelli riguardanti gli indirizzi curricolari e le impostazioni istituzionali. Il divario tra istruzione professionale e pratica quotidiana di una professione, il distacco tra formazione teorica e preparazione reale, la pochezza delle esperienze professionali nel corso dei trienni o dei bienni d’istruzione professionale sono raramente citati. Solo se richiesti, i docenti od i presidi si esprimono su questi temi, mentre invece interventi e commenti sono spontanei e ben documentati quando si tratta di curricoli, di obiettivi educativi, d’articolazione con altri tipi di scuole, o della collocazione istituzionale della formazione professionale. Il consiglio d’istituto dell’"Enzo Ferrari" di Susa è stata una delle rari sedi in cui si è esplicitamente denunciato lo scollamento tra scuola e mondo del lavoro. Nella scuola italiana, rispetto ad altri sistemi scolastici come quello francese, che i docenti di Susa conoscono assai bene, vige una netta separazione tra mondo dell’istruzione e quello aziendale. Solo una minoranza percepisce questa situazione come anomala. Per i più, è del tutto naturale che scuola e mondo del lavoro viaggino per conto proprio, su binari diversi e divergenti. Si capisce dunque che la proposta di meglio distinguere l'istruzione liceale da quella tecnica appare incongrua e contestabile.

  2. L'ineludibile riforma dell’istruzione professionale Già in occasione della perizia svolta dall’OCSE sul pacchetto di riforme proposto dall’on. Luigi Berlinguer nel 1997, si era stato fatto notare che la riforma del settore dell’istruzione secondaria di secondo ciclo o delle scuole superiori rappresentava una sfida maggiore da affrontare se si voleva aggiornare il sistema scolastico italiano. L’esclusione della formazione professionale iniziale dal sistema scolastico è un caso a sé stante, pressoché incomprensibile per un estraneo al contesto italiano, tanto più che i centri di formazione professionale sono pure, a loro volta, impostati in maniera molto scolastica. In generale, ho constatato la presenza di una forte convergenza di pareri sulla necessità di rivedere l'impianto della scuola secondaria di secondo grado per rendere più chiara la specificità dell'istruzione professionalizzante, mentre invece ci sono resistenze considerevoli ad ampliare gli orizzonti per includere, almeno ad un livello teorico, lo spazio occupato dai centri professionali.Questo consenso non deve però illudere. Infatti, quando si entra nei dettagli le divergenze d'opinione si manifestano in modo lampante. Impera, in primo luogo, un pronunciato scettisismo sulla fattibilità del cambiamento che si caldeggia sul piano teorico, ma si contesta a livello pratico. Questi dubbi e queste reticenze sono imputabili a molteplici fattori : il fascino della scolarizzazione, l’attrazione del diploma di stato e degli studi universitari, il prestigio di una scuola che rilascia diplomi, i deboli tassi d'occupazione per i diplomati, la rassegnazione di fronte agli errori d’orientamento, le preclusioni nei confronti dei centri professionali a gestione regionale, ecc. Il mondo degli istituti professionali a gestione statale è in grande maggioranza favorevole ad un potenziamento dell’offerta formativa, ci mancherebbe altro, ma resta profondamente ancorato ai modelli scolastici in auge ed è senza defezioni fedele all’ordinamento statale. Nel consiglio di classe del secondo anno di odontotecnica all’I.P.S.I.A. dell’Aquila, la proposta di differenziare più nettamente l’indirizzo generale da quello professionalizzante è contestata come retrograda : "Sarebbe come fare un passo indietro di 50 anni" si afferma. Collego questo commento alla complessità di questa scuola, dove cova una crisi di identità dovuta alla metamorfosi di un istituto un tempo prevalentemente tecnico e maschile e che ora sta diventando scuola del settore terziario con una crescente popolazione femminile. La scuola continua ad avere un indirizzo elettrico-elettronico ma in zona non ci sono più aziende di questo tipo. Prepara cioè studenti per uno sbocco professionale che non c'è più. Questo è un bel esempio di divario tra offerta scolastica e domanda di posti di lavoro che è tipico nei modelli di formazione di stampo prevalentemente scolastico, dove è lecito non preoccuparsi della domanda espressa dal territorio. E molto più difficile invece finire in una impasse del genere con un modello di istruzione professionale imperniato sul tirocinio e le formazione in alternanza. Questa situazione concorre senz'altro a spiegare lo scarso gradimento espresso in questo consiglio di classe per la proposta di articolare diversamente istruzione generale e professionale. In questa scuola, il mantenimento di un solido tronco comune iniziale fra indirizzi molti diversi tra loro, la presenza di un biennio con una valenza orientativa, in grado d’offrire una base culturale che permetta poi di scegliere tra impostazioni professionalizzanti diverse, è vitale. Anche nel consiglio d’istituto, dove siedono i rappresentanti di tutti gli indirizzi della scuola, ritrovo logicamente le stesse reticenze : "La scuola non è preparazione al lavoro, ma della persona"; "le scuole specializzate professionalmente sono pericolose"; "le qualità tecniche e intellettuali non possono essere disgiunte"; "la dissociazione tra istruzione e formazione è aberrante".

    Capisco le ragioni di queste osservazioni, la pertinenza di queste preoccupazioni, ma nel contempo penso agli studenti che frequentano questa scuola e che non trovano un posto di lavoro nel campo professionale che hanno studiato durante cinque anni. Vorrei anzi dire nel mestiere che hanno imparato, ma non mi sento di essere così perentorio.

  3. Massiccia opposizione alla legislazione esclusiva delle regioni in materia d’istruzione e formazione professionale In tutte le scuole, l’opposizione al trasferimento alle regioni dell’istruzione professionale è massiccia e totale. Nessun consiglio di classe e nessun consiglio d’istituto si è pronunciato a favore di un trapasso in corpore dell’istruzione professionale verso le regioni e tutti chiedono che sia segnalata in modo esplicito questa opposizione al trasferimento alle regioni delle competenze in materia di istruzione tecnica e professionale. La legislazione in questo campo deve essere esclusivamente dello stato, così almeno auspicano tutti gli interlocutori, che temono di perdere risorse ed autonomia se la legislazione dovesse diventare esclusivamente regionale. Da un decennio a questa parte l’istruzione professionale e tecnica ha beneficiato in Italia di molti mezzi, non ultimi quelli del Fondo sociale europeo : per esempio, l’istituto "Ascenzio" di Palermo ha potuto creare una rete Intranet che consente l'organizzazione di videoconferenze. Ancora l’"Ascenzio" o il "Giulio" a Torino, hanno ampiamente sfruttato le opportunità del progetto 1992 e del progetto 2002 che permettono di ampliare gli organici d’istituti, di modificare la dotazione oraria e di innovare dal punto di vista pedagogico. Gli istituti temono che il trapasso alle regioni imbavagli la loro autonomia, riduca i margini d’innovazione e soprattutto le risorse umane e finanziarie di cui hanno potuto fruire restando nell’alveo statale.

  4. Rimozione della formazione professionale regionale Nel corso degli incontri non si è mai accennato all’articolazione con i CFP e con la formazione professionale regionale. La costituzione di un settore della formazione professionale d’ampio respiro dovrebbe includere di per sé tutti i tipi di formazione che dovrebbero a loro volta essere articolati tra loro in un insieme coerente. Siffatta proposta non è esclusiva ma inclusiva della formazione professionale proposta dagli enti regionali. L’uso del sintagma "formazione professionale" per designare quello che impropriamente si chiama il canale della formazione professionale di per sé avrebbe dovuto lasciare supporre che sotto questa denominazione avrebbe dovuto essere collocato l’insieme dei tipi di formazione professionale esistenti in Italia. Il fatto che l’istruzione tecnica e professionale sia essenzialmente di tipo scolastico e sia innestata sulla scuola statala non è infatti un argomento sufficiente per escludere i CFP o qualsiasi altra prestazione delle regioni in questo campo dall’assetto del sistema scolastico e di formazione. Anche se per ora non appartiene al sistema scolastico vero e proprio, la formazione professionale iniziale gestita dalle regioni è una formazione professionale a pieno titolo. Orbene, questa per noi evidente considerazione non lo è affatto negli istituti professionali e tecnici dove invece si continua ad operare una netta distinzione tra istruzione tecnica e professionale da un lato e formazione professionale dall’altro. In tutti gli istituti si percepisce un certo disorientamento di fronte all’uso di un concetto come quello di formazione secondaria per qualificare l’insieme del settore dell’istruzione con finalità professionalizzanti. Questo disagio è stato esplicitato in modo netto dal preside dell’I.T.I.S. "Enzo Ferrari" di Susa per il quale la formazione professionale è quanto fa la Regione Piemonte ma non la sua scuola oppure altre scuole simili alla sua. Nel consiglio d’Istituto dell’I.P.S.I.A. "Ascione" di Palermo si associa la formazione professionale all’addestramento professionale e si ribadisce con forza che l’istruzione professionale non è addestramento professionale. Questo lo fanno le aziende ed i sindacati, mentre l’istruzione professionale è di pertinenza della scuola. Alla fine di questo giro d’orizzonte ho la netta sensazione di essermi imbattuto in un grande equivoco fin qui mai dipanato e di essere stato vittima di un giuoco di parole imbarazzante sulla portata della formazione professionale. Tutti sono d'accordo sul principio del potenziamento della formazione professionale, ma a condizione che questa sia l’istruzione professionale e tecnica, quella impartita nelle scuole statali, e non quella delle regioni, e ancor meno l’addestramento professionale proposto dalle aziende.

    La formazione professionale regionale è stata dunque la grande assente dalle discussioni. Se nello schema di riordino del sistema si intende designare con il termine di formazione professionale l’insieme delle prestazioni dello stato nel settore professionale, allora bisogna ricuperare il significato profondo di questo sintagma. Questa operazione implica una riappropriazione del concetto, il cui senso è stato travisato quando è stato usato per identificare l'organizzazione dell'istruzione professionale a livello regionale. Orbene, questo ricupero non è possibile che rivalutando quanto le regioni ed i CFP producono e svolgono. Si può parlare di formazione professionale nell’assetto ordinamentale solo se si annulla il significato attribuito alla formazione professionale nel linguaggio burocraticoamministrativo in vigore. Per ora, questa operazione è talmente difficoltosa da indurre a rimuovere la formazione professionale regionale, ad ignorarne l'esistenza, a negarne qualsiasi consistenza. In un certo senso, ci si ritrova rinchiusi in un circolo vizioso : se si equipara la formazione professionale con l’istruzione impartita in quel tipo particolare di scuole professionali statali che sono gli istituti tecnici o gli istituti professionali, le prestazioni delle regioni in questo campo si riducono ad essere mero addestramento; se invece la formazione professionale designa quanto fanno le regioni in modo autonomo, allora le prestazioni degli istituti statali non sono più formazione professionale.

    Ci sembra sia giunto il momento di spezzare questo doppio legame per ridare alla formazione professionale il suo significato più ampio e più pieno.

  5. La formazione in alternanza : accoglienza favorevole, ma molte perplessità sulla praticabilità In tutti gli incontri si è sondato il parere degli interlocutori sulla proposta di realizzare la formazione secondaria iniziale in un contesto misto e non più solo in un ambiente scolastico, forma che prevale attualmente in Italia. La formazione professionale iniziale di tipo misto comprende una formazione pratica in azienda (spesso preceduta da corsi d’introduzione al lavoro) e una formazione teorica in scuola, obbligatoria per quel che concerne i corsi di cultura generale e quelli di conoscenze professionali, e facoltativa e/o di ricupero per tutta un'altra serie di corsi complementari o di approfondimento. In questo modello i posti di formazione non sono più definiti dallo stato, come è il caso nel modello scolastico, ma dai posti di tirocinio offerti dalle aziende la cui quantità varia a seconda della congiuntura o dell'evoluzione del mercato del lavoro. Infatti, è possibile iscriversi in una scuola di formazione solo dopo avere trovato un posto di tirocinio. L’impostazione di questo modello si basa sul contratto di tirocinio che è una forma particolare del contratto di lavoro individuale. Questo contratto regola il tipo e la durata della formazione professionale come pure il tempo di prova, il tempo di lavoro, il salario e le vacanze.

    In genere, un programma di formazione che offre una combinazione di formazione a base scolastica con una formazione sul posto di lavoro è ritenuto, alla prova dei risultati di numerose indagini internazionali, più efficace dal punto di vista dello sviluppo delle abilità professionali, delle competenze pratiche, della motivazione degli studenti, dell’apertura verso la cultura pratica e scientifica, e dell’inserimento professionale nel mercato del lavoro. Certi paesi, come appunto l’Italia, la Francia od il Giappone, hanno privilegiato i percorsi formativi di tipo prettamente scolastico, mentre altri, come la Germania, l’Austria, la Svizzera e la Danimarca hanno dato più importanza alla formazione in alternanza tra scuola e lavoro sul modello del tirocinio.

    Nel corso delle discussioni non si è entrati nei dettagli dell’organizzazione di un settore formativo di tipo nuovo imperniato sul tirocinio professionale in azienda, ma si è parlato esclusivamente dell’opportunità di costituire e sviluppare in Italia una formazione strutturata di tipo nuovo comprendente sia un’istruzione generale e teorica che un’esperienza lavorativa, organizzata secondo un programma prestabilito, all’interno di un’azienda. Il gruppo d’esperti ha potuto constatare de visu nel corso della visita effettuata a Lugano nel Cantone Ticino, il cantone italianofono della Confederazione Elvetica, che un simile modello di formazione professionale funziona su vasta scala con risultati qualitativi apprezzabili. Nel Cantone Ticino, che è una regione di circa 350.000 abitanti, nel corso dell’anno 2000, il numero di contratti di tirocinio stipulati tra giovani apprendisti e aziende è stato di 21703, mentre in tutta la regione del Piemonte, nel corso dell’anno scolastico 2000/2001, nel settore dell’obbligo formativo nelle scuole statali si contavano solo 258 apprendisti. Gli scambi d’opinione su questo punto sono stati condizionati dalla scarsa conoscenza delle modalità di funzionamento di una formazione in alternanza che sollecita le imprese ad assumere una responsabilità formativa. Tra gli interlocutori c’è perplessità e scetticismo sulla possibilità di gemellare la scuola ed il mondo del lavoro. Molti concordano che i contatti con il mondo del lavoro sono carenti e la maggioranza ritiene che la formazione culturale impartita dalle scuole è buona. Basterebbe dunque poco per migliorare il modello, forse solo qualche ritocco. All’ I.P.S.I.A. "Ascenzio" di Palermo come pure all’I.T.I. "Cosentino" di Marsala si è manifestata una grande perplessità riguardo alle possibilità d’incentivazione di forme d’alternanza tra scuola e lavoro perché il mondo del lavoro è "un abbonato assente", che non risponde alle sollecitazioni della scuola.

    Quando non si riesce neppure a trovare le sedi per stages di 120 ore che dovrebbero permettere ai futuri diplomati di farsi almeno una pallida idea di cosa sia la pratica professionale e il mondo del lavoro, oppure quando il 90 per cento o più dei diplomati non trova lavoro nelle aziende della zona, si brancola nel buio e non si capisce cosa possa essere il dialogo e la collaborazione con le imprese nel campo della formazione professionale iniziale. Questa è un’incognita, come lo affermano i membri del consiglio d’istituto dell’"Ascenzio". Al Sud poi si solleva la questione meridionale : se il rapporto scuolaimpresa è organico nel Nord, non lo è invece nel Sud, dove per altro vige una situazione economica asfittica che rende di per sé difficile qualsiasi integrazione. In modo sconsolato all’"Ascenzio" si ritiene dunque che l'ipotesi della formazione in alternanza è un "sogno irrealizzabile". Il potenziamento delle strutture aziendali per la formazione è un obiettivo fantomatico che deve pertanto essere abbandonato per dedicare le poche risorse disponibili al consolidamento dell’impianto scolastico, alla modernizzazione dei laboratori, all'aggiornamento dei docenti. Fondamentalmente si ritiene che sia errato potenziare l'addestramento professionale proposto dalle aziende. Il messaggio trasmesso dalle scuole del Sud è chiaro : la priorità va data al miglioramento della scuola statale. Le scuole statali esigono più investimenti e più risorse per tenere il passo con i tempi, per cui si è contrari per principio a qualsiasi dirottamento di fondi per sviluppare o potenziare il settore privato. All’"Ascenzio" di Palermo si avverte che occorre evitare di rifare gli errori commessi con la riforma delle cure psichiatriche, quando si sono smantellate le case di cure prima di avere previsto le strutture complementari necessarie per accogliere e seguire i pazienti messi in strada. Nel consiglio di classe della 1a B dell’"Ascenzio", dove tra l’altro si sperimenta il progetto 2002, una voce si eleva contro le tendenze che indeboliscono la scuola e che ne minano la funzione educativa. Senza dirlo in modo esplicito, si lascia intendere che la formazione in alternanza sarebbe una concessione alle spinte utilitaristiche dominanti nella cultura odierna, un cedimento rispetto al consumismo scolastico che induce a ricercare una maggiore e più facile spendibilità sul mercato dei diplomi e dei titoli di studio, ed a subire la pressione delle famiglie e dei giovani che vogliono subito e presto quel che invece non si può ottenere che con un impegno paziente e perseverante. Anche al "Cosentino" di Marsala si rileva che la formazione professionale è una cosa e l’istruzione tecnica e scolastica un’altra. La prima è in mano ai privati ed è ben diversa dalle scuole professionalizzanti. Si riconosce però anche che l’esperienza professionale negli istituti è insufficiente. Le risorse vanno in ogni modo prioritariamente investite nelle scuole e non in un fantomatico tirocinio che avvantaggerebbe il settore privato. I docenti del consiglio di classe del secondo anno di odontotecnica dell’I.P.S.I.A. dell’Aquila ritengono non solo utopico ma impossibile la realizzazione in Italia di un sistema di formazione in alternanza che combini tirocinio in azienda e periodi d’istruzione scolastica. "Le aziende sono scomparse", si afferma, "sia fisicamente che socialmente", almeno nella zona dell'Aquila. Dicendo questo si allude soprattutto al fatto che le aziende hanno poco interesse per la formazione. Nel consiglio d’istituto della stessa scuola la possibilità di reintegrare l’apprendistato nell’obbligo scolastico evoca il ricordo dell’avviamento professionale e si paventa pertanto il ripristino del ghetto dell’avviamento. Le difficoltà scolastiche di molti studenti che hanno perso qualsiasi motivazione per l’istruzione, non solo, ma che hanno neppure assimilato i rudimenti della lettura e della scrittura in otto e magari più anni di scuola, passano in secondo piano di fronte ai dogmi pedagogici. La presenza di una proporzione considerevole di studenti che alla fine della scuola media non riescono né a leggere correttamente un testo, né a comprenderne il senso, né a ritrovare un’informazione in una pagina, sembrerebbe irrilevante. Eppure, come vedremo tra poco, questa realtà è sotto gli occhi di tutti ma la sua drammaticità non è tale da indurre ad un ripensamento radicale e ad una revisione critica del modello formativo dell'istruzione tecnica e professionale. Per ovviare a questo particolare problema che non è però affatto secondario del punto di vista dell'equità, nel Cantone Ticino si è impostato invece un modello di formazione specifica detta formazione empirica, adatta ai giovani che sono dotati soprattutto praticamente ma che non sono in grado di seguire un’istruzione tecnica o professionale esigente. Per i giovani deboli dal profilo scolastico questa formazione empirica rappresenta una valida forma di ricupero e di valorizzazione dell’immagine di sé. Siamo ben lungi dal ghetto professionalizzante ed umiliante nel quale si rinchiuderebbero questi giovani, ma bisognerebbe vedere all’opera queste scuole per capire che la realtà del terreno è molto più complessa e ricca di stimoli di quanto non se lo immaginano molti docenti che operano dentro gli istituti scolastici.

    Al "Giulio" di Torino, consiglio di classe della 4a, l’articolazione tra stato e regioni nell’ambito della formazione professionale è un esito ipotizzabile e fattibile, sempreché si attuino le passerelle entro i vari tipi di formazione, regionali o statali che siano. Si ammette che i compartimenti stagni non sono giustificabili e che sono nefasti per gli studenti, ma per passare dalla teoria alla pratica ci vogliono risorse, strutture di accompagnamento, persone convinte della fattibilità del progetto. L’osmosi tra vari tipi di formazione e tra l’istruzione liceale e quella professionalizzante non va da sé, non si regola spontaneamente. La formazione in alternanza, con la possibilità di svolgere lunghi tirocini professionali nelle aziende, è invece vivacemente contestata nel consiglio d’istituto del "Giulio", dove si riformulano le obiezioni sollevate all’Aquila : l’alternanza scuola/lavoro sarebbe una modalità di formazione al servizio della produttività, che sacrifica lo sviluppo armonioso della persona sull’altare del rendimento immediato. Si tratta dunque di un calcolo a corta scadenza, di una speculazione sulla pelle dei giovani. "E’ un danno mirare alla produttività" afferma un membro del consiglio d’istituto. "Si tratta di creare cultura non per lavorare". Risuonano in questi interventi i temi di memorabili lotte del passato che hanno contrapposto il lavoro alienante all’ozio liberatorio della cultura emancipatrice. Mi sembra sia difficile incontrare altrove, fuori d’Italia, ritornelli del genere. E’ come il festival di San Remo, mi viene da pensare in modo, lo confesso, alquanto irriverente, che è una manifestazione canora conosciutissima in Italia ma del tutto ignorata all'estero, proprio come lo sono gli argomenti fatti valere un po' ovunque per difendere la scolarizzazione ad oltranza della formazione. Tra i membri del consiglio del "Giulio" c’è però anche chi dissente da queste posizioni e che ricorda ai presenti la mancanza di operai qualificati, la pochezza delle esperienze professionali dei diplomati, che sono preparati più per l’università che non per l’entrata nel mondo del lavoro.

    Il gruppo d’esperti ha avuto modo di visitare nel limitrofo Cantone Ticino il centro di formazione professionale di Gordola, nei pressi di Locarno, gestito dalla società svizzera impresari costruttori, sezione Ticino. In primo luogo, abbiamo potuto constatare che gli impresari costruttori sono tutt'altro che sordi sui temi della formazione iniziale, del perfezionamento e dell’aggiornamento professionale. Questo centro è infatti co-gestito da 12 associazioni professionali che cooperano nell’organizzazione dei corsi d’introduzione, nella formazione pratica dei tirocinanti e nella messa a punto dei programmi d'aggiornamento professionale. In questo caso, l’osmosi tra settore pubblico ed iniziativa privata ha permesso di costruire, e sviluppare un luogo di formazione di grande qualità, nel quale si svolge in primo luogo la formazione di base dei tirocinanti in 27 professioni edili diverse, tutte raggruppate in un unico sedime. Il centro offre non solo la formazione iniziale ma anche una formazione specialistica nel settore dei mestieri dell’edilizia che è sancita da esami riconosciuti in virtù della legge sulla formazione professionale. Attraverso un trafila prettamente professionale si può conseguire un titolo come quello di impresario costruttore la cui spendibilità sul mercato del lavoro è equivalente a una laurea o a un diploma di una scuola universitaria professionale o di un istituto professionale superiore.

  6. La formazione professionale superiore L’altra novità della nostra proposta di riassetto sistemico della struttura scolastica riguarda la creazione della formazione superiore, cioè di scuole e corsi professionalizzanti ad alto livello, specialistici, distinti dai corsi universitari ma di pari grado e valore. L’assenza di questo settore è una delle lacune più gravi dell’attuale impianto scolastico italiano, denunciata più volte anche a livello internazionale. Non si può dire che i messaggi ed i segnali d’allarme per una situazione insostenibile dal punto di vista della formazione siano stati fin qui recepiti dalle autorità italiane. A questo riguardo, vale la pena riprendere in mano la relazione del gruppo internazionale di esperti che ha esaminato nel 1997 la politica scolastica italiana su richiesta dell’allora ministro dell’istruzione Luigi Berlinguer. Nel capitolo sull’istruzione e formazione terziaria si afferma : "il punto debole del sistema italiano è chiaramente l’assenza quasi totale di formazione tecnica a livello terziario. Il problema principale è quello di trovare la migliore soluzione per rispondere ai bisogni tecnologici del paese… in particolare la necessità di formare professionisti in grado di rispondere ai bisogni su scala nazionale e mondiale delle imprese internazionali"5. Più oltre, si afferma : "Uno dei problemi di maggiore rilievo che il governo italiano deve affrontare è quello delle modalità di organizzazione e di strutturazione del settore terziario non universitario… Noi vorremmo raccomandare che l’Italia istituisca un sistema d’istruzione tecnica non universitaria simile a quello che già esiste in molti altri paesi dell’OCSE, segnatamente in Europa, e che rappresenta "una reale alternativa alle Università".

    Il ministro Berlinguer aveva tentato di risolvere questo problema con la creazione degli IFTS, ma, a detta degli interlocutori incontrati nelle scuole, il modello degli IFTS non corrisponde alle aspettative. Forse è anche prematuro formulare un giudizio dopo pochissimi anni di attuazione, ma si ha la sensazione che gli IFTS non siano proprio il tipo di risposta convincente per preparare i super-periti od i quadri tecnici richiesti dal mercato. Negli istituti ho incontrato un generale consenso sulla proposta di creare un settore di formazione superiore autonomo ed indipendente dalle università. La confluenza nell’alveo universitario di tutti i tipi di formazione ha generato una serie di disagi a tutti i livelli del sistema scolastico. Nei Focus si è poi potuto constatare che anche il settore professionale si lamenta dell’espansionismo universitario nel campo della formazione professionale altamente specializzata. Occorre dunque cambiare rotta ed avere il coraggio di creare scuole di tipo nuovo, con prove di accesso e curricoli chiaramente definiti, che rilasciano diplomi professionali superiori. Solo al "Cosentino" di Marsala si è manifestata una grande perplessità di fronte a questa proposta, ma più per ragioni politiche che educative. Se la realizzazione della formazione professionale superiore dovesse essere affibbiata alle regioni, si è detto, in Sicilia il fallimento sarebbe assicurato. La prospettiva della regionalizzazione incute invece meno timori al preside dell’I.P.I.A. dell’Aquila che sottolinea i rischi di un sistema nazionale. Il collegamento con il territorio è indispensabile nel settore della formazione dove si deve tenere conto delle peculiarità economiche e culturali di ogni regione. Probabilmente, le vicende della sua scuola, costretta ad adattarsi ad un contesto economico in piena mutazione, hanno avuto un'incidenza sulle opinioni di questo preside.

    Nel consiglio di classe della Va indirizzo elettrico dell’I.P.I.A. dell’Aquila, si vede invece di buon occhio la proposta di creare istituti di formazione superiore che offrano ai diplomati uno sbocco alternativo e più professionalizzante che non quello universitario. Le perplessità riguardano piuttosto l’anno di transizione, le sue modalità di attualizzazione. La riduzione di un anno dell’istruzione professionale, da cinque come finora a quattro, non solleva resistenze particolari. Commenti ironici a questo proposito sono stati formulati soltanto nel consiglio d’istituto del "Giulio" a Torino, ma in genere, la prospettiva di una riduzione di un anno della formazione non ha provocato opposizioni pregiudiziali. Si pongono molte domande sull’anno di transizione e di preparazione alle prove d’accesso ai corsi universitari od alla formazione professionale superiore. Sulla necessità di queste prove tutti sono d’accordo. Si ritiene pure che i moduli di preparazione non dovrebbero essere obbligatori, tranne nel caso della transiziona dai licei alla formazione superiore, perché in questo caso si tratta di ricuperare la formazione tecnica, professionale e manuale che manca ai liceali. Nella Va dell'indirizzo elettrico dell’Aquila la preoccupazione principale suscitata dalla 5 OCSE : Esami delle politiche nazionali dell’istruzione. Italia. Armando Editore, 1998 decurtazione degli studi tecnici concerne il rischio di perdita di posti di lavoro per i docenti, la cogestione dei corsi propedeutici con le università e le scuole superiori, l’ubicazione dei corsi e la loro natura.

    Alcuni membri del Consiglio d’istituto del "Giulio" di Torino contestano la pertinenza della proposta di portare a quattro anni la durata dell’istruzione tecnica e professionale di base e di ridurre quindi di un anno, rispetto alla soluzione in vigore, la durata dell’istruzione secondaria di secondo grado. Il cambiamento proposto è recepito come un "escamotage" poco convincente, che mira ad imporre un modello di scuola utilitaristico, subordinato agli interessi del mondo economico. La necessità di procedere ad un allineamento ai modelli in auge in Europa è ritenuta un argomento pretestuoso. Qua e là c'è insofferenza per questi paragoni : bisognerebbe smetterla di tirare in ballo l’Europa ad ogni piè sospinto, si afferma, per legittimare soluzioni poco convincenti od opportunistiche. La riduzione di un anno indebolirebbe la preparazione proprio mentre si dovrebbe fare il contrario. Come conciliare la pretesa di tirare verso l'alto la formazione, quando poi la si decurta di un anno ? Questa soluzione sarebbe un controsenso, che si corregge inventando un anno fasullo di transizione, la cui sola giustificazione sarebbe quella di evitare licenziamenti in massa di docenti in esubero. I maggiori consensi per la creazione di un settore terziario altamente professionalizzante, distinto da quello universitario, sono espressi nel consiglio d’istituto dell’"Enzo Ferrari" a Susa. In questa sede, giovani laureati o assistenti al Politecnico di Torino spiegano, anche in base alla loro esperienza professionale, che uno sbocco del genere è indispensabile se si desidera formare un’élite operaia, altamente qualificata e competitiva. Le università non hanno questa vocazione e nemmeno le attrezzature adeguate per accogliere i diplomati e fare loro compiere un percorso di specializzazione con corsi teorici avanzati, intercalati con un’esperienza effettiva nella ricerca applicata. D’altra parte gli IFTS, finanziati dalle regioni, non sono la soluzione che ci vorrebbe : offrono corsi brevi che nessuno sa esattamente in cosa consistano e la cui spendibilità sul mercato del lavoro è più che dubbia. Gli IFTS "hanno procedure allucinanti e non si sa cosa rilasciano".

Nel consiglio di classe della Va del liceo scientifico-tecnologico del "Ferrari", raccolgo voci però diverse da quelle sentite nel consiglio d’istituto. Qui siedono docenti che devono preparare all’esame di stato e che sono direttamente confrontati con il problema della transizione dalla scuola al lavoro o con quello del passaggio dal liceo all’università. I docenti non hanno che scarse e imprecise informazioni sulle scelte dei loro studenti dopo il conseguimento del diploma : taluni si iscrivono in giurisprudenza, altri in psicologia, o al politecnico. Di più non si sa. I docenti sono tra l’incudine ed il martello : devono impartire una formazione che apra le porte agli studi universitari ma nel contempo insegnano in un istituto a vocazione professionalizzante. Il disagio è sensibile. Per questa ragione, la distinzione tra liceo tecnologico e istituti di formazione raccoglie generali consensi nel consiglio di classe. Più perplessità invece sono espresse sulla compressione del corso da 5 a 4 anni e sull’organizzazione dell’anno propedeutico alle prove d’accesso all’istruzione terziaria, universitaria o meno che sia. Per un verso le obiezioni sono simili a quelle formulate dai colleghi della quinta dell’I.P.I.A. dell’Aquila : chi gestisce quest’anno ? Dove si svolge ? Chi lo organizza ? Chi vi insegna ? La co-gestione con le università e la formazione superiore sembra un progetto ambizioso, difficile da attuare : "le università sono chiuse; non si fanno influenzare dai docenti delle scuole secondarie superiori". Non si crede alla possibilità di implementare un anno del genere, ma si sottolinea pure l’aspetto positivo della libertà di scelta dello studente che decide liberamente se iscriversi o meglio ai corsi di approfondimento e di preparazione alle prove d’accesso all’università. La perdita di un anno è invece più difficile da digerire, come lo si è visto anche al "Giulio" di Torino. Si ritiene infatti che la quantità di nozioni scientifiche/tecniche da trattare sia tale da essere difficilmente comprimibile in quattro anni. Soprattutto però si teme per il prezzo da pagare sul piano della formazione culturale. I docenti tengono molto a questa funzione e sono propensi a sopravvalutarne il valore e l'importanza e quindi propendono per una permanenza prolungata nella scuola.

Il gruppo di esperti si è recato nel Cantone Ticino per studiare il modello di un istituto di formazione professionale superiore creato a fianco dell’università per impartire una formazione tecnica d’alta specializzazione. Il sistema della formazione professionale continua comprende nel Cantone Ticino non uno ma due tipi di formazione superiore :

     

    A queste scuole si accede di norma dopo il diploma e previo superamento di un esame d’ammissione. L'iscrizione è possibile anche con una maturità liceale ma non direttamente, perché in questo caso si esige un anno di pratica. La durata dell’insegnamento è di regola triennale a tempo pieno o quadriennale a tempo parziale. La SUPSI è stata fondata nel 1997 ed è diventata operativa nel 1999. Occorre precisare che la costituzione in tutta la Confederazione elvetica di sette scuole universitarie professionali che accolgono circa 25 000 studenti, rispetto ai 75 000 iscritti nelle 9 università ed ai 15000 iscritti nei due Politecnici federali, è stata un’operazione tardiva, decisa per tenere il passo con l’evoluzione nel campo della formazione a livello internazionale e soprattutto europeo.

    La SUP della Svizzera italiana comprende cinque dipartimenti e tre istituti :

     

    Le scuole universitarie professionali hanno un orientamento pratico, d’applicazione, a breve termine, dei risultati della ricerca fondamentale, in collaborazione con le piccole e medie imprese. Le SUP svolgono ricerche in collaborazione con le aziende del settore privato, gli enti e le amministrazioni pubbliche, e offrono consulenze e servizi. Esse rappresentano un tipo moderno di scuola, che raccorda il mondo accademico e quello della formazione con quello delle aziende.

  1. Un grave problema a monte : le competenze fondamentali acquisite alla fine della scuola media La proposta di mantenere la scuola media triennale innestata su una scuola elementare quinquennale non ha suscitato commenti particolari salvo nel consiglio d’istituto del "Giulio" di Torino dove una voce ha fortemente deprecato la sospensione della riforma dei cicli avviata dal Ministro Berlinguer e l’abbandono della formula del 7 + 5. Occorre anche dire che l’oggetto in discussione nella serie d’incontri con gli istituti professionali non era l’organizzazione della scuola di base, né la riforma dei cicli, ragione per la quale non si è quasi mai parlato di questo tema nel corso degli incontri in questo tipo di scuole. D’altra parte, l’ipotesi di potenziare il settore della formazione con una valorizzazione della sua specificità professionalizzante implica una distinzione marcata tra l’indirizzo d’istruzione generale che ha come sede naturale i licei e l’indirizzo tecnico-professionale che si svolge negli istituti professionali. Questo significa che alla fine della scuola media, gli studenti dovrebbero essere nella condizione di potere operare una prima scelta tra due indirizzi diversi : uno professionalizzante ed uno accademico. Questo non significa effettuare scelte definitive non più modificabili. Sarebbe infatti eccessivo pretendere che alla fine della scuola media tutti gli studenti abbiano un’idea chiara sul loro futuro ed abbiano già un progetto professionale ben preciso in testa. Succede in taluni casi, ma non sempre. Spesso questo percorso prende più tempo, richiede riflessioni ed esperienze diverse. La transizione dalla scuola media alla secondaria superiore rappresenta un momento importante di questo percorso che va quindi seguito con attenzione e facilitato dalla scuola. Orbene, se la distinzione tra istruzione generale ed istruzione professionale è labile, non si facilita di certo la scelta degli studenti né si semplifica il compito dei docenti. In ogni modo, a questo punto appare la questione dell'orientamento scolastico che è uno dei punti dolenti della scuola media attuale per quasi tutti i docenti incontrati nel corso di questo viaggio.

    Ricorrente infatti la denuncia degli alti tassi di dispersione alla fine del primo anno del triennio d’istruzione professionale e tecnica. Molti giovani escono dalla scuola media impreparati e disorientati. La scuola media, così com’è, non è una scuola d’orientamento ne aiuta gli studenti a prefigurare quali indirizzi di studio prediligere per valorizzare i propri talenti od i propri interessi. I problemi si sono aggravati quando l’obbligo scolastico è stato esteso al quindicesimo anno. Questa decisione ha indotto una proporzione elevata di studenti ad iscriversi negli istituti per completare l’obbligo scolastico senza per altro avere nessuna intenzione di frequentarli dopo il compimento del quindicesimo anno. Nel consiglio di classe della 1aB dell’"Ascione" di Palermo si ricorda che l’obbligo scolastico è stato travisato con la legislazione in corso. Il problema infatti non è quello di andare a scuola per un certo numero di anni ma di acquisire un determinato bagaglio di competenze indispensabile per sopravvivere in una società complessa come quella odierna. Ora, sembrerebbe che si è fatto il contrario di quanto si sarebbe dovuto fare : si sono abbassati i livelli minimi d’apprendimento, si sono allentate le esigenze per rendere la scuola apparentemente più efficace, più utilitaristica, più tollerabile, in un clima di consumismo generalizzato. In un certo senso i docenti della 1aB che accolgono gli studenti delle medie e che sperimentano con loro forme di ricupero e di approfondimento nell’ambito del progetto 2002 dicono a modo loro che la scuola ha perso la bussola. Questa accusa diventa molto più pungente a qualche chilometro di distanza, al "Cosentino" di Marsala. I docenti di un’altra prima, la 1aA, constatano che molti studenti che escono dalla scuola media hanno livelli conoscitivi bassi, leggono male e comprendono poco quello che leggono. Con l’estensione dell’obbligo a 15 anni la loro scuola è diventata un posteggio dove si trovano "gli scarti della media". Una docente ricorre ad una metafora terribile che fa rabbrividire : noi siamo un istituto che accoglie i "malati terminali" della scolarizzazione. A questo punto il compito della scuola cambia radicalmente : non si tratta più né di istruire, né di preparare ad una professione. La scuola non può essere che un’agenzia educativa, un luogo protetto dove studenti allo sbaraglio possono incontrare adulti responsabili che sanno offrire almeno alcuni punti di riferimento fermi in un ambiente caotico, disordinato, sballato. Questa situazione dovrebbe avere delle ripercussioni sul piano delle formazione dei docenti. Le giovani leve devono essere preparate a capire ed a dominare problematiche. Per altro, occorre pure preoccuparsi dei docenti in servizio e fornire loro gli strumenti di sostegno necessari per assolvere funzioni che poco hanno a che fare con gli apprendimenti e le didattiche. Al "Giulio" di Torino, i docenti della 4a A2 ritengono che sia indispensabile una formazione dei docenti diversa per l’indirizzo professionale. "La formazione non può essere la stessa di quella per i licei".

    Anche gli studenti presenti nel consiglio d’istituto del "Cosentino" a Marsala, si lamentano a proposito della scuola media e deplorano di non essere consultati, come se "si volesse fare i conti senza l’oste". Essi concordano con la diagnosi dei docenti : "la scuola media è male organizzata"; "vi si perde tempo"; "si dimentica persino anche quello che si impara nella scuola elementare".

    Nel consiglio di classe della 2a odontotecnici dell’Aquila si esprimono constatazioni analoghe : "gli studenti che giungono da noi mancano delle abilità di base : non sanno né leggere né scrivere in modo corretto; sono in difficoltà nei calcoli". "Ci sono studenti che non sanno distinguere i numeri pari da quelli dispari, il semplice dal doppio, eppure sono arrivati fin qui". Il problema non è la bocciatura che in questi casi servirebbe a ben poco. Questi studenti hanno accumulato nel corso degli anni precedenti debiti colossali ormai quasi insolvibili all’interno dello stesso sistema che li ha generati : "Prima di insegnare la teoria del testo poetico in 2a, come previsto dal programma, occorre semplicemente insegnare a leggere, ma non sono sicura di farcela", afferma la docente di italiano. I docenti sono quotidianamente confrontati a questo grande divario tra le indicazioni programmatiche e le competenze degli studenti che siedono nei banchi della scuola. Alla fine di questa per molti versi dolorosa confessione, i docenti sollecitano comprensione e in modo accalorato chiedono che si parli bene di loro, in primis al ministero. "La colpa non è dei docenti" ci dicono. Queste situazioni, che si tenta di arginare con pochi mezzi, scarse risorse, un sostegno insufficiente ed esigua comprensione, hanno cause complesse, avantutto politiche, culturali e sociali. Non c’è rassegnazione in queste parole, né impotenza, ma solo la richiesta di un maggiore rispetto per un compito ingrato e soverchiante. Non ci sono grandi differenze tra i docenti dell’Aquila e quelli di Marsala. Anche nel consiglio d’istituto del "Giulio" a Torino si insiste molto sul problema dell’orientamento alla fine della scuola media. Al "Ferrari" di Susa, nel consiglio d’istituto, si afferma che "la scuola media non è una scuola di orientamento ma una scuola di disorientamento", come lo dimostra proprio l’altissima percentuale di cambiamenti d’indirizzo nel primo anno del triennio.

    L’impostazione del biennio finale di scuola media come biennio d’orientamento sarebbe una sfida colossale che si dovrà però a tutti i costi vincere se si vuole ridurre la dispersione scolastica nei primi anni dell’istruzione secondaria di II grado o della formazione secondaria.

    Mi sono limitato a riassumere i punti salienti riguardanti gli interventi sugli aspetti strutturali dell’istruzione professionale e tecnica. Ho tralasciato di rielaborare altri commenti sui programmi, l’organizzazione dei curricoli, le modalità di valutazione, il disciplinamento dei titoli di studio. In tutte le scuole lo scambio di idee con gli operatori scolastici è stato nutrito, appassionato, vivace. Ovunque ho incontrato docenti motivati ed impegnati. Le difficoltà non mancano, specialmente nel Centro e nel Sud, ma non mi è sembrato di avere di fronte persone demoralizzate e rinunciatarie. Una grande parte di questi docenti lavora moltissimo, si dà da fare per innovare e sperimentare nuovi progetti. Certe scuole funzionano a pieno regime fino a tarda notte, mobilitano dirigenti e personale tecnico ed amministrativo per lunghe ore della giornata. Sono rimasto impressionato dal numero di ore di scuola nell’orario degli studenti e dalla generalizzazione dell’insegnamento di una seconda lingua ovunque, nonostante le carenze nella padronanza della prima lingua. L'assetto dell’istruzione professionale e tecnica mi è sembrato solido. Non tutto però è roseo e ci sarebbero molte cose da fare per potenziarlo e migliorarlo ma non è affatto necessario, per riuscire, smantellare di un sistema che funziona decorosamente e nel quale si sono sviluppate scuole eccellenti, in cui si pratica una pedagogia e una didattica d'avanguardia che è assente nei licei. Il partenariato con le regioni dovrà essere regolato in modo tale da rispettare questa realtà che costituisce un patrimonio indiscutibile della scuola italiana.

I.P.S.I.A (ISTITUTO PROFESSIONALE DI STATO PER L’INDUSTRIA E L’ARTIGIANATO) ASCIONE, PALERMO (15 ottobre 2001)

Preside : Nicolò Guarneri

Partecipa il Consiglio di classe 1a B, sperimentale

Partecipa il Consiglio di istituto

I.P.S.C. (ISTITUTO D’ISTRUZIONE SUPERIORE CON AGGREGATO I.P.S.S.C.T.S. ED I.T.I. - PROFESSIONALE SERVIZI SOCIALI COMMERCIALI E TURISTICI) "COSENTINO", MARSALA (16 ottobre 2001)

Preside : Guido Di Giovanni

Partecipa il Consiglio di classe 1a A

Partecipa il Consiglio di istituto

Istituto d’istruzione superiore I.P.I.A. l’Aquila, Via Monte S. Rocco, Aquila (18 ottobre 2001)

Preside : Domenico Evangelista

Partecipa il Consiglio di classe 5

Tecnico delle industrie elettriche

Partecipa il Consiglio di istituto

ISTITUTO PROFESSIONALE DI STATO (I.P.S.)CARLO IGNAZIO GIULIO PER I SERVIZI COMMERCIALI, TURISTICI E SOCIALI, VIA BIDONE 11, TORINO (19 ottobre 2001)

Preside : Marco Masuelli

Partecipa il Consiglio di classe 4 ATGA

Partecipa il Consiglio di classe 4 A2

Partecipa il Consiglio di istituto

ISTITUTO E LICEO TECNICO INDUSTRIALE (I.T.I.S.) ENZO FERRARI, CORSO COUVERT 21SUSA – BUSSOLENO (20 ottobre 2001)

Preside : Ing. Bruno Stoppiana

Partecipa il Consiglio di classe 5a liceo tecnico

Partecipa il Consiglio di istituto

FORMAZIONE PROFESSIONALE NEL CANTONE TICINO (SVIZZERA), LUGANO (30 ottobre 2001)

Partecipanti :

 

Le risposte della Formazione Professionale alle prospettive della Riforma

a cura di Michele Colasanto

Quanto segue è la sintesi dei due incontri che sono stati organizzati con i responsabili di centri (a Palermo e a Roma) e delle visite effettuate a Torino presso il centro di formazione professionale della Casa di Carità delle Arti e dei Mestieri e presso l’IVOR-FIAT di Torino (società per la formazione del gruppo FIAT), ove si sono tenuti, rispettivamente, una riunione con un gruppo di docenti (in assenza di istituti analoghi ai consigli di classe) e una con la direzione. E’ una scelta di metodo, questa, diversa da quella effettuata per gli istituti scolastici dell’istruzione, per le peculiarità organizzative della formazione professionale e per la diversità delle competenze di governo (che per la formazione professionale, si ricorda, sono principalmente delle Regioni e in termini di indirizzo del Ministero del Lavoro). All’incontro di Palermo erano presenti responsabili dei seguenti enti: ANFE, CIAPI, CNOS; a quello di Roma responsabili del CIOFS, ENGIM, ELIS e CRFP (Centro Regionale per l’informatica).

Obbligo formativo, obbligo scolastico, scelta a 14 anni

La prospettiva di un canale di formazione professionale dai 14 ai 21 anni è risultata condivisa nei suoi presupposti fondamentali:

  1. eliminare gli effetti perversi della legge nove, con l’obbligo scolastico a 15 anni speso in un semplice anno aggiuntivo nei percorsi di istruzione, perso per chi ha proseguito nella formazione professionale regionale;
  2. valorizzare nell’istruzione come in quest’ultima una formazione capace di rispondere alla domanda di professionalità delle imprese e dei giovani (e le loro famiglie). L’ISVOR-FIAT peraltro ha mostrato di tenere in particolare ai percorsi dell’istruzione tecnica, ritenuta di straordinario interesse per le imprese (si intuisce dalle imprese, in particolare, medie e grandi), laddove i dirigenti e gli operatori della formazione professionale hanno insistito per ribadire l’importanza di una rilegittimazione della medesima, con richieste di modalità di finanziamento analoghe a quelle della scuola, sulla base cioè delle domande effettive e non in regime di stanziamenti limitati ed effettuati con modalità di messa a bando, perché provenienti dalle risorse del Fondo Sociale Europeo. Importante comunque è che la scelta avvenga per tutti nello stesso momento e che i corsi della formazione professionale regionale non si alimentino di soli drop-out della secondaria, ovvero gli “obbligati” della legge 9 e quelli che lasciano al secondo (o anche terzo) anno i percorsi dell’istruzione. In questo contesto, viene condiviso il carattere di consolidamento e di orientamento che potrebbe avere il primo anno di un percorso triennale, dentro la formazione professionale, o quadriennale (nell’apprendistato), per conseguire una prima qualifica.

    Questo primo anno di consolidamento risponderebbe ad una doppia esigenza:

    I problemi posti a questo riguardo sono quelli di un rafforzamento delle politiche di orientamento, e quello delle effettive possibilità di dar corso alla “moneta” dei crediti formativi.

    Non risulta sgradita peraltro l’ipotesi di un percorso formativo, nella formazione professionale, che inizi con un biennio anziché un anno solo di formazione iniziale comune, con una prima qualifica dopo il terzo anno e una specializzazione al quarto.

    Su due livelli (qualifica e diploma) c’è in ogni caso consenso, così come sulla necessità di un segmento formativo superiore, anche se si ammette che i Centri di formazione non sono, di norma, né interessati, né attrezzati per intervenire su questo segmento, se non per il tramite di azioni formative post-diploma relativamente brevi e mirate.

Le strategie specifiche della formazione professionale

Pressoché unanimamente è stata richiamata e rivendicata la specificità della formazione professionale rispetto ai percorsi formativi. Una specificità fatta di:

Questa dimensione promozionale viene peraltro accentuata in modo particolare da chi opera nel Sud, dove si ammette peraltro, una difficoltà di collegamento con un sistema produttivo che non c’è, o che è debole, o che è caratterizzato da un terziario tradizionale. La coerenza con i fabbisogni delle imprese è sottolineata con maggiore forza da chi opera nel Nord, con una distinzione peraltro:

Organizzazione e standard

Proprio in vista di questa flessibilità e capacità formativa, ogni prospettiva di riforma non deve pregiudicare le peculiarità pedagogiche e organizzative della formazione professionale, oltre gli stereotipi di scuola di serie B con cui talvolta è ancora percepita. Si ammette nei centri di formazione professionale della città di Palermo, di Roma e di Torino, che esistono problemi di disomogeneità, che impongono con urgenza la definizione di standard nazionali. Ma è comunque rischiosa ogni predeterminazione curriculare che non attenga alla sola precisazione di obiettivi formativi da conseguire. Semmai, quel che è urgente è una maggiore trasparenza del mercato di lavoro, per una programmazione delle qualifiche rispondenti ad effettivi fabbisogni professionali.

Suscita quindi perplessità l’ipotesi che i percorsi della formazione professionale possano essere organizzati all’interno di un unico “contenitore”, sia pure regionalizzato. Gli Istituti professionali e gli Istituti tecnici, hanno norme e tradizioni pedagogiche e didattiche certamente diverse dalla formazione professionale regionale, che, tra l’altro, è regolata da una contrattazione collettiva di tipo privatistico, con orari di trentasei ore di presenza nei Centri. Occorrerebbe quanto meno ammettere una pluralità di percorsi curriculari, rapporti di lavoro diversi, diverse modalità di reclutamento dei docenti.

Per concludere

L’impressione che si ricava dagli incontri, al di là delle differenze legate alla specificità dei contesti regionali, è quella di un’ambivalenza tra interesse per le proposte di riordino, e sentimenti di perplessità.

L’interesse è legato alla percezione di un’ipotesi che intende dare, finalmente, riconoscimento alla stessa formazione professionale regionale, per ciò che essa è; pedagogicamente e istituzionalmente, contro una “storia” della riforma della scuola che l’ ha sempre considerata complementare, significativa solo se “integrabile” nei percorsi dell’istruzione. E’ un riconoscimento che viene considerato ancora più forte in quanto proiettato verso l’ istituzionalizzazione di un segmento di formazione superiore non accademica, con una ricaduta di maggior valore e prestigio sull’intero complesso dei percorsi formativi professionalizzanti.

La perplessità nasce dal timore che il pur legittimo processo di nuova regolazione di contenuti e procedure possa minare il carattere costituzionale della formazione professionale così come esso si esprime in termini di flessibilità ed efficacia.

C’è alla fine un ritrovato orgoglio che per certi versi sembra tradursi in un rovesciamento degli atteggiamenti tradizionali: le scuole come via maestra per l’istruzione, la formazione professionale come percorso minore, ed anzi marginale, per di più non promozionale delle persone, ma ghettizzante. E’ invece quest’ultima – la formazione professionale – che ritiene di essere cresciuta pedagogicamente e metodologicamente, pur restando minoritaria sul piano quantitativo (6% circa “dell’utenza” tra i 14 e i 18 anni), al punto da saper dialogare efficacemente sia con le politiche scolastiche sia con quelle del lavoro, e da organizzarsi nella prospettiva della formazione continua e permanente.

E’ un orgoglio questo che deriva dai processi di forte ristrutturazione intervenuta in questi ultimi anni, con un ricambio rilevante degli operatori e l’introduzione di figure di docenti relativamente nuove, legate all’orientamento e alla progettazione formativa.

C’è da ricordare a questo proposito, che da diversi anni l’erogazione delle risorse finanziarie provenienti dal cofinanziamento del Fondo Sociale Europeo è soggetta alla normativa europea, che ha introdotto elementi di notevole innovazione:

Si tratta, in altri termini, della generalizzazione di quelle azioni di sistema, concordate tra governo e regioni, che stanno trasformando radicalmente la formazione professionale regionale; azioni di sistema che non possono compensare la “formazione che non ancora non c’è” in alcune regioni del Paese, ma che in termini di logiche organizzative hanno spezzato l’autoreferenzialità che è tipica dei sistemi di istruzione e che, partendo dall’obiettivo di riqualificare l’offerta, danno un peso che non ha riscontri altrove, alla domanda sociale di formazione e alla sua qualità.

CAPITOLO II - Le Raccomandazioni del Ministro in discussione

Risposte alla raccomandazione n. 1

Giuseppe Bertagna

Nella sua prima Raccomandazione al lavoro di progettazione e di proposta circa la revisione della legge 30/2000, il Ministro ha chiesto al Grl e ai soggetti della società civile interessati a ridisegnare il profilo del sistema educativo di istruzione e di formazione di procedere a questo compito, cercando di «ribadire il principio che il sistema educativo di istruzione e di formazione del Paese è al servizio della società e del progresso economico se e solo se è primariamente al servizio della persona di ciascuno e mira al massimo sviluppo possibile delle capacità di tutti; in questa prospettiva va collocato l’obbligo di 12 anni di istruzione e/o di formazione per tutti».

Qualcuno (‘Scuola e didattica’) ha eccepito sulla disposizione stilistica della frase: la prima parte farebbe pensare ad un sistema educativo di istruzione e di formazione al «servizio della società e del progresso economico»; questo pensiero, sebbene radicalmente corretto dal successivo, vera e propria antitesi al precedente, potrebbe restare impresso, nella sua parzialità, nella testa di molti. Meglio allora, sostiene il direttore di questa rivista, non giustificare nemmeno involontariamente questi equivoci ed invertire la frase: il sistema educativo di istruzione e di formazione del Paese è al servizio della persona di ciascuno e mira al massimo sviluppo possibile delle capacità di tutti: solo in questo senso è al servizio della società e del progresso economico. Al di là di queste scelte stilistiche, tuttavia, il messaggio del Ministro su questo aspetto era comunque chiaro. Meno chiara, invece, viste le risposte ottenute, era la connessione instaurata dal Ministro tra questo principio e la conseguenza espressa nella frase successiva: «in questa prospettiva va collocato l’obbligo di 12 anni di istruzione e/o di formazione per tutti».

Il Ministro, sebbene con un’ellissi, intendeva annotare che anche la legge 30/2000 non lasciava dubbi sulla centralità della persona nella costruzione dei processi educativi di istruzione e di formazione, ma voleva sottolineare che bisognava rendere più stringenti le conseguenze di questo affermato principio anche in termini di durata dell’istruzione/formazione obbligatoria.

Il combinato disposto della legge 30/2000, della legge n. 9/99 e del Regolamento attuativo sull’obbligo formativo, infatti, consentiva ad ogni ragazzo che fosse regolare negli studi di acquisire una Qualifica e, quindi, di concludere l’obbligo formativo, a 16 anni, dopo soli 10 anni di studi. In verità, gli estensori di questa normativa erano consapevoli che un caso del genere difficilmente sarebbe potuto accadere. Tutti i ragazzi che, oggi, scelgono di frequentare la formazione professionale per acquisire una Qualifica lo fanno dopo essere stati bocciati una o addirittura più volte. Il quattordicenne con licenza media che si iscrive alla prima superiore chiedendo di poter seguire corsi in convenzione con la formazione professionale al fine di poter guadagnare, l’anno successivo, nella formazione professionale stessa, una Qualifica è più un esperimento mentale che un’esperienza reale. È ragionevole, perciò, che il legislatore abbia affermato che è sollevato dall’obbligo delle attività formative fino al 18° anno chi ottiene una Qualifica di durata almeno biennale. Facciamo un esempio. Con una bocciatura, un ragazzo arriva alla fine dell’obbligo scolastico a 16 anni, non a 15. Sedici più due di Qualifica fanno 18: obbligo formativo soddisfatto. L’impianto, però, pur essendo realistico finiva per dare per scontati, e quindi per legittimare, due pregiudizi non molto coerenti con l’affermato principio della centralità della persona.

Il primo, che i percorsi della formazione professionale necessari per ottenere una Qualifica sono residuali e subalterni, in dignità, rispetto a quelli scolastici: ma in questo caso, perché autorizzarli?.

Il secondo, che non si considerava possibile che un giovane per così dire ‘normale’ nella carriera scolastica potesse aspirare ad una Qualifica come realizzazione di un personale e positivo progetto di vita.

Ribadire, allora, che il sistema educativo di istruzione e di formazione del Paese è al servizio della persona di ciascuno e mira al massimo sviluppo possibile delle capacità di tutti se, anzitutto, e prima di molti altri giusti interventi, non consente di aggirare il dirittodovere ad almeno 12 anni di istruzione e/o di formazione per ciascuno, non era, probabilmente, una fatuità.

L’ellissi di questo complesso ragionamento, però, tanto più perché ridotto a due righe di Raccomandazione, ne ha impedito la linearità e il risultato è che il nesso in questione tra servizio alla persona e obbligo di istruzione/formazione non è stato scorto nel suo nucleo molto concreto.

Vediamo, comunque, i contributi di analisi e di critica portati dalle risposte di enti ed associazioni alla prima Raccomandazione del Ministro.

Il mondo giovanile e dei genitori

Cominciamo dal mondo giovanile. Sono pervenute, purtroppo, solo due risposte. Le associazioni degli studenti, salvo una, non hanno ritenuto opportuno partecipare alla discussione. Gli studenti di Azione Studentesca, comunque, condividono la Raccomandazione del ministro e la connessione tra essa e i dodici anni di istruzione/ formazione obbligatoria.

Più articolata la posizione dell’Acr (Aziona Cattolica Ragazzi). Prende spunto dall’impegnativa e programmatica dichiarazione di apertura della legge 30/2000 («il sistema educativo di istruzione e di formazione è finalizzato alla crescita e alla valorizzazione della persona umana»). «Leggendo il testo della legge, afferma l’Acr, quest’importante sottolineatura ci sembra un po’ sotto tono; sembra privilegiato l’aspetto strutturale, la riforma dei cicli, più che i contenuti della stessa». «Pur lodando lo sforzo della riforma di abbandonare il primato del programma (non più scadenze temporali da rispettare che potevano tradursi nel ritmare i tempi della classe esclusivamente su quelli di chi riusciva a stare al passo con il ‘programma’), non ci sembra che tale primato sia stato assunto dal bambino e dal ragazzo ,vero protagonista della vita scolastica, colui che attraverso “i contenuti” ,attraverso le “esperienze” che la scuola gli farà vivere, non dovrà più, in accordo con il principio ispiratore della riforma, render conto delle “nozioni acquisite”, ma avrà imparato ‘facendo’, ’sperimentando’; ciò sarà possibile solo suscitando in lui l’amore del sapere, del saper anche imparare e studiare cioè amore della conoscenza; i ragazzi si sa, chiedono attendibilità e soprattutto testimoni autentici, appassionati, che ci piace vedere: a) negli insegnanti non impauriti, o preoccupati di quello che la riforma comporterà in termini di lavoro extra (casomai scarsamente retribuito), di corsi di aggiornamento, di verifiche della commissione ministeriale, ma contenti di veder loro riconsegnato e ri-attribuito un ruolo quale quello dell’insegnante educatoremaestro; b) nei genitori che sono partecipi e ‘partecipati’ di tutte le dimensioni della vita del figlio, in particolare di quella scolastica in quanto scommettono grazie e con essa sulla capacità del bambino e del ragazzo di crescere in sapienza».

Tra le associazioni dei genitori, da segnalare la risposta dell’Agesc. Essa rileva che il principio del primato della persona, e quindi della domanda educativa dei figli, è «inscindibile» da quello della «realizzazione della scuola dei soggetti e perciò, per quanto ci riguarda, la definizione delle condizioni per la presenza dei genitori, la comprensione del loro specifico contributo e la organizzazione della loro presenza nel momento curricolare, quale modalità di collaborazione con gli altri soggetti della scuola». In questa prospettiva, si colloca anche la proposta di una «scuola della società civile come espressione della connessione e continuità della scuola con gli altri ambiti della vita sociale». La risposta dell’Age si limita ad aderire «con convinzione» alla Raccomandazione del Ministro. Il Cgd ha preferito esprimere le sue preoccupazioni nell’apposito Focus sulla riforma, riservato alle associazioni genitori.

Il mondo associativo dei docenti

L’Apef (Associazione Professionale Europea Formazione) reputa certamente condivisibile il principio per cui il Sistema dell’istruzione –formazione, debba mirare “al massimo sviluppo possibile delle capacità di tutti”, ponendo, però, «attenzione a non commettere l’errore di quanti hanno scambiato il “diritto alle opportunità” col “diritto al successo garantito. Logica, questa, cui si sono ispirati molti dispositivi normativi prodotti nelle precedenti legislature, e che ha prodotto il pesante abbassamento dei livelli di istruzione che oggi riscontriamo». Parallelamente, continua l’Apef, «si ritiene che debba essere fugato ogni dubbio circa il fatto che un sistema “al servizio della società e del progresso economico”, vada inteso non nel senso di collocarsi acriticamente al servizio di umori modaioli o di necessità economiche contingenti ( e la flessibilità insita nell’Autonomia degli Istituti potrebbe far correre questo rischio) ma nell’essere in grado, in quanto depositario di valori, di orientare le scelte stesse della società, attraverso, appunto, la formazione delle “persone”».

Per il Cidi, «la centralità del soggetto che apprende, il dare a tutti conoscenze durevoli sono aspetti decisivi su cui si misura la qualità e l'efficacia del sistema di istruzione. La centralità del soggetto che apprende, con la sua individualità e con la rete di relazioni che lo legano alla famiglia e ai diversi ambienti sociali, culturali, territoriali è un principio educativo della scuola. La scuola guarda alla persona nella sua identità, con i suoi ritmi di apprendimento e le sue peculiarità cognitive e affettive, per farsi capace di portarla il più vicino possibile alla acquisizione piena delle competenze da raggiungere attraverso il percorso di istruzione».

L’Aimc, d’altro canto, ricorda che l’affermazione della centralità della persona/soggetto in formazione non solo è condivisa da parte dell’Associazione, ma addirittura è, da sempre, considerata condizione di vera significatività dell’istituzione scuola. «Non vi è dubbio, continua l’associazione che ha letto la Raccomandazione del Ministro integrata con le dichiarazioni programmatiche da essa pronunciate alle Camere (luglio 2001), che il riferimento ritorna più volte». Tuttavia, l’Aimc rileva in questo testo una sorta di "filo rosso" sommerso che genera perplessità. «Il rapporto scuola/mondo del lavoro appare, infatti, sperequato ponendo la prima in posizione per così dire ancillare rispetto al secondo.

Che i due “mondi” ricerchino interazioni vere e generative di sviluppo, cessando di percepirsi come compartimenti stagni, è esigenza avvertita». D'altra parte, l'Aimc è convinta che «il lavoro stesso contenga in sé valenza culturale e formativa e che costituisca uno degli strumenti di inclusione sociale. Quando però ci troviamo di fronte ad espressioni del tipo ”produrre reddito”, “crescita del benessere”, “sforzi rappresentati da ingenti volumi di spesa”, “costo per ogni alunno”, “politiche dell’educazione strategiche per la creazione di una nuova formazione al lavoro”, come indicatori di ingresso del Documento, sorge il dubbio che si pensi ad una scuola funzionale ad un “benessere” che andrebbe quanto meno specificato: produttivo? economico? o forse anche in primo luogo del singolo dentro una comunità sociale?». L’Aimc avverte allora l’urgenza di maggiore chiarezza circa quei passaggi del Documento che paiono sottolineare il primato della persona per fare emergere quest'ultimo senza ambiguità.

La risposta dell’Mce (Movimento di cooperazione educativa) va oltre il contingente e prende l’occasione per un confronto di tipo, per così dire, metafisico e storiografico. Il Movimento, infatti, ritiene «il termine 'persona' ,usato a coronamento di una serie di principi fondanti il diritto di istruzione , astorico, neutro, generico; esso esclude una seria presa in carico e considerazione di tutte le differenze. Anche nel corso dei lavori della commissione De Mauro è stato da più parti criticato e discusso, andrebbe preferibilmente sostituito con il termine 'soggetti' , al plurale». Al di là di questo, il Movimento ammonisce che «il sistema di istruzione e formazione del Paese deve primariamente rispondere al bisogno di tutti/e di crescere, agire alla pari nella società, attraverso gli strumenti della cultura, di acquisire quelle conoscenze adeguate che diventano discrimine di una piena cittadinanza».

L’Uciim condivide l’affermazione contenuta nel primo punto, così come è formulato nell’art. 1 della legge 30/2000, che parla di “sistema educativo d’istruzione e di formazione”. Ne riconosce la radice nel testo costituzionale, che finalizza l’ordinamento al “pieno sviluppo della persona umana”, alla “partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione… del Paese”, alla “libertà e all’uguaglianza dei cittadini”, e alla promozione dei lavoratori. Sottolinea, però, che la traduzione di questi fondamentali concetti in obiettivi formativi costituisce un compito la cui definizione appartiene anzitutto allo Stato, nell’ambito delle norme generali sull’istruzione, previste anche nella nuova versione dell’art.117 della Costituzione». A proposito di rapporto tra persona e dirittodovere all’istruzione/formazione per 12 anni, l’Uciim ricorda che l’introduzione «nella legislazione italiana (l.144/1999) del concetto normativo di obbligo formativo fino a 18 anni consente di ritenere di fatto superata la legge 9/1999, là dove prevede un obbligo scolastico di 9 anni, che ha inutilmente costretto ragazzi non motivati allo studio a soggiornare per un anno in più in un qualunque istituto secondario superiore. L’obbligo che non va trascurato è piuttosto quello delle istituzioni, che debbono prevedere adeguate offerte formative, perché si possa soddisfare il diritto dei giovani alla loro formazione, secondo loro valutazioni e scelte, che a 14 anni sono ormai possibili. Se scompare la leva militare obbligatoria, se si tende a ridurre al minimo gli obblighi sociali con la semplificazione amministrativa e con la riduzione delle tasse (compatibilmente con le nuove emergenze, relative soprattutto ala sicurezza), se si tende in tutti i campi ad arricchire le risposte alle domande differenziate del cittadino-utente-consumatore-cliente, non si ritiene però di poter transigere sulla “formazione”. Questo termine, cui si è guardato a lungo con sospetto o con sufficienza, riassume oggi “educazione” e “istruzione”, in prospettiva civica e professionale: e cioè appare come un valore personale e sociale di cui non si può fare a meno, per conquistare quel bene di “cittadinanza”, senza il quale l’individuo non può svilupparsi nelle costituzionali dimensioni della persona, del cittadino e del lavoratore. Ciò non significa che debba necessariamente frequentare una scuola fino alla maggiore età, ma neppure che la scelta debba essere anticipata al di sotto dei 14 anni e che dopo tale età sia irreversibile».

Per l’associazione ‘Lega ambiente scuola e formazione’ vanno avanzate, invece, tre osservazioni analitiche. La prima prende spunto dall’affermazione che «il sistema di istruzione e di formazione al servizio della società e del progresso economico». Nell’era della globalizzazione e della così detta “società della conoscenza”, annota l’associazione, «il termine “progresso economico” ci sembra appartenere ad una fase superata dello sviluppo dei Paesi industrializzati, quando unico punto di riferimento era la crescita quantitativa. In una fase in cui acquista sempre più peso e rilievo la dimensione qualitativa dello sviluppo economico e sociale del nostro Paese». In questo senso, «esprime una visione riduttiva della sfida in campo e pertanto del progetto culturale di cui il sistema di istruzione e formazione ha bisogno per dare il suo contributo decisivo all’evoluzione del Paese. Dal nostro punto di vista sarebbe bene esplicitare che il progetto culturale contribuisce a costruire una società sostenibile, ovvero una società moderna, solidale, attenta alle compatibilità ambientali, integrata nell’Europa e capace di confrontarsi con la competizione internazionale». La seconda osservazione si collega all’espressione « servizio della persona di ciascuno». Lega ambiente condivide «questa centralità a condizione che si sottolinei, contestualmente, che tale servizio non può intendersi come trasformazione della scuola in un “servizio individuale su domanda”, non solo perché la scuola è (e deve rimanere) per molti bambini e ragazzi l’unico luogo in cui possono imparare stando insieme ad altri, simili o diversi. Non vorremmo cioè che venisse sottovalutato quanto importante sia che i processi di apprendimento e di acculturazione avvengano in luoghi collettivi. La socializzazione ed il confronto con gli altri sono un passaggio fondamentale di educazione alla cittadinanza, alla convivenza, al rispetto e all’assunzione di responsabilità, insomma alla costruzione di coesione sociale del Paese, che è, in ultima analisi, una delle finalità fondamentali del sistema di istruzione e formazione. Siamo, infatti, convinti che non si dà costruzione di identità individuale (elemento fondante di qualunque successo formativo) senza la partecipazione a processi di identificazione collettiva. Identità forti, a livello personale e collettivo, sono condizione inalienabile per invertire quella tendenza all’anonimato e alla omologazione che sta condannando persone e territori alla solitudine, al degrado, all’insicurezza. Identità forti consentono di acquisire consapevolezza del proprio ruolo di persona e di cittadino e delle proprie radici, facilitano l’integrazione tra culture diverse, rafforzano quella coesione sociale che a tutt’oggi caratterizza il modello europeo di sviluppo e ne costituisce la forza di attrazione nel mondo globale». L’ultima osservazione riguarda l’accenno «al massimo sviluppo possibile delle capacità di tutti». Lega ambiente suggerisce di aggiungere a questa formulazione, in coerenza con il punto precedente, la necessità per la scuola (che in molti territori è l’unico organismo in grado di farlo) di costruire identità collettiva, sia a livello di comunità che a livello nazionale ed europeo. Lo sviluppo delle capacità non è questione “tecnica”, di addestramento specialistico, ma insiste sulla costruzione di un forte retroterra culturale diffuso».

La Fnism (Federazione Nazionale Insegnanti Scuola Media) non ha ritenuto di predisporre una risposta specifica, ma ha rimandato ad un proprio documento nel quale, comunque, si afferma che «la scuola ha come compito quello di formazione individui capaci di autonomia di pensiero e di spirito critico, tutta la scuola, quella di base e la secondaria, in tutti i suoi indirizzi e articolazione e non soltanto nei suoi canali. Spetta infatti alla scuola formare i futuri cittadini e anche dal suo buon funzionamento dipendono il livello di etica sociale e la qualità dei rapporti tra i cittadini».

Secondo lo Cnadsi non si può «non concordare con la parte in cui si afferma che la scuola “è primariamente al servizio della persona di ciascuno e mira al massimo sviluppo possibile delle capacità di tutti». Esso fa solo notare, però, che «una enunciazione del genere – condivisibile in toto - la si trova anche in cima alla legge n. 30/2000, del riordino dei cicli, voluta dal centro-sinistra; (il centro-destra abbandonò addirittura l’aula per protesta). Il che significa semplicemente che tutto dipende da come tali affermazioni vengono poi tradotte in concrete norme operative. L’egualitarismo che in effetti ha ispirato e informato vastamente di sé la formulazione della 30/2000, ha in concreto contraddetto nella sostanza l’impegno solenne dell’art.1 (“Il sistema educativo di istruzione [… ] è finalizzato alla crescita e valorizzazione della persona umana, nel rispetto [… ] delle differenze e dell’identità di ciascuno”. Ciò è verità sacrosanta per noi». Lo Cnadsi esprime perplessità, invece, sulla conclusione del punto 1): “in questa prospettiva va collocato l’obbligo di dodici anni di istruzione e/o formazione”. «Avvertiamo la contraddizione tra il “servizio alla persona di ciascuno”, e quindi il rispetto dell’autonomia personale, e l’obbligo di frequenza scolastica per 12 anni. Mentre sono giustificate forme di obbligo scolastico limitate, per vincere determinate resistenze ambientali, le imposizioni di obbligo così prolungate sono illiberali. E’ più che sufficiente l’obbligo per otto anni. Poi sarà il ragazzo a scegliere liberamente se proseguire negli studi o altrettanto liberamente continuare nella formazione o altrettanto liberamente se dedicare il suo tempo ad una qualsiasi altra attività . Il prolungamento dell’obbligo vuol dire costrizione scolastica e quindi molte volte semplice parcheggio a danno del ragazzo, della famiglia e della società.

In conclusione, noi auspichiamo che tutti proseguano negli studi o nella formazione e non per 12 anni ma per quanti ne desiderano o ne hanno bisogno, ma in clima di scelta civile e quindi di varietà culturale e operativa. L’eccessiva permanenza obbligata a scuola, non crea uomini liberi, ma automi. Ciò non è nell’interesse della Comunità civile».

L’Associazione Pedagogica Italiana (As.Pe.I.) sottolineare vigorosamente, quando si parla del sistema di istruzione e di formazione la primarietà del servizio alla persona come condizione indispensabile per la crescita della società e del progresso economico.

Il mondo degli enti, delle istituzioni e delle opere educative

Per la Fidae, poi, la persona umana di ciascuno deve risultare “effettivamente” il “costante e concreto” riferimento di ogni singolo capitolo della riforma degli ordinamenti scolastici. In questo senso, condivide l’idea di sostituire al concetto di obbligo quello di “diritto” all’istruzione e/o formazione sia di 12 anni, «ma eviti il pericolo che la sua estensione obbligatoria a “tutti” torni a detrimento della “qualità”, e miri al “massimo sviluppo possibile” delle capacità e aspettative di “ciascuno”.

Anche la Fiinsei (Federazione Italiana Istituti Non Statali di Educazione ed Istruzione) concorda con il principio, ma sottolinea come «purtroppo, esso possa indurre a credere che la permanenza nella scuola per 12 anni gli garantirà automaticamente, al di là delle doti e dell’impegno profuso, il risultato finale. Così come può indurre il docente a considerare evangelicamente il massimo ottenuto dalle capacità dell’alunno, giudicandolo meritevole di risultato finale». Per cui resta da «definire quale iter dovranno percorrere gli svogliati e i poco dotati».

L’Opera Nazionale Montessori (con il suo organo, la rivista ‘Vita dell’infanzia’) «ritiene il diritto alla formazione e all’istruzione assoluto e prioritario tra i diritti umani». Per questo dovrebbe portare a tematizzare anche una politica educativa della prima infanzia (0-3).

La Fondazione Nova spes conviene con la prospettiva sull'obbligo di 12 anni di istruzione e/o di formazione per tutti collegato al principio della centralità della persona perché la complessità della nostra società richiede ai cittadini un notevole grado di cultura e di competenze e perché questa soluzione evita che la terminalità dell'obbligo "invada" il ciclo secondario superiore riducendone di fatto la durata e quindi anche lo spessore culturale ed educativo. Anche questo è rispetto e valorizzazione della persona.

Per l’Aie (Associazione Italiana Editori) la Raccomandazione è «condivisibile quanto ad affermazioni di principio» Proprio perché l’Associazione non distingue il concetto di obbligo scolastico, gli anni necessari per acquisire un titolo di studio, e diritto-dovere all’istruzione/formazione per tutti, le «risulta invece problematico immaginare come sia possibile comprimere l’attuale durata del sistema scolastico, che assomma a 13 anni, in soli 12 anni, e conseguire comunque obiettivi di ordine generale non troppo dissimili, né inferiori, rispetto a quelli già oggi indicati tra le finalità del sistema scolastico. La riduzione di un anno della maggior parte dei corsi universitari rende ancor più rilevante la necessità di una adeguata preparazione forte nella scuola secondaria L’ipotesi dei 12 anni può invece essere accettata se riferita all’obbligo formativo, e/o all’Istruzione Professionale. In questo caso, sommando 1 anno di credito per la scuola dell’infanzia 5+3 anni di scuola per tutti si arriva a 9 anni, a cui aggiungere 3 anni per il conseguimento della Qualifica».

Anche il Presidente della Commissione Formazione Professionale, Istruzione e Cultura della Confapi ribadisce che il principio in discussione comporta, per il bene comune, l’obbligo di non meno di 12 anni di istruzione/formazione. Sulla stessa linea la Filins (Federazione Italiana Licei Linguistici e Istituti Scolastici Non Statali).

Il mondo associativo dei dirigenti

L’Andis è dell’avviso che la Raccomandazione andrebbe così riformulata: «il sistema di istruzione e formazione del Paese è primariamente al servizio della persona e mira al massimo sviluppo possibile delle capacità di tutti, se e solo se contribuisce allo sviluppo sociale in tutte le sue forme: economico, democratico, culturale, di convivenza civile; in questa prospettiva si pone l’obbligo di 12 anni di istruzione e/o di formazione per tutti». Pare riduttivo, infatti, a questa associazione «pensare esclusivamente ad uno sviluppo sociale che coincida con quello economico, così come non può esserci sviluppo della persona se la stessa non viene collocata in una dimensione sociale in cui si possano sviluppare e rendere concreti tutti i diritti e i doveri della cittadinanza del terzo millennio».

Il Conapi (Coordinamento nazionale presidi incaricati) ritiene corretto partire per un’opera di riforma mettendo «al centro del sistema di istruzione e formazione i bisogni formativi della persona e, solo in subordine e di conseguenza, le esigenze della società e del progresso economico». Così pure condivide l’obiettivo del massimo sviluppo possibile delle capacità di tutti, tenuto conto della specificità individuale di ciascuno». «Da sempre infatti, continua la risposta, siamo sostenitori convinti della strategia del pieno successo formativo e della personalizzazione dei percorsi. La collettività non può più permettere che una fetta consistente di adolescenti termini il ciclo obbligatorio degli studi senza aver acquisito una adeguata preparazione che consenta loro di proseguire negli studi o di avviarsi verso il mondo del lavoro». L’estensione dell’obbligo a dodici anni, però, «va valutata positivamente, solo se si progetta e si realizza una scuola professionale che sappia dare risposte adeguate sia alle esigenze formative che a quelle professionalizzanti, prevedendo anche esperienze e stage lavorativi presso aziende».

L'associazione Dirigente di Scuole Autonome e Libere (Disal) è dell’avviso che, per dare piena attuazione al principio esposto, si debba «evidenziare che il "servizio alla persona" (solo enfaticamente affermato nei documenti della legge 30/2000), mostra la sua attendibilità nelle forme organizzative della scuola ed in particolare nel pieno rispetto di quella che, nella relazione educativa, è la condizione principalmente dimostrativa di tale rispetto: la libertà di scelta dei soggetti in azione. Quindi, il giusto superamento dell'antiquato concetto di "obbligo scolastico" per attuare invece modalità di motivazione ed incentivo ad un completo percorso di istruzione e formazione (memori dei profetici quanto inascoltati insegnamenti di Giovanni Gozzer) deve comprendere l'abolizione o revisione radicale della legge sull’obbligo scolastico, nata da un tristo compromesso, rivelatosi dannoso proprio per gli alunni più deboli e meno dotati per i quali paradossalmente era stata fatta. La revisione dovrebbe definire le modalità di "motivazione ed incentivo all'istruzione e formazione" per il previsto percorso di 12 anni, con ampio spazio alla personalizzazione di tale percorso».

L’Anp non ha apportato riflessioni specifiche su questa Raccomandazione, anche se ha presentato un documento da cui si evince che la condivide.

Il mondo sindacale

«Una delle critiche più radicali che la Cisl Scuola ha posto alla riforma Berlinguer è stata quella di essere una riforma priva di contenuti di senso: da noi definita una "riforma senz'anima"»: così esordisce il documento di questo sindacato. Esso prosegue con un discorso molto articolato, i cui passi principali sono i seguenti. «Noi riteniamo che qualunque progetto di nuova scuola non può sottrarsi ad una semplice ma fondamentale necessità : riflettere sulle finalità che la scuola deve perseguire come strategiche alla stessa sopravvivenza della società e poi scegliere i contenuti in grado di assecondare quelle finalità. In altre parole individuare e dichiarare la "mission" della scuola e, poi esplicitare come questa "mission" può essere svolta. Il processo educativo di base deve prevedere un impianto tanto solido da garantire ad ogni giovane non solo un esteso sviluppo di conoscenze, ma soprattutto un altrettanto esteso sviluppo di strumenti di costruzione e gestione delle stesse. Mentre condividiamo l'idea di considerare il concetto di obbligo (soprattutto se assunto nella sua configurazione di diritto soggettivo all'istruzione e alla formazione) come quello di un periodo di educazione di base in senso lato che si sviluppa fino all'acquisizione della maturità sociale, ci preoccupa l'uso contrapposto dei concetti di "istruzione" e "formazione" che consideriamo le "proprietà" del concetto di "educazione".

La realizzazione di tale percorso può essere affidata, fermo restando il dovere costituzionale dello Stato di garantire il diritto qualificato e diretto all'istruzione, anche a soggetti accreditati e che comunque assicurino equivalenti standard di qualità nell'erogazione del servizio di istruzione e/o formazione professionale. Pertanto il modello di obbligo, nei diversi percorsi scolastici e professionali, deve soddisfare le seguenti condizioni: -centralità dei contenuti culturali che devono essere largamente presenti in relazione agli standard definiti; - natura educativa quale dimensione dell'istruzione e della formazione professionale per la promozione e lo sviluppo armonioso della persona; -"senso compiuto" ad un qualunque ciclo previsto al suo interno; - caratteristiche culturali e professionali certificate, esplicitate e descritte in termini curricolari ed ordinamentali; - raccordo tra i cicli di istruzione e formazione e quelli tecnico-superiori ed universitari».

La UIL Scuola, d’altro canto, conviene sulla fondatezza del principio ispiratore per il quale il sistema dell’istruzione e della formazione sono al servizio del Paese, in quanto miranti allo sviluppo della persona ed alle capacità/potenzialità di tutte le persone che del Paese fanno parte anche temporaneamente.

Anche la Cgil scuola conviene sul principio, ma reputa indispensabili alcuni paletti ermeneutici ed applicativi. A suo avviso, infatti, il principio non viene tradito «se si garantiscono la continuità (le punte massime di dispersione scolastica si verificano nel passaggio da un ordine scolastico all’altro, purtroppo anche in quello dalla scuola elementare e media); l’individualizzazione dei percorsi formativi, in grado di rispondere a bisogni diversi (ciò significa riflettere sull’ambiente scuola, sul tempo scuola, sull’organizzazione del lavoro e della didattica, sulle risorse); l’orientamento inteso come sviluppo della capacità di compiere scelte, che però non siano premature e irreversibili); curricoli essenziali e progressivi (i curricoli dovrebbero svilupparsi in senso verticale, evitando ripetizioni e ridondanze); azioni positive per rimuovere gli ostacoli al diritto individuale all’educazione fin dalla scuola dell’infanzia». La proposta di revisione della legge 30/2000 avanzata dal Grl, d’altra parte, ha tenuto ampiamente conto di questi criteri che costituiscono il portato delle maturazioni pedagogiche intervenute negli ultimi anni.

L’Unicobas, nel suo documento, non si sofferma su un’analisi di questa Raccomandazione. Gli altri sindacati (Snals, Gilda) hanno preferito incontrare il Presidente del Grl piuttosto che far pervenire documenti scritti. In ogni caso, avuta spiegazione del senso della Raccomandazione del Ministro l’hanno pienamente condivisa.

Le Riviste scolastiche

Molte riviste dedicate ai problemi dell’educazione e della scuola (‘La rivista della scuola’, ‘Scuola insieme’, ‘Scuola e didattica’, ‘Nuova secondaria’) non hanno affrontato in maniera specifica la discussione della Raccomandazione n. 1. Si può dire, tuttavia, che tutte le risposte pervenute, in un modo o nell’altro, abbiano dato per acquisito il significato della stessa. Particolarmente efficace, in questa direzione, l’ampia Introduzione alle risposte, fornita da ‘Scuola Italiana Moderna’ dell’Editrice La Scuola di Brescia. Il documento si può leggere integrale nel Forum.

Più in dettaglio, la rivista ‘Iter’, edita dall’Enciclopedia Italiana, osserva che «la irrinunciabile centralità della persona in ogni processo di insegnamento e di apprendimento debba trovare una propria completezza nella fondamentale centralità in quella educazione alla cittadinanza che rappresenta un traguardo del sistema educativo in ogni democrazia del cittadino».

La rivista ‘école’ , che si presenta con la nuova testata ‘.ECO, l’educazione sostenibile’, edita dall’Istituto per l’Ambiente e l’Educazione Scholé Futuro , dichiara di condividere «pienamente il principio enunciato e in particolare il richiamo a un sapere non solo strumentale, ma al servizio della promozione della persona e delle capacità di tutti. Molto, ovviamente, dipenderà da un lato da come si riuscirà rendere effettivo e non solo formale/fiscale l’assolvimento dell’obbligo, dall’altro dalla solidità di una base culturale comune ai diversi percorsi formativi».

‘Tuttoscuola’ , mentre riafferma il principio che il sistema educativo di istruzione e formazione debba valorizzare la persona, chiede che sia tradotto con alcuni orientamenti concreti. «In sede di orientamento, annota, a partire dalla fase finale della scuola di base, occorrerà tenere conto dell’interazione tra le scelte individuali (e delle famiglie) e la struttura sociale, con particolare riferimento al mercato del lavoro e delle professioni». Suggerisce, inoltre, con riferimento alle linee del Consiglio di Europa raccolte dalla Commissione europea nel Memorandum sull’istruzione e formazione permanente, di prevedere all’interno del nuovo sistema di istruzione e formazione anche una specifica area d’intervento per gli adulti. L’istruzione e la formazione per tutto l’arco della vita possono infatti favorire il conseguimento di due obiettivi strategici individuati dal Consiglio d’Europa e condivisi dagli Stati membri: la promozione di una cittadinanza attiva e la promozione dell’occupabilità. I sei messaggi-chiave contenuti nel Memorandum possono costituire le linee di strutturazione del sistema di educazione degli adulti per l’Italia». ‘Orientamenti pedagogici’ è «d'accordo che il sistema di istruzione e di formazione del Paese è primariamente al servizio alla persona» e che «il principio fondamentale da cui far discendere le scelte pedagogiche didattiche» sia la centralità del soggetto che apprende o, più in particolare, come recita l’art.1 della legge 30/2000, "la crescita e la valorizzazione della persona umana, nel rispetto dei ritmi dell'età evolutiva, delle differenze e dell'identità di ciascuno, nel quadro della cooperazione tra scuola e genitori" (o, forse più esattamente, “tra scuola e famiglie”)». La rivista evidenzia, comunque, che «dalla considerazione della soggettività della persona scaturiscono concrete esigenze da tenere presenti nell’offerta formativa». Ne richiama in particolare due, «l’educazione all’intercultura come fattore che risponde adeguatamente al pluralismo e al multiculturalismo (etnico, culturale, religioso, comunicativo) presenti nella società e nel sistema di istruzione e di formazione “al fine di saper vivere insieme con gli altri” (cfr. Rapporto Delors); l’educazione o almeno l’attenzione alla componente religiosa come rispetto della libertà di coscienza e come dimensione intrinseca delle discipline e del contesto concreto di vita delle persone». Anche ‘ Scuola viva’, se aderisce al principio, riconfermando la diffusa sovrapposizione concettuale tra percorso scolastico e diritto/dovere a 12 anni di istruzione/formazione per tutti e la presenza dei fraintendimenti richiamati all’inizio, rimane al perplessa circa «l’efficacia di una compressione dai 13 ai 12 anni dell’obbligo di istruzione e/o formazione. Il principio esposto è, pur nella sua condivisibilità generale, di una genericità rispetto alla quale la su indicata compressione non si determina come effetto coerente; cioè a dire, perché da “questa prospettiva” ne consegue “l’obbligo di 12 anni”?». Sulla stessa linea, la risposta della ‘Rassegna dell’istruzione’. Non si può che condividere il punto, dice. «Ma, detto questo, meglio 12 anni (come previsto dalla legge di riforma) o 13 anni (come si articola oggi il sistema scolastico italiano)? Una prima risposta, farebbe propendere per l'ipotesi più lunga. Ciò basandosi sulla convinzione che i livelli di apprendimento raggiunti dall'allievo siano funzione diretta della quantità di tempo trascorsa a scuola. Teoria, com'è noto, largamente condivisa nel mondo pedagogico. In realtà, la questione appare più complessa. La ricerca educativa non supporta in termini inequivocabili l'ipotesi che la quantità nominale di tempo sia da porre in diretta relazione con i livelli di apprendimento conseguiti dagli allievi. Quindi 12 o 13 anni di scolarità possono essere posti sullo stesso piano? Più che l'ingegneria istituzionale e le soluzioni basate sul senso comune (13 anni sono meglio di 12) forse sarebbe meglio privilegiare l'analisi di altre variabili». In altri termini, non si vedrebbe «depauperata la funzione della scuola nell'odierno contesto socio-culturale riducendo di un anno l'attuale durata del sistema scolastico. Piuttosto, è essenziale capire quanto di questo tempo viene effettivamente impiegato dall'allievo in attività di apprendimento, le uniche a costituire un elevato fattore di predittività del profitto scolastico a prescindere dall'età dell'allievo, dal livello di scuola, dall'area disciplinare».

La rivista ‘Edav (educazione audiovisiva)’, infine, valuta che la scuola sarà veramente al servizio della persona «se la persona, alla fine del curriculum, possederà — oltre le conoscenze («sapere»), le abilità («saper fare») e le competenze («saper essere») — gli elementi oggettivi di valutazione circa i valori della vita, che la renda capace di essere libera — il più possibile — da condizionamenti, elencando tra questi, in primo luogo, quelli determinati dai mass media». «Il concetto di formazione della persona, infatti, deve tradursi in materie, contenuti e programmi, validi al di là dei tempi e delle mode. Deve anche essere discriminante nella scelta delle varie attività scolastiche, dalle visite didattiche e d’istruzione agli interventi esterni (psicologi e sociologi) alla attuazione dei vari progetti. È pure da notare che, allo scopo, gli insegnanti devono considerare la disciplina che insegnano non come «fine», bensì come «strumento». Circa «la scuola funzione del progresso economico», la rivista precisa che «non può voler dire solo preparare dei tecnici; bensì: la scuola deve essere la spina dorsale della formazione di una società in cui «anche» e non «soprattutto» il progresso economico è una componente. Una scuola dove si pensa per fare e non dove si fa solo per apprendere tecniche. «Una scuola di tale genere parte dal presupposto che l’individuo è una struttura compatta e unitaria di maturità personale e di competenza professionale. Pertanto, anche volendo, non è possibile ottenere un professionista adeguato alle esigenze della società, senza la realizzazione di un corrispondente sviluppo della personalità».

Risposte alla Raccomandazione n.2

Ferdinando Montuschi

Il quesito chiedeva di pronunciarsi sulla possibilità di «valorizzare ulteriormente il ruolo e la funzione educativi della scuola dell'infanzia valutando" se e in quale modo considerare la frequenza della scuola dell'infanzia triennale, che resta non obbligatoria e curricolarmente unitaria, come possibile credito ai fini del soddisfacimento di almeno un anno dei 12 di istruzione e/o formazione obbligatoria". Ciò anche allo scopo di non lasciare "minori" sul piano della qualità della formazione iniziale e della successiva carriera i docenti che insegnano in questo grado di scuola».

Le risposte a questa domanda risultano, in larga maggioranza, negative o piene di dubbi (27 su 38); 7 risposte sono positive, sia pure ponendo qualche condizione; altre non affrontano specificamente questo argomento ( S.na.i.p.o, Anp, Prisma, Cidi).

Le risposte che esprimono dubbi e concludono negativamente.

Uno dei dubbi ricorrenti riguarda l'impossibilità di convertire una esperienza liberamente scelta con una esperienza obbligatoria: «Lascia piuttosto perplessi l'ipotesi di "valorizzare" la frequentazione della scuola dell'infanzia triennale come credito da spendere negli anni dell'obbligatorietà. E c'è a nostro avviso da domandarsi se non rischia di diventare discriminatoria, se non altro, contraddittoria, l'accoppata "non obbligatorietà" e "guadagno" di un credito» (Sei).

In alcuni il dubbio nasce dal dover attribuire un credito solo alla frequenza, e non anche al risultato ottenuto da tale frequenza. A questo punto, si rileva che "la valutazione del percorso formativo finisce per diventare, inevitabilmente, una certificazione, concetto del tutto estraneo alla cultura pedagogica della scuola materna e rifiutato da tutti coloro che lavorano in questo ambito" (Di.s.a.l.) Il dubbio porta comunque verso risposte negative da parte di questa associazione: "… la riduzione del percorso di formazione di un anno (dai 13 attuali a 12) non ci pare renda così pressante la possibilità di un altro anno in meno. Ci pare che la valorizzazione della scuola materna, sia come frequenza che come realtà di docenti, si possa degnamente perseguire sia con una serie di incentivi alla frequenza stessa (oggi per molte famiglie i costi sono ancora un ostacolo) che con interventi sullo stato giuridico dei docenti".

Anche l'Aimc esprime molti dubbi e conclude negativamente: "Desta, però, non poche perplessità l'indicazione di considerare il credito come spendibile al fine della soddisfazione almeno di un anno dell'istruzione obbligatoria. La frequenza di una scuola non obbligatoria porterebbe, dunque, con sé lo "sconto" di un'annualità nell'assolvimento dell'obbligo stesso, senza poi considerare la complessità nel reperire affidabili procedure di fattibilità". Si rileva poi che "attualmente tutti i processi vanno nella direzione del superamento dell'idea di obbligo a favore del diritto al successo… proprio per questo è necessario non "toccare" l'obbligo scolastico, incastonato nel successo formativo".

Da qui, ancora una proposta: "Se proprio si volesse usare nel senso proposta dal Documento, la via del "credito", dovrebbe essere almeno non spendibile nell'arco dell'obbligatorietà, anche se non è facilmente prevedibile quale concreta attuazione possa avere (come presentare un credito conseguito a sei anni dopo un così lungo arco di tempo?)". Anche l' UCIIM è sulla stessa linea: "… l'ipotesi di "considerare la frequenza della scuola dell'infanzia triennale" come "possibile credito" apre una prospettiva interessante, ma suscita perplessità, perché non tutte le famiglie sarebbero in grado di apprezzare il beneficio della frequenza del triennio ai fini di una riduzione dell'obbligo formativo e perché non sarebbe facile stabilire dove "tagliare" l'anno corrispondente al credito conquistato, senza turbare la coerenza e l'equilibrio del curricolo. Sembra più lineare ed efficace rendere l'ultimo anno della scuola materna, non solo per il ricupero contabile di un anno d'obbligo, ma per il riconoscimento della possibilità di anticipare dei percorsi formativi che paiono possibili ai bambini d'oggi, senza snaturare il carattere educativo della scuola materna".

Analoghe perplessità vengono espresse dal Mce: "Ci lascia fortemente perplessi il cenno al considerare la frequenza della scuola dell'infanzia, che resta non obbligatoria e curricolarmente unitaria, come possibile credito senza alcun accenno alle linee di sviluppo previste dalla consultazione alla categoria del '99, alle sperimentazioni Ascanio ed Alice, al progetto Orme. Ci sembra forte il rischio di un anticipo che riporti alla vecchia concezione della "primina", sottraendo al bambino una esperienza fondamentale".

Anche la "Fondazione Nova Spes" esprime dubbi sulla proposta: "lascia, tuttavia, dubbiosi non sapere dove e quando tale credito possa essere speso. Se risultasse conveniente spenderlo solo (o prevalentemente) nel canale della formazione professionale ci sarebbe il rischio di rinforzare l'opposizione di quella parte dell'opinione pubblica che già si è espressa negativamente su questo punto".

Clotilde Pontecorvo a questo quesito risponde: "Data l'alta frequenza della scuola dell'infanzia per la fascia d'età interessata, non è chiaro in che modo viene utilizzato come credito, per chi, e in quale fase formativa".

Dubbi che portano verso una risposta negativa vengono espressi dalla Rivista "Tuttoscuola": "Considerando che la riforma del sistema di istruzione già di per sé ridurrebbe di un anno la durata complessiva degli studi, dai 13 attuali (6-19 anni) ai 12 previsti (6-18), sembra eccessivo consentire la riduzione di una ulteriore annualità della durata del percorso medesimo. A meno che non ci siano ragioni "forti" per giustificare tale bonus e condizioni valide per attuarlo: ragioni che oggi non sembrano bene individuabili, mentre le condizioni appaiono di difficile praticabilità". Fa seguito una proposta: l'istituzione di un "biennio ponte", tra l'ultimo anno dell'infanzia e il primo dell' elementare. "Il biennio ponte valorizzerebbe tra l'altro il ruolo degli insegnanti della scuola dell'infanzia e creerebbe le condizioni naturali per un riconoscimento di crediti formativi maturati, al fine di una accelerazione (meglio se immediata) del percorso scolastico".

Dubbi che conducono a risposta negativa vengono espressi anche da "L'educazione sostenibile .eco" che sottolinea come la proposta abbia "suscitato notevoli perplessità… I tassi di frequenza alla scuola dell'infanzia sono infatti già elevati e la strada per la loro ulteriore estensione è quella dell'allargamento del servizio su tutto il territorio nazionale. La strada dei crediti è già peraltro - molto opportunamente - praticata e a tutti i livelli del sistema di istruzione. Va da sé che una soluzione come quella prospettata non potrebbe essere applicata a "un" anno qualsiasi dei 12, ma non dovrebbe in ogni caso andare al di là del primo anno della scuola elementare". A questa opinione viene aggiunta una proposta: "una estensione dell'obbligatorietà (peraltro controversa) dell'ultimo anno della scuola dell'infanzia raggiungerebbe senz'altro lo scopo indicato dal punto in questione".

Anche la UIL si dichiara "abbastanza" convinta e pone alcuni condizioni. "Siamo abbastanza conviti dei benefici effetti che la scelta di considerarne la frequenza triennale credito per il completamento di 1 dei 12 anni della durata complessiva degli studi, ma reputiamo necessario riflettere attentamente sulle condizioni in cui questa frequenza viene effettuata; per la frequenza si potranno recuperare e pienamente valorizzare gli aspetti qualitativamente innovativi introdotti dalla Legge 30 del 10 febbraio 2000, in relazione agli standard di qualità della prestazione educativa, a cui si dovranno necessariamente adeguare tutte le scuole dell’infanzia sia che afferiscano al sistema pubblico, statale e non, sia che si ricolleghino al privato paritario, nelle modalità previste dalla Legge 10.3.2000, n°62. Altra condizione è determinata dalla necessità di non attribuire al credito acquisito nella scuola dell’infanzia il potere di abbreviare la durata del corso degli studi successivamente condotti nell’obbligo della scuola elementare quinquennale, né quale carta di completamento dell’obbligo dell’istruzione attualmente di 9 anni, ma solo in aggiunta ad esso".

Un numero rilevante di risposte esprime un netto giudizio negativo alla proposta, anche se propone il terzo anno obbligatorio. Le ragioni sono diverse e variamente argomentate.

Contrario alla proposta è l'Edav (N.Taddei) che ipotizza di rendere obbligatorio il terzo anno della Scuola Materna. "In questo caso, però, parrebbe scorretto sostituire con esso uno degli anni della Scuola Elementare. Nel caso quindi si pensasse opportuno rendere obbligatorio almeno l'ultimo anno della scuola della Scuola dell'Infanzia, questo dovrebbe premettersi e non sostituirsi a uno dei 12 anni del curriculum previsto; il curriculum quindi diverrebbe di 13 anni, partendo però da 5 anni".

Del parere di rendere obbligatorio il terzo anno della Scuola Materna è anche la Scuola elementare "Sacra Famiglia" di Trento che sottolinea: "Tuttavia non sembra opportuno considerare detto anno obbligatorio come facente parte del ciclo scolastico che dovrebbe iniziare con la prima elementare".

Anche l'Acr propone di rendere obbligatorio "almeno l'ultimo anno della scuola dell'infanzia… invece non sarebbe auspicabile che tale frequenza valesse come credito formativo; in tal modo, infatti, si accorcerebbero i tempi della permanenza scolastica a discapito della qualità e si renderebbero intercambiabili due anni che nel processo formativo individuale hanno un peso diverso".

Sempre nell'ambito dell'Acr, il Prof. Venturella offre un contributo in questi termini: "Il fatto che la Scuola dell'Infanzia rimanga non obbligatoria pone seri motivi di ipoteca per il riconoscimento della frequenza quale possibile credito formativo… Il fatto poi di considerare quale credito formativo la frequenza di tale scuola non "nobilita" i docenti. Contraria alla proposta, per ragioni diverse, è la "Rivista della Scuola": " Non ci convince la possibilità del credito di un anno da scontare nell'arco di 12 anni di istruzione perché la questione potrebbe creare abusi e malintesi per la probabile scorciatoia ad abbreviare di un anno l'obbligo scolastico". Quanto ai docenti si dovrà provvedere potenziando la loro formazione iniziale e garantendo alla loro carriera "lo sviluppo aperto nei vari ordini di scuola".

Si dichiara contraria alla proposta del credito formativo anche la rivista "I diritti della "scuola (Paolo Poggi). Si fa notare infatti che, rimanendo la Scuola dell'Infanzia non obbligatoria e curricolarmente unitaria "è poco condivisibile che la frequenza possa fare acquisire crediti spendibili ai fini del soddisfacimento di periodi (quali se non la prima elementare?) di istruzione obbligatoria. Nella pratica significherebbe anticipare il livello obbligatorio (prima?) oppure creare negli anni successivi, di nuovo, onde anomale. O, ancora, si indurrebbe le famiglie a considerare la Scuola dell'Infanzia una vera e propria istruzione obbligatoria".

La rivista "Rassegna dell'Istruzione" concorda sull'idea di valorizzare la Scuola dell'Infanzia ma, per quanto riguarda la proposta avanzata, fa notare: "Per evitare che la proposta del credito formativo da spendere nell'arco dei 12 anni (ma sarebbe più logico pensare che possa essere speso nell'arco della scuola elementare, contribuendo quindi a spezzare la così della "onda anomala") possa diventare un ulteriore elemento di discriminazione sociale, occorrerebbe porsi prioritariamente l'obiettivo di rendere omogenei gli standard qualitativi della scuola materna".

La rivista "Orientamenti Pedagogici" (C.Nanni e G. Malizia) si pronuncia in termini negativi con questi argomenti: "… ci pare non molto logico che il triennio della Scuola dell'Infanzia equivalga ad un anno della secondaria di secondo grado. Inoltre, non sembra che tenga molto la ragione che si vuole favorire quanti percorreranno il nuovo canale della formazione professionale a cui viene riconosciuta la possibilità di uscire un anno prima dai percorsi formativi; è discutibile che tale uscita sia un fatto positivo per chi avrebbe bisogno di più tempo per rinforzare la propria formazione. Ma soprattutto c'è da aspettarsi che una notevole percentuale di bambini, che si aggira attorno al 13%, non frequentando tutto o in parte il triennio della scuola dell'infanzia, venga messa nella condizione non democratica di non poter guadagnare alcun credito. E c'è da presumere che tale percentuale sia formata quasi del tutto da chi già subisce condizioni di svantaggio e in prospettiva temporale da chi sarà futuro allievo della formazione professionale".

Netto dissenso alla proposta viene espresso dal centro per la formazione e l'aggiornamento "Diesse. Didattica e Innovazione Scolastica" che chiarisce: Non ci pare del tutto motivata l'enfasi posta sulla possibilità di valutare come un anno del percorso i tre anni della materna: di fatto ciò si risolve nella possibilità di accorciare di un anno l'apprendistato, non essendo consentito ottenere diplomi di qualifica o finali sopprimendo un anello della catena".

La proposta del credito formativo non è condivisa dalla "Federazione Opere Educative" che fanno notare: " Il riconoscimento di credito ipotizzato va nella direzione di una obbligatorietà di fatto… Inoltre, l'importanza del credito di un anno formativo, rivelandosi utile solo ai fini dell'eventuale inserimento nel lavoro a 17 anni, andrebbe ridimensionata". Anche la Confindustria si pronuncia contro la proposta affermando: "… la priorità che consideriamo ineludibile è quella relativa alla garanzia di 12 anni di istruzione/formazione per tutti (dai 6 ai 18 anni), non l'inserimento quindi di una norma primaria nella riforma dei cicli scolastici. Da ciò discende che: - l'assolvimento di questi dodici anni di istruzione/formazione non sia uguale per tutti, ma consenta modalità diversificate, compresa la possibilità di assolvimento dell'obbligo di istruzione-formazione nei centri di formazione regionali".

Contraria alla proposta è anche l'Associazione Andis: "tale soddisfazione dell'obbligo può prefigurare un esasperato accorciamento dello stesso oppure un'espulsione precoce - proprio sul piano dei risultati - delle fasce deboli di popolazione scolare dal sistema di istruzione/formazione".

Il "Comitato Nazionale difesa Scuola Italiana (Cnadsi) esprime il proprio dissenso in questi termini: "… siamo contrari a configurarlo come "credito ai fini del soddisfacimento di almeno un anno dei 12…" , innanzi tutto perché si tratterebbe di un fatto puramente formale, poi perché, come sopra chiarito, siamo contrari ai 12 anni di obbligo, infine perché riteniamo la scuola dell'infanzia un angolo di vita, crescita e formazione della persona che andrebbe rispettata nella sua peculiarità e trattata senza preoccupazioni di ordine didattico o di collegamenti artificiosi ad altri gradi di scuola". Quanto poi al problema della valorizzazione del ruolo docente si afferma: "… pur trattandosi di una lodevole intenzione, non si vede quale rapporto possa esservi fra la preparazione dei docenti dell'infanzia… con la trasformazione del periodo di scuola dell'infanzia in "credito" da calcolare come il primo dei dodici di obbligo".

Particolarmente articolata è la risposta negativa alla proposta espressa dal Coordinamento Nazionale Presidi Incaricati (Conapi) che viene di seguito riportata. "Anche se, in linea di principio, concordiamo con l’idea di valorizzare il ruolo e la funzione della scuola dell’infanzia, tuttavia non ci sembra particolarmente felice l’ipotesi di considerare la frequenza di questa scuola come un possibile credito ai fini del soddisfacimento di almeno un anno dei 12 di obbligo.

Il concetto di “credito”, se ha un senso, deve rinviare a delle competenze acquisite e accertabili e deve avere un campo di applicazione ben delimitato, altrimenti si trasforma in una di quelle parole vuote di senso, buone per ogni tipo di operazione avventata. La proposta in questione, proprio perché giocata su un uso ambiguo della parola, può sembrare accattivante; in concreto sollecita, però, diversi dubbi e domande:

In conclusione, ci sembra che questa proposta sollevi delicati problemi di tipo organizzativo, pedagogico e, persino, giuridico, in quanto sembra creare discriminazioni sul piano dei diritti costituzionali tra i cittadini, dietro il paravento di una libera scelta. Ci sembra più logico, per valorizzare la scuola dell’infanzia, anticipare l’obbligo di un anno, prendendo tutte le misure per evitare un’eventuale “primina” e mantenere l’unitarietà del progetto (un biennio, più un anno di passaggio)."

Di parere contrario alla proposta è anche la CISL- Scuola: "L'ipotesi "credito" anche se può rappresentare un'interessante prospettiva, nelle condizioni attuali risulta difficilmente applicabile e praticabile… Lo Stato deve assumersi l'obbligo di rendere possibile il diritto all'accesso, per tutti e in tutte le realtà attraverso il superamento delle liste d'attesa. La validazione a livello nazionale di standard qualitativi e l'immediata revisione dell'ordinamento rappresentano il vero "accreditamento" formativo che distingue questa prima esperienza scolastica".

Il Coordinamento Genitori Democratici esprime "perplessità rispetto alla possibilità che la frequenza di uno o più anni della scuola dell'infanzia, possa costituire credito rispetto all'espletamento dell'obbligo formativo fino a 18 anni o essere interpretato come una surrettizia scorciatoia".

Legambiente, al riguardo afferma: "Questa ipotesi non ci convince per vari motivi:

Va inoltre considerato che tale modalità finirà per “svantaggiare” i ragazzi di quelle zone dove la Scuola dell’infanzia (pubblica o privata) non c’è, ovvero le zone più marginali e deprivate del Paese, le stesse dove già oggi il completamento dell’obbligo scolastico è difficoltoso.

Per valorizzare davvero la Scuola dell’infanzia meglio sarebbe inserire organicamente le scuole dell’infanzia negli Istituti Comprensivi, anche attraverso formule consortili tra scuole a gestione diversa (statali, comunali, confessionali, private, … ), con un unico Piano dell’Offerta Formativa, condiviso da tutti i soggetti consorziati."

Le risposte favorevoli alla proposta.

Alcune risposte risultano nettamente favorevoli alla proposta di riconoscere un anno di credito a quanti frequentano il triennio della scuola dell'infanzia e motivano in modo articolato le ragioni di questa scelta.

Largamente positiva, e senza riserve, è la risposta della rivista "Scuola Italiana Moderna". "La soluzione ipotizzata per raggiungere questi obiettivi (ovvero il riconoscimento del credito formativo pari ad un anno dei 12 di formazione/istruzione obbligatoria a fronte della frequenza dell’intero ciclo triennale) rappresenta – all’interno del sistema scolastico integrato – una soluzione originale da incoraggiare che merita di essere approfondita in tutti i suoi risvolti, anche di natura tecnica rispetto a cui questa rivista non vanta specifiche competenze. L’accredito di un anno (per quanto spendibile soltanto alla conclusione del ciclo formativo) appare una soluzione possibile e non equivoca che consente di ancorare con forza la scuola dell’infanzia al sistema nazionale scolastico, di incoraggiarne la frequenza (a fronte anche di un potenziamento dell’offerta), di far circolare nell’opinione pubblica l’idea dell’efficacia formativa della scuola dell’infanzia in quanto opportunità per procedere a precoci forme di decondizionamento".

Il Prof. Gaetano Bonetta, della Codissis, accetta la proposta: "… condivido pienamente la necessità di un obbligo dell'istruzione-formazione di 12 anni e la valorizzazione della scuola dell'infanzia, anche come credito spendibile ai fine di una abbreviazione della carriera scolastica generale".

Ugualmente la Fidae ritiene che la scuola dell'infanzia "possa essere considerata anche come credito formativo ai fini del soddisfacimento dei 12 anni obbligatori di istruzione e/o formazione".

Analoga risposta viene data dal Ciofs/Scuola Fma e dal Cnos/Scuola Sdb che ritengono che la proposta del credito "sia accettabile nell'ambito del diritto del minore… purché il minore abbia conseguito un diploma o una qualifica".

Vi sono poi consensi con precisazioni e riserve. La Fism, ad esempio "riconosce che l'ipotesi è nuova e non ha riscontri a livello ordinamentale anche in altri Paesi. Da qui l'esigenza della messa a punto, tramite alcune precisazioni, di garanzie che evitino possibili, successivi scivolamenti e sviluppi in direzioni diverse rispetto a quelle oggi in discussione.

La chiarezza può consentire di superare la problematicità e promuovere scelte condivise… .l'indicazione del credito formativo può comportare un'ulteriore spinta per la completa generalizzazione del servizio".

Favorevole alla proposta è l'Apef: "… si condivide l'opzione del credito formativo per l'espletamento del percorso obbligatorio". Tuttavia la proposta non è stata colta nella sua vera portata poiché si aggiunge: "Questo anche al fine di anticipare di un anno la scelta del tipo di studi secondari, ponendola, molto opportunamente, alla fine della terza media, piuttosto che, come avviene ora in maniera abbastanza priva di senso, dopo il primo anno di scuola superiore. Questa opzione, tuttavia, non può non prevedere l'inevitabile formazione delle classi per fasce d'età, quantomeno nell'ultimo anno".

Risposta favorevole con riserve viene espressa da "Scuola dell'Infanzia e La Vita Scolastica". "In linea di principio condividiamo l'idea di considerare la frequenza dei tre anni della scuola dell'infanzia come credito di un anno della scuola dell'obbligo perché questa dà finalmente alla scuola dell'infanzia il riconoscimento ufficiale della scuola vera: In questo modo lo Stato ne sancisce la sua validità con un atto ufficiale: un anno di credito nella scuola dell'obbligo… Metterlo in pratica e accordarlo al resto del sistema scolastico è un'operazione delicata e difficile, che non può essere lasciata nell'ambiguità e nell'incertezza, pena il suo fallimento. Quando si mette in discussione il sistema scolastico nel suo insieme si ha bisogno di certezze giuridiche".

Al riguardo si fanno due ipotesi: "… l'anno di credito per l'obbligo potrebbe essere speso o all'inizio o alla fine della scuola di base. Nel primo caso (inizio della scuola di base) avremmo il salto effettivo della prima classe… Nel secondo caso ( il credito d'obbligo speso dopo aver finito la scuola di base settennale) si creerebbe comunque un pasticcio: una buona parte dei ragazzi e delle ragazze frequenterebbero un solo anno del biennio della secondaria solo per finire l'obbligo scolastico. Sarebbe un anno speso male, un anno sprecato sul piano della formazione con tanti saluti alla qualità della scuola. Conclusione: l'ipotesi affascinante del credito d'obbligo della scuola dell'infanzia per essere speso in modo utile e intelligente, perciò, dovrebbe essere inserito in una strutturazione del sistema scolastico diverso da quello previsto dalla legge 30/2000".

Conclusioni

Le risposte al questionario sono in larga misura contrarie alla proposta, ma sembrano anche in molti casi fraintenderla e interpretare in modo distorto i suoi effetti concreti. Ai fraintendimenti si aggiungono forti dubbi e massicce opposizioni con argomentazioni fra loro molto diverse, puntualmente riportate nella presente relazione.

In linea di principio le risposte tendono ad apprezzare l'intenzione di valorizzante la scuola dell'infanzia lasciandola facoltativa, ma avanzano seri dubbi, ed anche marcate opposizioni, per considerare il credito di un anno valido per la riduzione di uno dei 12 anni obbligatori attualmente previsti. L'opposizione proviene prevalentemente da ambienti professionali, sindacali e dalle riviste scolastiche, fatta eccezione per la rivista "Scuola Italiana Moderna", "Scuola dell'Infanzia e La Vita Scolastica" e per la FIDAE. Non ci sarebbero invece obiezioni se il credito fosse semplicemente "aggiunto" e venisse considerato il tredicesimo anno di scolarizzazione per soddisfare il diritto alla studio. Da rilevare, comunque, il peso anche rappresentativo di pareri come quello della Fism e della Fidae, molto presenti nell’educazione infantile.

La proposta, nei termini in cui è stata avanzata, crea dunque interpretazioni ambigue, sospetti, fraintendimenti e consensi molto minori rispetto a quelli registrati nelle scuole e nei gruppi "focus" precedentemente condotti.

Risposte alle Raccomandazioni n. 3 e n. 4

Giorgio Chiosso

Prima di entrare nel vivo delle osservazioni formulate intorno al n. 3 e n. 4 (scuola 6-14 anni e “onda anomala”) delle proposte di lavoro affidate al Gruppo di lavoro per verificarne il grado di condivisione e le condizioni per la messa a regime occorre formulare qualche breve annotazione in premessa.

Va innanzi tutto segnalato che le risposte, pur numerose e in genere bene articolate, presentano tuttavia un andamento quantitativamente meno rilevante rispetto alla ben più abbondante mole di osservazioni e di indicazioni formulate a proposito del futuro assetto della scuola dell’infanzia e, ancor più, dell’organizzazione del cosiddetto “sistema duale” (scuola secondaria/canale della formazione professionale). Tale modesto (ma non insignificante) squilibrio può essere spiegato dal fatto che, tanto per la scuola dell’infanzia quanto per l’istruzione secondaria e professionale, le ipotesi presentate alla riflessione presentano notevoli punte di discontinuità rispetto alla situazione esistente (ed anche rispetto agli orientamenti prevalenti negli ultimi anni) con la conseguenza di meritare giustamente l’ampia attenzione loro riservata.

Si può immaginare che la minore attenzione riservata ai problemi della scuola tra i 6 ed i 14 anni sia da collegare alla soluzione più “continuista” (e dunque, in un certo senso, più scontata) di riproporre l’impianto scuola primaria quinquennale/secondaria di 1° grado triennale, pur collocato in un quadro in parte diverso dall’attuale, proponendosi infatti di salvaguardare alcuni condivisibili motivi educativi e formativi che sono stati alla base dell’elaborazione della legge n. 30/2000, ma al tempo stesso mediandone l’impatto con la complessità, la varietà e la frammentazione della realtà scolastica italiana specie nella fascia 3-14 anni.

Va peraltro rilevato che dalla lettura delle riflessioni formulate da gruppi associativi, riviste, ecc. si direbbe che soltanto una minoranza dei soggetti attivi nella scuola italiana abbia realmente creduto all’effettiva possibilità di mettere in atto il modello settennale, in così netta controtendenza con tutta la storia e la cultura scolastica degli ultimi decenni al punto da apparire non facilmente gestibile. Non a caso è risultata del tutto irrilevante, anche in questa consultazione, la quota delle risposte con proposte e soluzioni realmente praticabili su larga scala con cui fare fronte al fenomeno detto dell’”onda anomala”.

Continuità e flessibilità

Nell’entrare ora nel merito delle riflessioni e proposte occorre subito sottolineare come gli oltre 40 documenti (di varia estensione e di varia tipologia) che hanno affrontato e discusso i quesiti n. 3 e n. 4 si segnalino, nel loro insieme, per ampiezza di analisi, forza propositiva, volontà di partecipazione costruttiva alla delicata fase di transizione che percorre il sistema scolastico nazionale. La diffusa disponibilità all’innovazione graduale e guidata dal realismo delle cose che si “possono fare” (e non dall’utopia di quelle futuribili, salvo qualche isolato caso) documenta il grande serbatoio di buon senso e di passione educativa su cui, in specie, la scuola italiana può contare specie nei livelli inferiori dell’istruzione. In nessun caso la polemica politica prende lo spazio dell’argomentazione culturale e della proposta pedagogica, pur in quadro che per sfondi ideali e collocazione politico-sindacale si presenta, come è ovvio, largamente pluralistico, differenziato e in qualche caso addirittura frastagliato.

Se si dovessero indicare alcune categorie interpretative che percorrono la stragrande maggioranza degli interventi, si potrebbero individuarle nella diffusa condivisione dei princìpi di continuità e di flessibilità. Il principio di continuità, in particolare, costituisce una preoccupazione diffusamente presente nelle riflessioni di associazioni, sindacati, riviste professionali, ecc. Appare viva l’esigenza di assicurare un percorso educativo segnato dalla graduale evoluzione delle proposte curricolari in modo da promuovere quella che potremmo definire una “scuola dell’accompagnamento” nel senso di essere capace di stare “al fianco” degli allievi e delle famiglie e al passo con i tempi ed i ritmi della crescita degli alunni, senza anticipazionismi forzati, ma anche senza rinunziare a quei momenti di discontinuità che, come suggerisce tutta la migliore letteratura in materia, consentono di compiere “salti di qualità” nell’apprendimento e nella biografia personale e culturale di ciascun individuo.

Al principio di continuità si può accostare quello di flessibilità. E’ ricorrente in numerosi contributi il richiamo alla necessità che l’organizzazione della nuova scuola si svolga nell’orizzonte di una autonomia non soltanto formale o riduttivamente intesa come semplice decentramento, ma nei termini di una scuola capace di iniziativa propria, di porsi in ascolto delle esigenze educative delle famiglie, di interagire con gli “ambienti vitali” nel quale essa è inserita e con i quali è invitata, nella specificità delle competenze e delle responsabilità, ad interagire (su questo punto con particolare incisività si veda il documento dell’Anp). Non meno rilevante appare, come diretta conseguenza, la preoccupazione di superare l’unicità e la staticità del modello scolastico, con la possibilità di dar vita, ovviamente nel rispetto dei vincoli nazionali e dell’equità sociale, ad una molteplicità di piani di studio, modelli, esperienze per porre le condizioni minime per la “personalizzazione” del percorso scolastico degli alunni in stretta collaborazione con le famiglie.

Per completare il campo delle posizioni a questo riguardo va infine rilevato che nel coro dei consensi a sostegno dell’autonomia si alzano anche osservazioni critiche come, ad esempio, quelle di chi lamenta che l’autonomia tenderebbe a privare “l’insegnante della propria progettualità a favore di decisioni collettive del collegio docenti espresse nel Pof”, assumendo a modello preferibile quello delle scuole paritarie, capaci di “declinare una posizione culturale in una proposta didattica coerente” (cfr. il documento di Diesse- Didattica e innovazione scolastica).

Per la scuola di durata ottennale

Questi motivi in genere condivisi (anche se, come si dirà più avanti, non mancano alcune tesi modulate in forma diversa) si traducono tuttavia sul piano delle scelte progettuali in soluzioni differenziate, configurandosi, in particolare, tre principali orientamenti. Il primo orientamento (maggioritario in quanto a risposte pervenute) dichiara la propria sostanziale preferenza per l’impianto ottennale (con conseguente eliminazione automatica del problema dell’”onda anomala”) distribuito, in prevalenza, in un quinquennio di scuola primaria e in un triennio di scuola secondaria di I grado, nella prospettiva dell’unitarietà del piano degli studi per consolidare nell’alunno tutte le capacità di lettura e di analisi della realtà attraverso un itinerario che proponga la graduale scoperta delle conoscenze e il loro primo ordinamento.

Una variante all’articolazione 5+3 viene da quanti vedrebbero con favore l’ottennio articolato in due quadrienni, seguito da un ulteriore quadriennio secondario di II grado (modello 4+4+4, in tal senso vanno, con motivazioni diverse, le preferenze di Federazione Opere Educative, Disal-Dirigenti Scuole Autonome e Libere, Cnos-Ciofs, “ScuolaInsieme”). All’impianto ottennale si ispira anche la proposta di “Scuola dell’infanzia” e di “Vita scolastica”, ma con un’articolazione ulteriormente diversa, scandita su due bienni e un anno-ponte (scuola elementare) più un biennio e un anno di orientamento (scuola media), tutto all’interno di un unico contenitore che dovrebbe venire denominato “scuola di base” (la conservazione di questa denominazione anche nel caso di un’ipotesi ottennale è prospettata anche da Legambiente-Scuola e formazione).

Le motivazioni a favore dell’impianto su otto anni sono di varia natura come risulta dalle parole stesse dei documenti che ora citeremo in via meramente esemplificativa, senza alcuna pretesa di rendere conto della ricchezza delle analisi e delle argomentazioni addotte. In primo luogo sono enunciate ragioni di natura psicologica e pedagogica. La soluzione del settennio previsto dalla legge n. 30/2000 “comprimeva al suo interno un periodo troppo lungo della vita di un bambino in crescita, sacrificando sull’altare del ‘principio della continuità ad ogni costo’ la necessaria differenziazione tra i cicli che un sistema educativo di base deve rispettare, sapendo che si tratta di una condizione che risponde ad una logica psico-soggettiva propria dell’età evolutiva che da sempre caratterizza l’individuo e il suo divenire” (Cisl scuola). Unità e continuità, in quest’ottica, “devono prevedere una diversificazione articolata e graduale, rispettosa delle fasi dello sviluppo infantile e preadolescenziale” in modo da assicurare “continuità e unitarietà del contenuto e non tanto del contenitore del percorso” (Uciim, “Scuola e didattica”). Questa scelta non deve comunque “significare uniformità o livellamento verso il basso, ma al contrario capacità di far crescere il bambino e il ragazzo senza fratture, differenziando progressivamente i contenuti e le metodologie” (“Orientamenti pedagogici”). La scuola primaria e secondaria si distinguono in virtù del principio di sequenzialità evolutiva e non per logiche gerarchiche (non ci sono “conoscenze seconde” se non sono state prioritariamente bene impostate le “conoscenze prime”, ved. il documento di “Scuola italiana moderna”).

Altre motivazioni sono individuate “nel patrimonio di esperienza espresso dalla scuola elementare e dalla scuola media, ciascuna con i propri ordinamenti, piani di studio e organizzazione”, patrimonio “che non va disperso” (Conapi e altri), nella attuale diversa formazione degli insegnanti della scuola elementare e della scuola media, nella necessità di tenere realisticamente conto dei vincoli sul piano dei locali e della loro dislocazione territorio dell’offerta formativa (“nessuna rivoluzione dovrebbe investire sia l’edilizia scolastica sia il personale docente” come osserva, ad esempio, “La rivista della scuola” e altri).

L’impostazione dell’ottennio “differenziato” ordinamentalmente e “unitario” sul piano curricolare per essere realmente vincente deve essere sostenuta nella realtà della vita scolastica da interventi non solo a livello di professionalità docente, ma anche a livello di “sistema”. Occorre, cioè, mettere in atto strategie e vincoli normativi orientati a sorreggere ed a promuovere la sequenzialità senza fratture tra scuola primaria e scuola secondaria di I grado. In particolare risultano, a parere di numerosi contributi, necessarie la progressiva generalizzazione degli istituti comprensivi (ved. ad esempio quanto sostenuto da “La tecnica della scuola”, “Scuola.Insieme”, Andis e altri; su questa ipotesi concordano ovviamente anche i contributi favorevoli alla impostazione settennale), la diffusione di una mentalità comune di programmazione comune tra i docenti delle due scuole, la costruzione di piani di studio progettati sull’arco ottennale.

Più dibattuta appare la proposta dell’articolazione in bienni. Secondo alcuni questa scelta rischierebbe di frammentare eccessivamente il percorso (Cisl scuola), con il rischio di comprometterne l’unitarietà, per altri l’ipotesi del biennio dovrebbe restare a livello di proposta (dunque in forme non obbligatorie, cfr. “Orientamenti pedagogici”, “Scuola e didattica”), per altri ancora essa appare invece una novità foriera di risultati positivi, consentendo di dilatare opportunamente nel tempo i processi di apprendimento (Andis, Apef, Fidae, Filins, “Tuttoscuola” e altri).

Ampiamente condivisa appare, invece, l’esigenza che sia più significativa ed incisiva di quanto non accade oggi la funzione orientatrice della scuola media e, in particolare, del biennio conclusivo in modo da far “toccare con mano” la realtà delle diverse prospettive future. Sottolineano con vigore questo aspetto l’Uciim (con l’avvertenza che le differenti esperienze maturate in questo ciclo non siano vincolanti per le scelte successive), le riviste “Tuttoscuola”, “I diritti della scuola”, “Vita scolastica” (quest’ultima indicando la sola classe 3a media come “anno di orientamento”) e l’Anp che, pur non senza entrare nel merito dell’ingegneria della riforma, rivendica uno stretto nesso tra orientamento ed efficacia delle cosiddette “passerelle” tra canale dell’istruzione e canale della formazione professionale.

Alcuni snodi critici

Dobbiamo ora tenere nel debito conto alcune preoccupazioni espresse da quanti, pur favorevoli in via generale all’impostazione sugli otto anni, richiamano l’eventualità che i buoni propositi di continuità e di organicità enunciati in via di principio possano essere di fatto frustrati dalle rigidezze istituzionali ed ordinamentali.

Non pare di poter intravedere in queste posizioni soverchie nostalgie per l’impianto settennale, ma al tempo esse sottolineano i potenziali punti deboli della soluzione ottennale. In primo luogo alcuni interventi sottolineano i rischi di debolezza, se non bene definito, del terzo biennio (5a elementare/1a media). Questo timore è efficacemente espresso, per esempio, dalla redazione di “Scuola viva”: “L’ipotesi di una scansione biennale lascia, se letta sulla griglia dell’attuale scansione elementare e media, una perplessità su quel punto di snodo (terzo biennio) posto a cavaliere tra i due segmenti. Crediamo sia lecito chiedersi: dove e come avviene il ‘passaggio’ fra ambiti disciplinari e discipline? Quale l’interazione fra i docenti?” (con toni analoghi anche il Consiglio Ssis del Lazio, l’Aimc e Legambiente- Scuola e formazione).

Alcuni contributi si propongono di non lasciare in sospeso l’interrogativo. Secondo la redazione di “L’educazione sostenibile. Eco” si tratterebbe si lavorare “sulle procedure di gestione del passaggio che dovrebbe vedere la duplice e sinergica azione dei docenti dei due cicli che si succedono”, magari mediante una “esplicita negoziazione tra le aspettative ed i requisiti ritenuti necessari dai docenti del segmento inferiore e di quello superiore”. Su una lunghezza d’onda analoga si pone anche la rivista “ScuolaInsieme” mentre “Vita scolastica” ritiene che il problema potrebbe essere risolto immaginando il solo 5° anno della scuola elementare come “anno ponte”.

Ulteriori perplessità vengono manifestate da “Tuttoscuola” che si chiede se la rigidezza istituzionale dei due cicli ordinamentalmente distinti non rischi di “vanificare l’intento unitario e di depotenziare i raccordi verticali dei piani di studio e la continuità del sistema”.

Analoghe preoccupazioni vengono espresse dalla “Rassegna dell’istruzione”.

Un’ulteriore accentuazione critica si può leggere nelle posizioni dell’Aimc che, mentre si dichiara favorevole a “ricercare soluzioni che non lascino cadere guadagni faticosamente conquistati”, lamenta l’ambiguità dei concetti di “primario” e “secondario” che, presenti dentro un unico segmento, indurrebbero ad una lettura “nuovamente gerarchizzante”. Oscuro concettualmente e di complessa gestione apparirebbe, in particolare, il terzo biennio già sopra richiamato.

Per la scuola della continuità lunga (3-18)

L’analisi dei documenti fatti pervenire al Gruppo di lavoro consente di definire un secondo orientamento che si pone in un orizzonte culturale e pedagogico del tutto diverso da quello fin qui presentato. Questa posizione ritiene che il processo riformatore si debba svolgere in una prospettiva accentuatamente unitaria dai 3 ai 18 anni e, per lo più, secondo la sequenzialità scandita dalla legge n. 30/2000 ovvero triennio di scuola dell’infanzia (senza tentazioni anticipanti), settennio di scuola di base, ulteriore biennio di compimento dell’obbligo d’istruzione ed infine triennio secondario superiore.

Secondo il documento della Cgil-scuola “il superamento delle attuali cesure e delle tradizionali gerarchie della scuola degli ordini e gradi costituisce la condizione essenziale affinché ogni tappa del percorso formativo diventi fonte di apprendimento per quella successiva. Un percorso unitario, continuo e progressivo, non può essere la semplice somma dei due vecchi modelli scolastici perché le cesure derivanti dalle diverse organizzazioni didattiche rappresentano l’aspetto sostanzialmente negativo dell’attuale discontinuità”. Su posizioni sostanzialmente coincidenti si pongono anche il Coordinamento Genitori Democratici e il documento del Cidi (si precisa che quest’ultimo, a differenza di altri organismi, svolge considerazioni di carattere generale e non entra, se non indirettamente e solo per alcuni punti, nello specifico del questionario proposto). Fino ai 15 anni, secondo queste tesi, occorrerebbe lavorare in stretta continuità con la scuola di base, sviluppando le conoscenze e le competenze essenziali allo sviluppo dello spirito critico e all’esercizio attivo della cittadinanza.

Anche in ordine all’ipotesi della flessibilità e della personalizzazione dei percorsi scolastici la Cgil-scuola manifesta riserve nel timore che le tali esigenze si traducano nell’obbligo a soddisfare qualsiasi richiesta dell’utenza “con il rischio di trasformare le scuole in un supermercato dell’offerta formativa”.

Su posizioni analoghe, anche se sfumate in modo diverso e giustificate con motivazioni non del tutto coincidenti, si collocano inoltre i contributi del Movimento di Cooperazione Educativa e dell’Unicobas. Per quanto riguarda il MCE, l’articolazione del percorso 3-18 anni è scandita nelle seguenti fasi: 3-8 anni, 8-15 anni e 15-18 anni, ciascuna coincidente con un momento dello sviluppo del soggetto che supera le stadialità tradizionali e segnata da esperienze cognitive, culturali ed affettive specifiche. Nel caso dell’Unicobas si segnala la preferenza per un settennio modellato 5+2, con estensione dell’”obbligo vero” fino al 18° anno.

Contro l’eccesso di continuità ed unitarietà (e per una precoce scelta)

Specularmente opposte alle tesi della massima continuità ed unitarietà si pongono le riflessioni (siamo così giunti al terzo orientamento che emerge dalla consultazione) di quanti sono invece convinti che occorra invertire o correggere la tendenza verso un sistema scolastico ispirato al principio della continuità e non condizionato (o non troppo condizionato) da fratture di sistema che inquinerebbero in modo negativo i risultati scolastici e determinerebbero ancora troppo numerosi ritardi scolastici. Secondo le posizioni che ora si illustrano continuità, unitarietà e progressività non sarebbero ad adattarsi al principio della scuola di significativa qualità culturale che dovrebbe connotare la scuola secondaria di secondo grado.

Nel caso dell’associazione Diesse-Didattica e innovazione scolastica il biennio conclusivo della scuola media per essere “realmente orientativo dovrebbe avere una quota oraria elevata da dedicare alle materie di indirizzo del proseguimento scelto e consentire lo svolgimento di tutte o parti delle materie anche fondamentali a seconda dei diversi livelli e dei pre-requisiti richiesti… e quindi differenziare all’interno delle classi a seconda delle scelte”. Tesi analoghe sono sostenute anche da Prisma secondo cui “l’ultimo biennio della scuola dell’obbligo non deve essere generico e superficiale nell’approccio, ma deve mirare alla conquista di conoscenze ed abilità chiare e determinate, atte a prefigurare e motivare le scelte successive”.

Ancora più nettamente avversa al principio della continuità e del raccordo tra i livelli scolastici inferiori appare la posizione del Comitato nazionale difesa scuola italiana (Cnadsi) che si dichiara contrario a qualsiasi processo di soluzione unitaria tra scuola primaria e scuola secondaria di I grado, dichiarando che “dopo un periodo massimo di cinque anni di unitarietà, la possibilità di canali diversificati… sia un dovere sociale, sia un effettivo e non solo teorico e fumoso rispetto per la persona di ognuno”. In tal modo tutti i preadolescenti sarebbero posti nella effettiva condizione di “orientarsi e di scegliere la strada per tempo”.

Una breve conclusione

Le risposte pervenute restituiscono la variegata geografia delle posizioni in campo sulla strategica questione del rapporto tra le attuali scuola elementare e scuola media (e, conseguentemente, sull’opportunità e praticabilità della soluzione settennale disegnata dalla legge n. 30/2000) con una maggioranza contraria sulla scelta compiuta dal governo di centro-sinistra e favorevole all’autonomia delle due scuole pur in una logica di sinergico rapporto, e due minoranze, specularmente opposte tra loro (i continuisti/unitaristi ad oltranza e gli anti-continuisti/unitaristi).

L’orientamento maggioritario per una soluzione che non sconvolga l’assetto attuale, ma che al tempo stesso inneschi un processo di cambiamento, è giustificato dall’intreccio di considerazioni psicologiche e pedagogiche e la presa d’atto di situazioni non facilmente modificabili nel breve periodo (differente status giuridico dei docenti primari e secondari, situazione edilizia, distribuzione sul territorio dei plessi scolastici, ecc.).

Non mancano anche ragionevoli preoccupazioni, come abbiamo segnalato, per scongiurare soluzioni gattopardesche con la messa in opera di un progetto distinto sul piano ordinamentale e unitario su quello del piano di studi secondo una prospettiva “verticale” e progressiva. La visione critica dei problemi e delle strategie politiche (e, in particolare, politico-scolastiche) fa tuttavia parte del corredo di qualsiasi atteggiamento riformatore.

Risposte alla raccomandazione n. 5

Silvano Tagliagambe

La domanda, sottoposta all’attenzione dei destinatari della lettera-questionario, era la seguente: “progettare una scuola secondaria superiore di elevata qualità culturale ed educativa, prevedendo anche la possibilità di completarla con eventuali anni di specializzazione non universitaria”.

L’obiettivo di “progettare una scuola secondaria di elevata qualità culturale ed educativa” è, ovviamente, condiviso da tutti. Diverse risposte mettono comunque in rilievo che si tratta di una finalità generale – se non generica-, la cui valutazione dipende dalle soluzioni che vengono scelte per dare concreta attuazione ad essa. Il riferimento alla possibilità di completare il percorso anche con anni di specializzazione non universitaria non sembra essere stato molto compreso dagli interlocutori e comunque solo una minima parte di essi si sofferma su questa parte della proposta..

La quasi totalità delle risposte si concentra su due aspetti, il primo dei quali che non era presente in modo esplicito nella domanda così come veniva formulata, vale a dire la durata del ciclo della scuola secondaria, mentre il secondo risultava dall’accostamento tra la proposta di cui stiamo parlando e la successiva, quella relativa all’identificazione di un percorso di Formazione professionale parallelo a quello scolastico ed universitario.

L’orientamento della lettera-questionario verso un’ipotesi di durata quadriennale della scuola secondaria era facilmente desumibile dal complesso dei 9 punti in essa contenuti, in particolare dal riferimento a un obbligo di 12 anni di istruzione e/o di formazione per tutti, combinato con l’ipotesi di una scuola dai 16 ai 14 anni, unitaria, continua e progressiva e articolata in una scuola primaria quinquennale e in una scuola secondaria di I grado triennale.

Le risposte prese in considerazione –quaranta- sono quelle pervenute alla data del 13/11. Per le ragioni esposte esse debbono essere valutate, più che rispetto ai due punti che la domanda, così come era formulata, sottoponeva in modo diretto all’attenzione dei destinatari, guardando piuttosto alle reazioni agli altri due aspetti evidenziati, quelli relativi, rispettivamente, alla durata della scuola secondaria e alla sua relazione con il percorso della formazione professionale. In particolare, essendo la valutazione delle reazioni all’ipotesi di un percorso di formazione professionale distinto da quello scolastico, anche se integrato con esso a livello di funzioni di sistema e ad esso pari in dignità culturale ed educativa, oggetto di un’analisi specifica, qui si concentrerà l’attenzione sulle risposte riguardanti la durata della scuola secondaria superiore.

Con riferimento a questo specifico aspetto, le risposte pervenute possono venire raggruppate secondo la seguente tipologia di adesione/non adesione:

8. semplice condivisione dell’ ipotesi, così come sono viene formulata;

9. condivisione, ma a determinate condizioni, che vengono specificate a volte in modo dettagliato:

10. forte problematizzazione, che si spinge a volte sino a un reciso rifiuto della proposta.

Analisi delle risposte

Indicativa della prima tipologie di risposte può essere considerato l’atteggiamento dell’UCIIM, che si dice preoccupato della riduzione del ciclo secondario di II grado a 4 anni, ma mette nel contempo in evidenza le difficoltà e i problemi che scaturirebbero da altre soluzioni. In generale si può dire che l’ipotesi prospettata viene accettata da coloro che condividono l’idea che a 18 anni un giovane debba avere oggi la possibilità di iscriversi all’università o di iniziare a frequentare un corso di formazione professionale superiore e, nel contempo, si oppongono alla riduzione di un anno del percorso scolastico che precede la scuola secondaria superiore, comunque questo venga concepito e articolato al proprio interno. L’adesione è dunque generalmente il risultato dell’accettazione del doppio vincolo della fissazione a 12 anni dell’obbligo di istruzione e/o formazione e a 8 anni della scuola di base. Alcune risposte, in questo quadro, fanno riferimento all’importanza che può avere, nell’ipotesi di sistema presentata, una forte caratterizzazione in chiave orientativa dell’ultimo biennio della scuola secondaria di I grado, senza che ciò comporti alcuna forma di canalizzazione precoce.

Nettamente maggioritaria, rispetto alla semplice adesione incondizionata, è la subordinazione dell’accettazione di questa proposta a condizioni che spesso risultano contrastanti tra loro. La differenza di posizioni verte, in particolare, sulla natura del biennio iniziale della secondaria, che secondo alcuni deve avere un carattere comune e unitario per tutti gli indirizzi, o almeno, prevedere, al proprio interno, un anno di orientamento e di approfondimento culturale uguale per tutti (questa, ad esempio, è la posizione della Confapi e di ‘Rivista della scuola’), mentre secondo altri (Prisma e ANP) deve invece essere caratterizzato da un approccio e da una connotazione fortemente disciplinare e da una chiara distinzione dei percorsi.

Altre risposte, come quella della Conapi, vincolano l’accettazione della riduzione a 4 anni della scuola secondaria superiore a un incremento a 4 anni della durata della scuola media o (è il caso del Movimento studenti di Azione Cattolica) al completamento del ciclo di 4 anni della secondaria superiore con specializzazioni universitarie e non.

Le problematizzazioni della proposta presentata si basano spesso sul rifiuto del vincolo di una durata identica per tutti i percorsi della scuola secondaria superiore e sull’adesione all’ipotesi di una differenziazione degli indirizzi anche sotto questo profilo. Tuttoscuola ritiene che non si debba dare per scontato questo vincolo e prospetta la possibilità che in taluni casi la durata possa essere estesa a 5 o anche a 6 anni. Questa è anche la linea di Diesse, che propone in modo esplicito l’ipotesi che liceo classico e scientifico possano aver bisogno di un quinto anno. Anche la CISL ritiene che non si debba fissare necessariamente al diciottesimo anno d’età la conclusione dell’obbligo formativo e propone una scuola secondaria superiore di durata quadriennale o quinquennale, articolata in un biennio orientativo, con una pluralità di filiere tra le quali assicurare comunque un’effettiva possibilità di passaggio, e in un biennio o triennio di specializzazione.

Ci sono infine le posizioni nettamente contrarie alla riduzione a quattro anni, comunque presentata, del ciclo della scuola secondaria superiore, come quelle della CGIL, che ripropone l’articolazione in una scuola di base di 7 anni a cui far seguire una secondaria di 5, e dell’Opera Nazionale Montessori, seconda la quale la soluzione migliore sarebbe un quinquennio di secondaria superiore, articolato al proprio interno in un biennio con un curricolo comune e in un triennio differenziato in indirizzo umanistico, indirizzo scientifico e indirizzo tecnico-professionale.

La UIL scuola, che si esprime a favore dell’estensione a 4 anni della scuola secondaria inferiore e della riduzione a 3 della superiore. A se stante, rispetto a questo quadro, la posizione dell’MCE, che propone un curricolo unitario scandito in 3 fasi: tre-otto anni, comprensiva della scuola dell’infanzia e del primo biennio della scuola di base; otto-quindici, che comprende la prosecuzione e il termine dell’obbligo di istruzione e connette la parte finale della scuola di base con il biennio unitario della secondari; la fase quindici-diciotto, con cui si conclude la secondaria o, in alternativa, l’obbligo formativo generalizzato.

Risposte alla Raccomandazione n. 6

Michele Colasanto

Le risposte prese in considerazione – quaranta – sono quelle pervenute alla data 13/11 e che hanno elementi che concernono l’ipotesi-vincolo sopra ricordata. Indicativamente possono essere raggruppate secondo la seguente tipologia di adesione/non adesione:

a) - semplice condivisione dell’ipotesi così come è stata formulata (cinque risposte)

b) - rifiuto, o forte problematizzazione dell’ipotesi stessa (nove risposte)

c) - condivisione, ma con motivazioni e condizioni diverse (diciotto risposte)

Un quarto gruppo di risposte ha peraltro mostrato di non aver compreso il senso della proposta (sono cinque), identificando ad esempio il “canale” della formazione professionale tout court con le esperienze regionali e/o dell’apprendistato. I punti di seguito affrontati vertono pertanto soprattutto sulle risposte problematiche e su quelle che mostrano condivisione argomentata.

La condivisione della proposta

Ragioni, modalità, condizioni, limiti di un percorso “forte” di formazione professionale che aggreghi l’offerta formativa a valenza dichiaratamente professionalizzante.

Le ragioni. In termini generali l’accettazione del percorso di formazione professionale, così come proposto, si appoggia: all’esigenza di diversificare l’offerta formativa e di recuperare esperienze che hanno radici storiche nel nostro paese, e che sono cadute nella trappola della liceizzazione, alla opportunità di recuperare valenza educativa alla stessa esperienza di lavoro, trasferendola quindi anche nei sistemi formativi, alla persistente domanda di questo tipo di formazione da parte del sistema produttivo, che anzi lamenta una caduta di attenzione verso un fattore di qualità del lavoro (l’istruzione tecnica e quella professionale) indispensabile per sostenere la competitività. Per altro verso, la formazione professionale – si afferma - risponde a un’esigenza degli stessi giovani (e delle loro famiglie) quando manifestano propensioni e valori che possono essere soddisfatti solo da esperienze formative più direttamente connesse al fare e al pensare induttivamente.

Le modalità. Più che sulle ragioni, le risposte positive si sono però soffermate sulle modalità e sulle condizioni, anche se il tono complessivo di tali risposte è, sul punto, piuttosto generale (e generico). D’altra parte l’ipotesi risulta anch’essa formulata in termini generali, senza riferimenti specifici al “disegno” istituzionale così come è stato esposto nei Focus group.

Un primo aspetto delle modalità preso in esame è quello della terminalità della formazione professionale, condivisa in genere nel livello della qualifica, e del diploma e che qualche risposta ha proiettato anche sul diploma superiore (ad esempio FIDAE, Scuola e Didattica, Orientamenti Pedagogici), ma questo segmento è risultato trascurato; scarsa è stata anche la percezione di una sua alternità (concorrenzialità) rispetto all’università. Gli atteggiamenti più significativi emersi sono stati, da un lato, il rifiuto di un’eccessiva diversificazione anche all’interno della formazione professionale (ad esempio La Rivista della Scuola), dall’altro la richiesta invece di micro-specializzazioni già al termine del percorso di base, e non tanto nella formazione superiore, così come auspicato dai sostenitori dal primo di tali atteggiamenti (Ass. insegnanti Istituti Professionali Alberghieri).

Peraltro è emersa a questo riguardo anche la necessità di tenere distinto, rispetto all’articolazione del “canale”, istruzione tecnica e istruzione professionale (identificata negli IPS e nella formazione professionale regionale): così Rassegna dell’istruzione, Agesc, Associazione Nazionale Presidi.

L’apprendistato ha ricevuto solo qualche cenno di riscontro, mentre è stata ricordata (da qualcuno soltanto in verità) l’importanza di un percorso in alternanza, anche fuori dall’apprendistato.

Invece è diffuso il richiamo ai tirocini e agli stage, quali modalità essenziali del fare formazione professionale, così come è stato egualmente sottolineato il problema di dare omogeneità, sul piano nazionale, ai titoli rilasciati.

Un accenno è poi stato fatto sia al problema della formazione dei docenti della formazione professionale, sia alla necessità di valorizzare, e non mortificare, l’effervescenza di questi anni che comunque ha prodotto innovazione, capacità di sperimentazione, raccordi efficaci con il mondo del lavoro (in particolare Rassegna dell’Istruzione).

Due proposte interessanti sono venute dall’Associazione industriale di Brescia, che ha proposto la formazione professionale come occasione per realizzare esperienze di eccellenza attraverso la rottura dei gruppi classe, per valorizzare i più dotati; e dall’Opera Montessori, che ha invitato a raccordare gli obiettivi di eccellenza alla possibilità di agganciare alla formazione professionale centri di ricerca e innovazione.

Da più parti si è altresì sottolineata l’opportunità, ed anzi la necessità, di costruire il sistema della formazione professionale nella prospettiva della formazione continua e dell’educazione dell’adulto.

Un’ultima annotazione: i quattro anni di percorso ordinario (qualifica + diploma), non sono stati esplicitamente messi in discussione, ma neppure sempre esplicitamente condivisi; anzi in più di un caso si afferma o si lascia intendere l’opportunità di conservare percorsi anche quinquennali.

Quanto alle specifiche artificazioni di cui potrebbe comporsi la formazione professionale, si preferisce talvolta identificare quest’ultima soprattutto negli IPS e nella formazione professionale regionale, mentre piuttosto in ombra resta l’apprendistato (che comunque viene proposto, in particolare dal CNOS-FAP decontrattualizzato sotto i 18 anni e contrattualizzato invece sopra).

Le condizioni. A scavalco tra modalità e condizioni, sta il richiamo, molto sottolineato, alla necessità che la formazione superiore operi secondo logiche di integrazione rispetto agli altri canali della secondaria (ed anche dell’università).

“Passerelle”, ovvero recupero delle conoscenze, riconoscimento di crediti, valenza strutturalmente orientativa del primo o dei primi due anni di tutta la secondaria, costituiscono temi frequenti, nelle risposte; temi che vengono giustificati sia con l’opportunità di rendere non irreversibili le scelte, sia al fine di “agganciare” la formazione professionale ai caratteri ritenuti distintivi della “secondarietà”: sistematicità, riflessività, criticità (così UCIIM, Orientamenti Pedagogici, Associazione Nazionale Presidi). Si vuole una formazione professionale che assicuri comunque una solida formazione di base, che valorizzi le peculiarità umanistiche e scientifiche della nostra tradizione, che sia in grado di offrire una “tenace capacità critica” (Scuola Viva) e per questo diversi soggetti chiedono che, come si è ricordato al punto precedente, i percorsi non siamo troppo settorializzati. C’è però anche chi intravede i rischi di un appiattimento del “secondo canale” su contenuti e soprattutto strutture di apprendimento così indifferenziati da rendere nuovamente reale il rischio di una licealizzazione (Dirigenti scuole libere ed autonome). Nell’ambito di un “sistema scolastico e formativo differenziato”, occorrerebbe piuttosto individuare il profilo specifico della formazione professionale, che dovrebbe essere proposta secondo principi di “autonomia pedagogica, istituzionale e organizzativa” (Conferenza permanente delle autonomie).

A maggior ragione, però, scontata l’identità specifica della formazione professionale, occorre recuperare quest’ultima ad una visione integrata del sistema formativo, che allontani ogni rischio di impostazione rigidamente duale (Associazione Nazionale Presidi, Movimento Studenti di Azione Cattolica, Confapi).

L’integrazione, anzi, dovrebbe poter significare anche l’inserimento dei percorsi formativi professionali in una visione armonica di tutta la scuola.

In questa prospettiva, è accettabile anche “l’obbligo scolastico” a 14 anni; meglio un obbligo formativo di 12 anni dove, con l’ovvio supporto di un orientamento efficace, si scelga, a tale età, in quale scuola secondaria si intende proseguire.

Se l’integrazione è la condizione posta in modo prevalente, si sostiene altresì che la formazione professionale dovrebbe essere valutata sistematicamente, ed essere organizzata secondo le competenze delle regioni; ma su questo punto c’è da registrare qualche dissenso (ad esempio parte di Associazione professionale Europa formazione).

Il rifiuto

Il numero delle risposte che mettono in discussione la proposta, in termini più o meno radicali, è meno della metà di coloro che la accettano, ma va sottolineato che tra gli “oppositori” vi sono soggetti di rilevanza sociale significativa, come Confindustria, la CGIL, la UIL, la CISL, anche se quest’ultima tende a valorizzare altri aspetti delle ipotesi di riforma ed è comunque la più vicina.

Tra i maggiori critici c’è anzitutto chi non crede alla possibilità di integrare la formazione professionale regionale e l’apprendistato nell’ambito di percorsi di pari dignità con la scuola: è la valorizzazione estrema della “secondarietà” (o la persistenza di una visione scuolacentrica).

In questa prospettiva peraltro sembra muoversi, ma in modo ovviamente più problematico e avvertito, chi, come Confindustria accetta che la formazione professionale regionale possa essere spesa nell’obbligo (anche scolastico), ma chiede attenzione alla formazione di base a alla istruzione tecnica, dichiarata di forte gradimento da parte delle imprese e – si afferma - da ricondurre alla impostazione originaria, non liceizzata. Per altro verso il “canale” della formazione professionale viene rifiutato per ragioni sociali: appare dicotomizzare eccessivamente il sistema formativo, e preconizzare (condizionare) il destino professionale e culturale dei giovani; tanto più se la scelta viene effettuata troppo precocemente, a 14 anni, mentre si dovrebbe arrivare ormai ai 16 (CGIL, CIDI). In chiave di efficacia organizzativa, e di costruzione dei curricula, si sostiene invece una specifica accezione di integrazione: la formazione professionale non è “un canale” dotato di una propria specificità; è un insieme di opportunità che si intrecciano a vari livelli con i percorsi scolastici e li completano in senso professionalizzante, anche nel caso della formazione professionale superiore. La quale però, sempre con riguardo al “valore” dell’integrazione, dovrebbe poter raccordarsi all’Università; non competere con essa, e raccordare tutti i soggetti coinvolti secondo l’esperienza degli IFTS (ancora CGIL, CIDI).

La problematizzazione della formazione professionale così come proposta risiede anche nelle rigidità (dualismo) che essa indurrebbe nell’offerta formativa e nel non rispettare le specificità positive delle nostre scuole.

In questo senso si vuole un sistema formativo allargato, plurale, integrato ma unitario (CISL), articolato anche nella sua durata (quattro e/o cinque anni) e sostenuto da un obbligo scolastico, meglio da una scelta da compiersi a 15 o anche 16 anni(secondo l’ipotesi di un biennio a valenza orientativa nei licei, ma anche negli istituti tecnici e nella formazione professionale regionale: percorsi tutti che vanno rispettati, fin dall’inizio nella propria specificità, ma raccordati sul piano dei “saperi minimi di cittadinanza”.

Un ultimo aspetto messo in discussione (ancora da Confindustria) concerne il livello della qualifica, ritenuto rischioso (una pericolosa “scorciatoia” verso il mercato del lavoro) e inutile (il concetto di qualifica sarebbe ormai obsoleto). Nuovamente in ombra appare l’apprendistato, anche nei rilievi critici degli “oppositori”, mentre viene auspicata la generalizzazione dei tirocini (gli stage o tirocini di formazione secondo l’attuale normativa; e i tirocini di inserimento lavorativo, post-diploma o postlaurea).

Considerazioni di sintesi.

Se si ritiene opportuno valutare la proposta di un percorso di formazione professionale distinto dell’istruzione dai 14 ai 21 anni, alla luce, oltre che di una coerenza interna, anche di una coerenza esterna (giudizi, valutazioni, attese degli “attori” interpellati), si può dire che:

Risposte alla Raccomandazione n. 7

Giuseppe Bertagna

La materia oggetto della Raccomandazione era incandescente. Da un lato si collegava all’autonomia. L’autonomia reale e quella legale (cfr. la Raccomandazione successiva). Dall’altro, allo sconvolgimento di competenze introdotte, su questo tema, dalla legge 18 ottobre 2001, n. 3 che riscrive il Titolo V della Costituzione. Le risposte, tuttavia, hanno perlopiù sorvolato su questi intrecci problematici e si sono poste su un piano molto più generico. Né ha suscitato attenzione l’accenno alla necessità di una «maggiore verifica comparativa nazionale dei risultati di apprendimento».

L’ottica degli studenti

L’Acr teme che l’autonomia, se da un lato può garantire, almeno nelle intenzioni, una maggiore flessibilità di lavoro, la sicurezza di un attenzione maggiore ai ragazzi, dall’altro si possa tradurre in una scappatoia per fare ciò che si vuole. Per questo ritiene «necessario garantire un uniformità che in passato voleva essere assicurata dall’uniformità dei programmi, ora quello che deve essere unitario e comune è l’interesse per la vita dei ragazzi la conoscenza dei loro ambiti, ambienti di vita ma garantendo a tutti i bambini e ragazzi italiani le stesse opportunità formative, gli stessi mezzi, gli stessi strumenti, le stesse competenze, un ‘minimo’ irrinunciabile, per tutti; quale sia il valore soglia sarà la scuola a dirlo ma non da sola :con i genitori, gli studenti, gli insegnanti, ma anche, ci piacerebbe, le realtà educative che sul territorio possono dire e far sentire, risuonare, il pensiero ,la voce dei ragazzi»

Per il Msac i piani di studio devono essere snelli e compatibili con le reali possibilità di apprendimento degli studenti. «Bisogna far riferimento ai nuclei essenziali, eliminando il vuoto nozionismo e l’enciclopedismo. Deve essere lasciata possibilità alla scuola di integrare il curricolo nazionale con lo studio di discipline coerenti con specifici bisogni formativi. Il monte-ore settimanale deve essere contenuto, evitando la parcellizzazione dell’orario tra molte discipline, che potrebbero essere accorpate per aree. Vanno valorizzate le esperienze orientative anche con contatti costanti tra scuola e mondo del lavoro, con la partecipazione a stage e a possibili attività da sviluppare in convenzione con la formazione professionale». Per il Msac, infine, è importante riconoscere allo studente «una effettiva centralità e capacità di partecipazione attiva nell’elaborazione del piano dell’offerta formativa. Non è più sostenibile che lo studente venga considerato semplice destinatario della proposta formativa della scuola. Deve essere riconosciuto il diritto ad un apprendimento significativo ed efficace, che garantisca il successo formativo e il raggiungimento di obiettivi coerenti e compatibili con i talenti individuali. Va, inoltre, promossa un’azione continua di orientamento, riorientamento e rimotivazione, che abiliti il soggetto ad elaborare un progetto di vita in linea con gli orizzonti valoriali e le aspirazioni personali».

Secondo Azione studentesca, invece, «fermo restando il piano di studi nazionale obbligatorio» è dirimente «consentire il massimo sviluppo delle capacità di tutti offrendo il maggior numero possibile di servizi, ovvero di insegnamenti extracurricolari ma anche di strumenti finalizzati alla crescita ed all’aggregazione, intesa come appartenenza, comunità. A tal fine occorre immaginare, nell’ambito dell’autonomia scolastica, una forte valorizzazione delle attività complementari, anche autogestite, già previste dal DPR 567/96, che fummo i primi a proporre. Immaginare la scuola come luogo della principale crescita sociale degli studenti, incrementare attività non solo curricolari ed extracurricolari, ma connesse allo sport, alla musica, al teatro, al recupero dei saperi e delle arti tradizionali, permetterebbe di colmare il grande vuoto rappresentato in Italia dalla mancanza di luoghi reali di aggregazione giovanile, un vuoto che ha di fatto contribuito all’incremento di fenomeni degenerativi quali i centri sociali, luoghi all’interno dei quali dilagano la violenza, l’intolleranza e l’istigazione all’utilizzo di sostanze stupefacenti». Infine, la Confederazione degli studenti invita a prendere «con le molle l'autonomia». Ad avviso della Confederazione, infatti, l’autonomia all'interno delle scuole avrebbe senso se «vuol dire rendere a misura di studente (e di docente!) la scuola italiana». «La riforma è stata fatta per favorire il dialogo tra studenti e docenti, ma nella realtà i docenti e soprattutto i dirigenti scolastici fanno di tutto per tenere gli studenti fuori della portata delle notizie. La riforma era stata fatta per permettere di sviluppare gli interessi extracurricolari degli studenti, ma nella realtà gli studenti non sanno nulla delle possibilità che hanno nel corso di cinque anni, almeno, di medie superiori. La riforma era stata fatta per permettere agli studenti di scegliere alcuni aspetti del proprio percorso formativo, ma nella realtà nulla è migliorato rispetto a ieri». La stessa cosa è capitata secondo gli studenti che aderiscono a questa Confederazione, per i piani di studio. «Prendiamo atto che i precedenti governi hanno pensato di fare qualcosa, ma per vari motivi legati a questioni di partito e di maggioranze politiche non si è fatto nulla per aggiornare i piani degli studi. Noi pensiamo che vada fatta una riforma che non si basi su scelte di partito o di governo ma che sia dettata dalla reale necessità degli studenti di avere nuove tecnologie e insegnamenti a disposizione. Non una riforma della mentalità, non è a tanto che puntiamo, ma un graduale aggiornamento delle varie materie, con il rinforzo di alcune e la creazione di altre, in modo che ogni studente possa liberamente scegliere della sua vita al termine del proprio ciclo di studi.

L’ottica dei genitori

Secondo il Coordinamento Genitori Democratici bisogna opporsi «ad ogni possibile tentativo di eliminare il valore legale del titolo di studio, pur ritenendo che esso debba essere ancorato ad un reale accertamento di abilità e competenze definite da standard nazionali». In una prospettiva impositiva più che libera e facoltativa, essi ritengono altresì «che la quota di curricolo locale a disposizione delle scuole dell'autonomia (valutabile in circa 300 ore annuali), debba essere svolta da tutti nell'istituzione scolastica o nella rete di istituzioni scolastiche e non presso agenzie formative esterne per il difficile accertamento di qualità e per il carattere discriminante che la scelta potrebbe implicare».

All’Agesc, invece, l’insieme della Raccomandazione pare bisognosa di approfondimenti.

Più che rispondere direttamente, in positivo, alla domanda, l’associazione dei genitori delle scuole cattoliche chiede «che s’intende per piani di studio, perché se è ovvia la necessità di una certa unitarietà, anche per consentire spostamenti, passaggi, ecc. ci sembra riduttivo e troppo generico decidere che allo Stato spetti l’organizzazione dell’80% del curricolo ed alle scuole solo il 20%, parte del quale dovrebbe essere lasciato alla Regione. Il problema qualitativo è perciò: che cosa comprende questo 80% comune? quali i contenuti dei programmi? E gli obiettivi, le abilità, le metodologie, i risultati raggiunti, i risultati verificati? La legge dovrebbe garantire maggiore libertà di movimento alle scuole rispetto all’80% e dovrebbe fissare con maggiore chiarezza l’area di intervento dello Stato. Solo dopo aver fatto maggior chiarezza sui compiti della scuola, dello Stato e dell’istituto di certificazione ( autonomo) si potranno fissare le percentuali e consentire una presenza definita delle famiglie».

L’Age interviene per esprimere il proprio pieno consenso alla proposta di «consentire più di ora percorsi complementari personalizzati da parte delle famiglie e degli studenti per un servizio scolastico più efficiente, più commisurato alla domanda, attento a perseguire la soddisfazione culturale e relazionale degli utenti, più accogliente nei riguardi dei genitori e delle altre agenzie educative della comunità locale».

L’ottica delle associazioni professionali

L’Aimc ha riflettuto sulle implicazioni contenute nella Raccomandazione, le ha integrate con l’intervento del Ministro alle Camere e con le risultanze dei Gruppi Focus cui ha partecipato, ed è pervenuta, sul nostro problema, a queste conclusioni. «Se la curricolazione è azione delle scuole quale espressione della loro autonomia, è altresì indispensabile, per la tenuta nazionale del sistema e per garanzia perequativa, che essa si collochi all'interno di piani di studio nazionali costituenti un alveo certo ma non "ingessante". La dimensione nazionale e la dimensione territoriale devono trovare coerente integrazione nella costruzione dell'offerta formativa che costituisce il "luogo" di prospettiva unitaria dove convergono e cooperano docenti, genitori, studenti, istituzioni e mondi del territorio». Riferendosi, questa volta, non tanto alla Raccomandazione in senso stretto. Ma all’intervento del Ministro alle camere, l’associazione osserva che «i tre livelli (nazionale, regionale e di scuola) individuati dal Documento del Ministro sembrano incidere anche nella ripartizione delle "quote" componenti il curricolo con il rischio, da tenere sotto controllo, di frammentare anziché di integrare. I percorsi ed i completamenti personalizzati da parte delle famiglie e degli studenti, proposti dalla consultazione (questa volta la consultazione promossa dal Grl, n.d.r.), certamente rispecchiano sia l'esigenza di costruire curricoli "su misura", sia l'attuale momento che vede la scuola consapevole di non poter da sola coprire l'intera funzione formativa. D'altra parte però contengono, almeno come sono presentati, una possibilità di scivolamento verso la polverizzazione dei percorsi su base individuale fino a lambire ipotesi di descolarizzazione. E' indubbio che nel curricolo di ogni scuola devono essere presenti, in misura molto maggiore rispetto al passato, percorsi costruiti anche in partenariato con altri soggetti formativi ed elettivi per le famiglie e per lo studente; anche da qui passa la valenza orientante del curricolo. Altra cosa però è pensare a percorsi formativi collocati del tutto fuori dalla scuola pur restando a quest'ultima l'atto di certificazione delle competenze. Siamo dell'avviso che un portfolio formativo personalizzato possa essere costruito anche attraverso i curricoli proposti dalle scuole. Un ulteriore motivo di preoccupazione deriva anche dalla praticabilità di quanto proposto.

Come può la scuola esercitare una corretta certificazione senza essere troppo cogente, quindi fortemente selettiva, né troppo evanescente fino a ridursi ad una sorta di "ufficio" che firma attestati di pura frequenza? Ma anche se la scuola riuscisse ad individuare una postazione di grande equilibrio dovrebbe comunque limitarsi ad accertare solo esiti, nulla avendo da dire sui processi. Esiti e processi non possono essere totalmente disgiunti». L’Uciim, dal canto suo, ricorda che il dpr 275/1999 prevede una quota di curricolo affidata alle singole scuole; ma anche che «la normativa in corso, legata al referendum costituzionale, potrebbe dare in merito uno spazio più o meno esteso alle regioni, sicché grande è il rischio di una disarticolazione del curricolo scolastico. Comunque vadano le cose, la dimensione nazionale non dovrebbe ridursi al di sotto dell’80%.». Obiettivi e standard, però, andranno definiti a livello nazionale, attraverso un’intesa Stato – Regioni (art. 117 della Costituzione), che deciderà anche le procedure di certificazione; i crediti saranno definiti da commissioni miste tra i sistemi (scuola/università, formazione, lavoro), nell’ambito dell’autonomia delle istituzioni scolastiche/universitarie. Le certificazioni costituiscono la base giuridico-formale dei percorsi formativi alla quale si aggiungeranno i crediti, che insieme alle esperienze (autocertificate) ed ai curricoli personali andranno a confluire progressivamente nel portfolio dell’individuo. L’Uciim vede poi con preoccupazione le tendenze disgregatrici e localistiche che si insinuano anche nei piani di studio. «Vorremmo, scrive l’associazione, che la bandiera italiana, che il presidente Ciampi chiede sia presente in ogni casa, non fosse solo un simbolo utile per le commemorazioni; e che, accanto ad essa, trovassero posto le bandiere degli istituti autonomi e quella dell’Unione europea. Fuor di metafora occorre che i curricoli siano composti sulla base di un chiaro e forte ordito nazionale, su cui si possano inserire le trame delle singole unità scolastiche, in armonia con le istanze delle famiglie, delle singole regioni e con quelle che ci derivano dall’appartenenza all’Europa, e non solo al mercato comune. Ciò significa che il sistema educativo d’istruzione e di formazione deve avere non solo finalità generali, ma anche alcuni contenuti essenziali che vanno proposti come patrimonio comune alle giovani generazioni di italiani ed europei».

Anche Lega ambiente Scuola e formazione è convinta dell’importanza di sottolineare la dimensione nazionale. Quasi prescindendo dai disposti del nuovo Titolo V della Costituzione votata a fine della scorsa legislatura, l’associazione ritiene «che qualunque accentuazione, nel sistema formativo, della regionalizzazione porterebbe a frantumare il sistema ed insieme ad indebolire l’autonomia delle scuole». Sempre a proposito di timori, Lega ambiente Scuola e formazione diffida dell’espressione «percorsi e completamenti personalizzati» dei piani di studio. «Non vorremmo, sostiene, che dietro queste formulazioni si affermi l’idea che la scuola diventerà un “servizio individuale su domanda”. È bene chiarire, in questo punto, che i “completamenti personalizzati” debbono essere pensati, progettati ed offerti dalle scuole, singolarmente o in rete. Va cioè enfatizzato il fatto che la responsabilità progettuale ed organizzativa è delle scuole (anche in rete), secondo modalità che non snaturino il progetto culturale ed educativo nazionale e delegittimino il valore legale del titolo di studio». Per Lega ambiente è la scuola che deve decidere tutto ciò che bene per gli allievi.

Per ragioni diverse, su posizioni analoghe è anche l’Apef (Associazione Professionale Europea Formazione). A suo avviso, la flessibilità curriculare dell’ art. 8 del 275/99 deve essere oggetto di grande cautela per due ragioni. «La prima è che già sforano, in termini di opzionalità delle scuole, i parametri europei. La seconda è che il ruolo della scuola come istituzione educante e formativa, e che ha la responsabilità dei risultati rispetto ai curricoli progettati, dovrebbe comunque essere salvaguardato da una eccessiva ingerenza da parte dell’utenza. La scuola deve certamente saper ascoltare le richieste di famiglie e degli studenti, ma va salvaguardato il giusto ruolo delle competenze e responsabilità». L’Apef rileva, da ultimo, che «l’ampliamento della quota di piani di studio riservata alle scuole ci sembra inconciliabile con “ la maggiore verifica comparativa nazionale dei risultati “ richiesta dal Ministro». Posizioni ancora più dure verso l’aumento della personalizzazione dei piani di studio proviene dallo Cnadsi. «Siamo sicuramente per piani di studio nazionali obbligatori per salvare l’identità della cultura italiana e per garantire omogeneità di preparazione essenziale o specifica dei medesimi percorsi di studio e degli stessi titoli in tutta la nazione. Troviamo invece piuttosto utopico parlare di “percorsi e completamenti personalizzati da parte delle famiglie e degli studenti”. A parte il fatto che formule del genere non sono nuove e già sono state proposte nell’ambito della recente politica scolastica berlingueriana, esse non hanno alcuna reale praticabilità sul campo, per il vario personale di cui abbisognerebbero dovendo far fronte alle accresciute necessità individuali, per la confusione che porterebbero nelle strutture scolastiche, senza una reale contropartita di effettiva utilità per i ragazzi, ed infine per l’effetto deresponsabilizzante che avrebbero sui ragazzi quanto sui docenti, per l’impossibilità di verifiche oggettive, come abbiamo ben appreso dall’esperienza di tante “sperimentazioni” fantasiose e di comodo che hanno bucherellato il tessuto del sistema scolastico in modo devastante e che in qualche modo riproducono, in un ambito più ampio, cioè di una sezione, lo stesso discorso didattico della “personalizzazione” del percorso scolastico. Personalizzazione alla quale non siamo pregiudizialmente contrari, che anzi, in astratto, sarebbe una grande conquista, quasi l’ideale, per chi, come noi, ama la scuola, si batte per la libera scelta, crede nella personalità e nel talento dei singoli, ma proprio perché ideale, impossibile da realizzarsi in concreto, come tutte le belle astrazioni». Allo Cnadsi, sembra, invece, valido il principio di far prevalere “sia sul piano delle verifiche dell’apprendimento, sia su quello del soddisfacimento dell’obbligo”, i vincoli di risultato su quelli procedurali e di percorso». Originale, in questo quadro, la posizione di Prisma (Progetto per la Rivalutazione dell’Insegnamento e dello Studio del Mondo Antico) che propone di rendere obbligatori solo i piani di studio nazionali di Italiano, Filosofia, Storia e Matematica. Uno dei punti qualificanti della riforma, osserva invece Diesse. Didattica e innovazione scolastica, «è la precisazione in termini operativi degli obiettivi specifici di apprendimento. Questi comprendono l’indicazione sia dei contenuti a cui si applicano sia delle operazioni in cui si concretizzano. Sul punto vi sono osservazioni importanti da fare. Pare eliminata la riduzione del bambino e poi del ragazzo a somma di comportamenti o di azioni mentali, che pervadeva non tanto la legge 30 quanto i Suggerimenti relativi ai curricoli. Il bambino non va pensato come fascio di interazioni con stimoli esterni, a cui si aggiungono fasci di emozioni e slanci affettivi ed immaginativi, sostanzialmente protraendo fino ai livelli della scuola secondaria la divisione irrisolta nell'io fra una razionalità scientifico-tecnologica utilitaristica (da cui l’enfasi sul saper fare) ed una emotività irragionevole e spontaneistica. E’ di grande interesse, e non nega affatto l’importanza dell’asse disciplinare nella scuola e dell’alto livello dell’istruzione, il tema dei rapporti fra "sapere, saper fare e saper essere" che, fuori dalla riduzione funzionalistica che ne ha fatto una certa didattica, coglie invece uno degli aspetti che possono diventare innovativi nella pratica educativa. Esso pone in luce la "convenienza umana" del conoscere, forse troppo poco valorizzata nella scuola, convenienza che non è pura strumentalità ma d’altra parte toglie astrattezza e accademismo ad un sapere cd. disinteressato, restituendo un nesso tra conoscenza ed esperienza umana, tra conoscenza e azione, tra realtà e conoscenza». Diesse chiede, inoltre, che, «volendo assecondare la volontà di introdurre il "saper fare" come criterio qualificante l'istruzione e la formazione scolastica, si chiede però che venga bene esplicitata la correlazione fra esso e il "sapere", in termini non meccanici né oppositivi, e investendo di tale compito in prima persona il "docente", diversamente dal modo in cui l’esigenza è stata recepita in precedenti interventi di riforma». L’associazione, infatti, vede «una certa confusione sulla nozione di competenza, un’applicazione meccanica del sistema modulare dagli studi professionalizzanti a quelli teorici, una definizione non coerente del “saper fare” dal punto di vista epistemologico».

L’ottica di fondazioni, enti, istituzioni

L’Aie (Associazione Italiana Editori) considera «la predisposizione di piani di studio nazionali, per entrambi gli ambiti, scolastico e professionale, irrinunciabile garanzia per l’offerta di pari opportunità a tutti i cittadini e per la salvaguardia sia della libertà di movimento da regione a regione, sia di una auspicabile comparabilità di risultati secondo gli standard di certificazione non solo sul territorio nazionale ma anche a livello europeo». «Ciò sarà vero a maggior ragione, continua, se i piani di studio e i percorsi formativi saranno culturalmente rapportati alla nostra tradizione ed al tempo stesso aperti ad una visione non puramente localistica o nazionalistica dei saperi, delle dinamiche economiche, dei modi di produzione: il che, tra l’altro, rientra nella nostra storia». L’Aie fa poi notare che «la identificazione di rilevanti quote di curricolo da sviluppare obbligatoriamente sia negli indirizzi scolastici, sia in quelli di formazione professionale è la condizione necessaria per una aggregazione della domanda tale da promuovere offerte editoriali qualitativamente valide a prezzi contenuti. Una condizione oggi in grado di attivare una qualificata offerta per la scuola, ma non per le attività regionali di formazione professionale, e per lo stesso post secondario dove gli strumenti didattici mancano. La diversificazione dell’offerta editoriale non si attua tanto attraverso la differenza degli argomenti, ma nella impostazione e nell’organizzazione delle trattazioni e negli apparati di supporto allo studio, che vanno incontro alla libertà di insegnamento e ai diversi stili di apprendimento. E’ evidente che nei singoli testi vi possono essere accentuazioni di contenuto che aprono la strada ad ulteriori approfondimenti o ad estensioni verso altre discipline. In questi casi l’autonomia delle scuole può avvalersi di opere più specialistiche, di volumetti integrativi, di raccordi con biblioteche scolastiche e locali, di materiali su supporto elettronico (on e off line) prefigurando un arricchimento del curricolo che nasca dalla concreta esperienza di studio e che si avvalga di testi qualitativamente validi».

La Confapi è per la definizione delle quote valide per tutto il territorio nazionale e locale, pensando di poter anche raggiungere il 75% del nazionale ed il 25% del locale:«riteniamo che un quarto dell’orario complessivo da far gestire in autonomia possa garantire bene le istanze culturali e di mercato del lavoro delle nostre diverse realtà territoriali». La Fidae aderisce alla scelta di piani di studio che prevedano una quota “nazionale” obbligatoria per garantire la memoria, l’identità e l’unità culturale del Paese; una quota “locale” obbligatoria (regionale e delle istituzioni scolastiche) per rispondere ai bisogni diversificati del territorio; ed una quota “opzionale” per una integrazione e personalizzazione del percorso formativo secondo le specifiche capacità, attitudini, interessi, prospettive di ciascuno. Chiede, poi, che i piani di studio ai quali si fa riferimento non siano in contraddizione con lo spirito e la lettera della legge sulla autonomia delle istituzioni scolastiche.

La Filins « esprime parere favorevole sulla necessità di contemperare la formulazione di piani di studio nazionali obbligatori e di una contemporanea, maggiore coerenza di percorsi formativi finalizzati a soddisfare le esigenze locali. Circa una maggiore verifica comparativa nazionale dei risultati formativi, si raccomanda un ampio approfondimento della materia, non pedissequamente ispirato alla cultura aziendalistica molto di moda ed alquanto aggressivamente pervasiva ( vedi alcuni modelli del progetto qualità di cui al protocollo d’intesa Miur/Confindustria». La Fondazione ‘Nova spes’, preoccupata che gli obiettivi specifici di apprendimenti siano solo formali e non contenutistici, propone una modifica della lettera b) dell'art. 8 del 275/99. Meglio parlare, essa opina, di «obiettivi specifici e contenuti essenziali di apprendimento relativi alle conoscenze e alle competenze degli alunni». ‘Nova spes’ desidera «contrastare l'attuale moda che vuole eliminare il termine "conoscenza/e" dal processo di insegnamento e apprendimento» perché non ritiene «che l'obiettivo finale dell'apprendimento sia la sola acquisizione di competenze (come che le si vogliano intendere)» e neppure pensa sia opportuno non indicare «quei contenuti che la comunità scientifica ritiene essenziali per la formazione culturale, per la crescita e per la maturazione complessiva della persona».

La Federazione Opere Educative ( Foe) domanda, per converso, piani di studio senza eccessivi carichi orario « per non rendere la scuola l’unico ambito di apprendimento e di esperienza dell’alunno, disincentivando le sue capacità di lavoro personale e non favorendo lo sviluppo di doti e di interessi». Per questo ipotizza 30 ore obbligatorie a cui aggiungere eventuali attività opzionali, rendendo peraltro obbligatorio l’allestimento di un servizio per il recupero.

Lo Cnos scuola, insieme a tutte le opere salesiane, condivide che accanto « alla verifica delle linee programmatiche nazionali, siano previsti percorsi personalizzati rispondenti alle attese degli allievi e delle famiglie»

La Crui (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane), infine, domanda « un corretto equilibrio tra piani di studio nazionali obbligatori e quelli delle istituzioni scolastiche e degli studenti, puntando più a valutazioni di processo ( efficienza) e di risultato ( qualitative e quantitative ) che a rigide normative a priori sui contenuti». Domanda inoltre un raccordo con le università e con la nuova normativa sulle conoscenze richieste e sui debiti formativi all’ingresso ( art. 6 c.1; art. 11 c.7,1 e-f del Dm 509/99).

L’ottica sindacale

La Cgil scuola si dichiara « perfettamente d’accordo» sull’idea che « accanto a curricoli nazionali obbligatori, si utilizzino gli strumenti previsti dall’art. 8 del Dpr. 275\99». Non è chiaro, però, per questo sindacato « il significato pratico della seguente affermazione: ‘consentire più di ora percorsi e completamenti personalizzati da parte delle famiglie e degli studenti’, dato che ciò è già previsto dalla normativa vigente». Esprime comunque il proprio dissenso « se ciò significa l’obbligo a soddisfare qualsiasi richiesta dell’utenza, con il rischio di trasformare le scuole in un supermercato dell’offerta formativa». Anche per quanto riguarda la verifica comparativa nazionale dei risultati, la Cgil esprime una adesione ed una preoccupazione. L’adesione è che ciò possa avvenire adoperando « una rete di persone competenti, in grado di aiutare le scuole a migliorare le proprie prestazioni, in un intreccio tra valutazione esterna ed autovalutazione». La preoccupazione riguarda il fatto che nella valutazione comparativa non si tengano conto dei « fattori che incidano sugli esiti formativi, quali la diversa situazione di partenza dei discenti, le risorse umane e professionali, le strutture, le risorse del territorio».

Per la Cils scuola «se la predisposizione di piani di studio nazionali ed obbligatori è garanzia per l’unitarietà del sistema e i diritti di cittadinanza, l'attenzione riposta nella possibilità di personalizzare i percorsi individuali è l’espressione dell’adattabilità e della contestualizzazione degli stessi percorsi alle scelte ed al territorio con la dovuta attenzione affinché il curricolo locale e/o personalizzabile non ecceda il 20% del curricolo complessivo». Ciò necessita naturalmente, secondo la Cisl scuola, «di un sistema di valutazione degli apprendimenti intesi come "risultati conseguiti" sapendo che qualunque sistema che concentri la sua attenzione sui prodotti è affetto da errore di approssimazione tanto più grande quanto più numerose sono le variabili incidenti sullo stesso processo educativo».

L’Unicobas, dal canto suo, ripropone con forza piani di studio che autorizzino la versatilità dei «crediti che rendono possibili meditate mutazioni d’indirizzo ed il recupero delle lacune ». Domanda inoltre «nuovi programmi che procedano alla necessaria integrazione di saperi manuali ed intellettuali, rivalutazione delle funzioni artigianali, pari dignità per ogni ordine e grado di scuola; possibilità di realizzare settori di scuola a tempo pieno ».

L’ottica delle associazioni dei dirigenti

Anp ricorda che «autonomia significa anche che la scuola può diversificare l’offerta secondo i bisogni del suo territorio di appartenenza, degli enti e dei soggetti che vi interagiscono. Per questa ragione, oltre alla possibilità di “interpretare”, secondo le sue scelte, il core curriculum, deve avere spazi consistenti di progettazione, anche in raccordo con altri (reti). In questo quadro è necessario considerare i nuovi poteri che le Regioni hanno assunto a seguito della riforma dell’art. 117 della Costituzione che le porterà ad interagire con maggiore forza con le scelte delle istituzioni scolastiche». A questo riguardo, l’Associazione «considera con favore la nuova dislocazione di poteri in merito all’istruzione, ma al tempo stesso ritiene necessario che essa abbia luogo all’interno degli spazi curricolari attualmente di competenza dell’amministrazione centrale e non comprimendo i margini di autonomia delle singole istituzioni. Verso tale indicazione convergono, del resto, sia la lettera del nuovo testo costituzionale, sia la considerazione che l’autonomia didattica, per essere efficace, deve potersi modellare sui bisogni formativi delle persone e non su quelli espressi dagli aggregati di sistema, sia pure a livello decentrato. E’ necessario per questo salvaguardare e rafforzare l’autonomia delle scuole assegnando loro quote maggiori rispetto all’attuale 15% di flessibilità curricolare, in quanto queste consentirebbero una diversificazione effettiva dell’offerta formativa per rispondere più e meglio ai bisogni degli alunni».

L’Andis invita a predisporre «piani di studi obbligatori secondo quanto previsto dall’art.8 del D.P.R. n.275/99 che consentano un core curriculum nazionale verificabile comparativamente sul piano nazionale e sulla base di standard predefiniti e utilizzati come punti di riferimento e non di uguagliamento su valori medi. La parte di curricolo locale, più consistente da quella attualmente praticata e comunque differenziata a livello dei diversi gradi scolastici, deve dare risposta alle richieste delle famiglie e degli studenti, collocando le stesse in coerenza con il tipo di scuola e in relazione alle politiche di sviluppo territoriale. Le scuole sono responsabili delle scelte effettuate nell’ambito della progettualità loro riconosciuta normativamente». L’Andis teme che «la scuola prefigurata nel testo sottoposto od esame potrebbe configurarsi come agenzia erogatrice di servizi a richiesta individuale ovvero di nicchie di utenti da una parte e, dall’altra, come istituzione chiamata ad applicare piani si studio necessariamente rigidi ed uniformi. Non si comprende come, in questa prospettiva, possa collocarsi la libertà di insegnamento e le connesse responsabilità».

Per il Conapi, la buona riuscita della riforma dipende molto da come verranno individuati i curricoli nazionali e locali. E’ evidente che la mole degli argomenti da trattare all’interno delle diverse materie scolastiche vada ridotta drasticamente. Si devono fissare i contenuti e i saperi irrinunciabili per ciascuna disciplina o area disciplinare a livello nazionale e poi dare la possibilità alle scuole autonome di predisporre una parte significativa del curricolo. A livello nazionale vanno definite le competenze che gli allievi devono acquisire al termine di ciascun ciclo biennale. Tali competenze vanno poi verificate su tutto il territorio italiano.

La Disal è dell’idea che i piani di studio nazionali debbano abbandonare definitivamente la prescrittività elencativa dei contenuti che ha caratterizzato purtroppo anche certe sperimentazioni della secondaria e scegliere per una descrizione degli standard di conoscenza e di abilità terminali da ottenere nei singoli indirizzi, lasciando alle scuole autonome sia la programmazione dei percorsi e dei metodi per conseguire anno per anno quegli standard finali, sia il completamente del curricolo o la sua integrazione, sia l'individuazione di percorsi personalizzati che, nel rispetto degli standard, favoriscano passaggi tra indirizzi. «Riteniamo quindi molto positivo che i curricoli nazionali si definiscano in termini di profilo in uscita dello studente dai diversi indirizzi, da cui discendano obiettivi specifici di apprendimento in termini di contenuti, ma non come elencazione degli stessi: si tratta di un’articolazione del profilo in uscita in termini operativi e legati alle conoscenze. E’ l’inverso che partire dalle materie, dai loro obiettivi disciplinari supponendo che la somma faccia il profilo in uscita».

L’ottica delle riviste professionali

‘Vita dell’infanzia’ e l’Opera Nazionale Montessori ritengono essenziale il richiamo all’art. 8 che contempera piani di studio nazionali e piani di studio locali.«Pur tuttavia è auspicabile che questo nuovo orizzonte sia portato ad un’ampia ed approfondita discussione, per chiarire che la quota locale sia spesa indirizzandosi sempre a saperi durevoli e fondamentali ». Bisogna evitare il rischio di piani di studio che autorizzino il ‘ tempo perduto’.

A proposito di piani di studio, ‘La vita scolastica’ invita a considerare il materiale elaborato dalla commissione De Mauro sul curricolo punto di non ritorno. «Probabilmente hanno bisogno di uno snellimento, di una ricalibratura, di un’uniformazione editoriale e di una particolare attenzione agli strumenti che dovranno veicolare i contenuti dei curricoli stessi (libri di testo in primo luogo)», ma restano un punto di riferimento inevitabile.

‘Tuttoscuola’ parte da una premessa. Se l’orientamento, scrive, sarà stato realizzato efficacemente, gli allievi dovrebbero poter affrontare gli studi successivi (nella scuola o nei percorsi dell’obbligo formativo) con molta maggiore consapevolezza di quella che si registra oggi, e quindi con un molto minore rischio di fallimento. «Ciò consentirà di impostare piani di studio più rigorosi fin dal primo anno, caratterizzati da una precisa indicazione degli obiettivi di apprendimento. Lo sviluppo dell’autonomia delle scuole e l’insistenza sulla valorizzazione dei talenti individuali, da realizzare attraverso forme di personalizzazione dei percorsi, può infatti rendere incerta l’identità culturale e curricolare dei singoli indirizzi di scuola superiore. Occorre dunque individuare le caratteristiche essenziali e non derogabili di tali indirizzi, indicando i livelli di conoscenze e competenze richiesti agli allievi (in forma di obiettivi di apprendimento, standard o altro), anche se l’operazione va resa compatibile con la valorizzazione flessibile delle potenzialità individuali».

La rivista ‘Iter’ dà per acquisito che si distingua una quota nazionale ed una quota locale nei piani di studio. Ritiene tuttavia che « resti aperto il problema di un sistema di controllo degli standard». A suo avviso, è indispensabile identificare standard nazionali e quantomeno europei per garantire che ordinamenti dissonanti non penalizzino la mobilità dei giovani».

Per ‘Rassegna dell’istruzione’ la dialettica centro-periferia è da alcuni decenni al centro del dibattito scolastico internazionale e da alcuni anni lo è anche nel nostro Paese. Il modello sociale che sembra oggi prevalere è quello di una società molecolare dove sempre di più si afferma una dimensione individuale. Anche la scuola propone un modello coerente con questo processo. L'istituzione scolastica autonoma è oggi il centro del sistema attorno cui ruota un'amministrazione centrale e periferica con ruolo di supporto; regioni, province e comuni con compiti di programmazione territoriale e coordinamento per potenziare l'offerta formativa e collegare scuola e territorio. Dati recenti evidenziano il fatto che la quasi totalità delle scuole realizza attività non previste dai curricula ufficiali; in non pochi casi, inoltre, tali attività vengono sostenute da risorse aggiuntive provenienti dalla dimensione locale. In un quadro di questo tipo, avverte la rivista, «diventa essenziale per le istituzioni scolastiche e per i centri di formazione professionale fare riferimento a piani di studio nazionali capaci di garantire le stesse opportunità di studio a tutti gli studenti, analoghe condizioni organizzative in realtà territoriali differenti, comparabilità di risultati e di profili professionali».

‘Orientamenti pedagogici’ chiede per converso che la predisposizione di piani di studio nazionali obbligatori non contraddica «la recente conquista che si è avuta nel nostro ordinamento scolastico e cioè che – per la prima volta nella storia del nostro sistema di istruzione e di formazione – viene attribuita alle singole scuole la titolarità della "curricolazione" che integra nella progettazione di ogni istituto le indicazioni nazionali (e caso mai quelle territoriali) con il tracciato scelto dalla comunità educativa dopo un’analisi attenta dei bisogni del territorio».

La rivista ‘Edav’ (educazione audiovisiva), se è d’accordo sull’enunciato della Raccomandazione, sente tuttavia l’esigenza di chiarire le modalità dei «percorsi e completamenti personalizzati da parte delle famiglie e degli studenti» Sì ai piani di studio nazionale, ma sì anche all’area delle opzioni in autonomia, purché rispettino criteri di serietà e non legati alle mode o alle ideologie. In proposito, fa la seguente considerazione: volendo puntare sul raggiungimento dei risultati e non sull’osservanza delle procedure di percorso, si può prevedere un esame, alla fine del percorso stesso, con obiettivi ben noti, che attesti il conseguimento o meno dell’«obbligo completato». Propone, inoltre, che, col rinnovamento dei cicli, si dovrebbe (potrebbe) cambiare anche l’organizzazione didattica e temporale: «non più una serie rigida di materie distribuite lungo l’anno scolastico, bensì corsi semestrali a tema, di cui una parte obbligatoria e un’altra parte scelta dagli studenti. I vari temi dei corsi dovrebbero riguardare quei «saperi» attuali - ora spezzettati nelle singole materie, che necessitano attività interdisciplinari - e dovrebbero essere svolti col concorso dei docenti delle varie discipline interessate. Un alunno capace potrebbe scegliere anche più corsi, oltre quelli obbligatori; un alunno meno capace che non ha superato un corso, dovrebbe solo ripetere solo quel corso e potrebbe scegliere corsi adeguati alle proprie capacità e ai propri interessi».

Risposta alla Raccomandazione n. 8

Norberto Bottani

La scelta dell’autonomia scolastica e la proposta di potenziarla non sono contestate da nessuno. Questa svolta presa recentemente dalla scuola in Italia è data come acquisita. Nessuno esprime riserve in merito. Questa convinzione consensuale però di cogliere il timore, espresso tra le righe della proposta, di una disaggregazione possibile del sistema scolastico e di una sua disintegrazione nonché di recepire i dubbi che si potrebbero avere riguardo all’equità dell’offerta formativa. La proposta di adottare modalità di controllo dei risultati nasce per l’appunto da preoccupazioni di questo tipo. I pareri inviati al gruppo d’esperti le scartano tutte perché in generale si ritiene che i rischi paventati non sono attendibili: l’autonomia non può che essere benefica e tutto quanto può essere fatto per smantellare la cappa burocratica e gli intralci amministrativi che paralizzano le scuole è di per sé positivo. Su questa linea si incontrano organizzazioni di orientamenti diversi ma che per motivi di varia natura convergono su questo punto: l’apparato amministrativo che si è costituito per governare la scuola statale va ridotto all’osso perché è la causa di tutti i mali di cui soffre la scuola italiana.

Per il CIDI, « l’autonomia scolastica rappresenta un tassello fondamentale nella ridefinizione del sistema dell’istruzione ». Tramite l’autonomia si mobilitano energie sopite, ora compresse e nascoste negli anfratti stratificati dell’organizzazione burocratica della scuola. L’attuazione dell’autonomia libera queste forze fino al punto di « convogliare istanze nazionali, territoriali e locali in una costante progettazione dell’offerta formativa, di ricerca didattica e di valutazione ». Questa fosforescente eruzione di creatività dovrebbe permettere di trasformare l’intero impianto della scuola italiana e generare un sistema scolastico capace di perfezionarsi e correggersi da solo perché la scuola, ogni singola scuola, per antonomasia è « un’istituzione attiva » nel territorio. Tutto questo però non nasce spontaneamente, avverte il CIDI: occorrono strumenti adeguati di governo e di organizzazione, « riqualificando l’intervento dell’Amministrazione scolastica ». Lo iato tra realtà e teoria non è però percepito da tutti con l’acuità di cui fa prova il CIDI , ben consapevole del fatto, a differenza di altre associazioni, che l’autonomia non è affatto un dato acquisito, bensì un progetto.

Anche l’AIMC sottolinea le difficoltà che si frappongono alla riforma nel senso dell’autonomia delle scuole e parla di una stagione dell’autonomia alle prime prove, che richiede di essere adeguatamente accompagnata e sostenuta.

Reale e ideale

Una verifica sul terreno del grado di attuazione dell’autonomia scolastica non è richiesto da nessuno. Solo la casa editrice Le Monnier segnala la presenza di una forte divergenza tra la normativa e quanto si pratica nelle scuole, almeno in materia di curricoli. Molti pareri lasciano intendere che l’autonomia è ormai un fatto compiuto in Italia. Da questo punto di vista, l’Italia si collocherebbe tra i paesi all’avanguardia che hanno realizzato la riforma dell’autonomia nel corso di quest’ultimo decennio, dando luogo a dibattiti procedurali carichi di tensioni che hanno prodotto numerose indagini scientifiche sul terreno tese a verificare la pertinenza delle ipotesi di partenza. Nulla di simile è però successo in Italia dove l’autonomia invece è stata adottata con bella unanimità, senza esitazioni e soverchie preoccupazioni sulle conseguenze possibili della riforma, anzi con il convincimento generale che questo era il passo da fare per elevare la qualità della scuola, stimolarne l’innovazione, eliminarne le carenze e le insufficienze.

Risultati e procedure

In molte risposte, la raccomandazione non è capita oppure la risposta si tramuta in una divagazione generica. Eppure, la proposta di per sé sembrerebbe piuttosto chiara: tradotta in altri termini essa sostiene che l’autonomia va bene ma a condizione di non mettere a repentaglio il conseguimento di risultati prestabiliti. Qui si tratta di standard minimi da conseguire, di obiettivi e/o di competenze che la scuola si impegna a sviluppare ed a fare apprendere a tutti gli studenti. In altri termini l’autonomia non significa fare quel che si vuole in materia di programmi di insegnamento. Non basta imparare ad imparare, detto in parole povere, ma occorre anche imparare qualcosa nella scuola dello stato. Da qui l’esigenza di almeno una verifica che accerti il conseguimento di risultati minimi esplicitamente designati. Ci si potrebbe anche non accontentare di questa conclusione perché occorre pure non ignorare il fatto che la legittimazione della scuola statale deriva dalla garanzia del valore socialmente riconosciuto dei diplomi, ma quest’aspetto della questione non è sollevato da nessuno. Per quel che riguarda gli apprendimenti, molte associazioni dissentono sui vincoli di risultato. Per esempio, « .eco »: « il risultato finale del percorso scolastico/formativo non deve fare dimenticare che nell’educazione è importantissimo il processo di insegnamento/apprendimento (… ). Un forte impegno su procedure e processi porterà anche ragionevolmente anche a migliori risultati, non viceversa». Il CNADSI ( Comitato nazionale difesa scuola italiana) invece è favorevole a dare la precedenza ai risultati sulle procedure ma non fa il collegamento con l’autonomia. Chiaro e perentorio è invece il parere della rivista « Orientamenti Pedagogici »: se l’autonomia è da prendere sul serio e da avvalorare, allora si devono ridurre al minimo i vincoli procedurali e di percorso. Qui si dà un’interpretazione del tutto particolare dei vincoli procedurali che non sono invece riducibili alle pastoie burocratiche amministrative ma che avrebbero dovuto essere identificati con le modalità d’apprendere ed le procedure curricolari.

« Orientamenti Pedagogici » ritiene che i risultati contano, sono importanti e che ad essi si deve prestare attenzione, ma che questo obiettivo può essere conseguito solo se buona parte delle forme di regolazione del percorso scolastico saranno eliminate. I risultati verranno da sé se non si intralcia l’autonomia.

Sulla stessa linea si trova la rivista « Scuola e didattica » che considera riduttivo e/o sbilanciato in senso efficientistico la condizione di risultato. Le esigenze di risultato sollevano dunque resistenze negli ambienti della pedagogia cattolica senza per altro che si forniscano spiegazioni esaurienti per capire il significato di questa reticenza di fronte all’obbligo di conseguire obiettivi precisi. Sarebbe per esempio il caso di fare riferimento alla distinzione effettuata da Basil Bernstein tra « curricoli integrati » e « curricoli collezione », nonché alle pedagogie corrispondenti che nel primo caso pongono l’accento sulle modalità di produzione della conoscenza ( le operazioni in senso piagetiano, si potrebbe dire) e che nel secondo invece insistono sugli stati di conoscenza.

Questa scelta di campo, in genere associata alla preservazione dell’autonomia, non è mai argomentata con prove adeguate. Anche nel parere della UIL scuola prevale un indirizzo simile, seppure meno pronunciato, ma pur sempre imperniato su una concezione individualistica e soggettiva dell’educazione poiché si propone di definire « criteri pienamente esaustivi dei livelli di sviluppo complessivi dell’autonomia critica della persona ». Anche qui si percepisce lo slittamento dal progetto istituzionale a quello educativo che poi in altre risposte finisce per sfociare in considerazioni che nulla hanno a che fare con le conseguenze di una riforma che attribuisce autonomia alle scuole. Per l’Associazione Dirigenti Scuole Autonome e Libere, l’autonomia « rimane eminentemente un processo culturale oltre che legislativo » , cioè un progetto sociale con una valenza formale-giuridica. La dimensione politica che ha a che fare con i modelli di gestione imposti dalle tecniche di potere scompare per cedere il posto ad una operazione di « marketing » pedagogico che usa come argomento di vendita « l’autovalutazione interna delle scuole ». Verifica dei risultati sì , ma unicamente ad opera delle scuole stesse. A questo punto la legittimazione dei titoli di studio diventa una faccenda obsoleta perché la qualità dei diplomi risulta « dal valore aggiunto ottenuto dalle singole scuole ». Il controllo esterno si dilegua e viene sostituito da una forma di autocontrollo i cui criteri di verifica verrebbero definiti dalle singole scuole.

Critica allo statalismo

Va rilevato che l’appoggio dato da quasi tutte le associazioni cattoliche all’autonomia deriva anche da considerazioni strategiche che mirano a smantellare il monopolio scolastico dello stato per conseguire la parità effettiva tra scuole statali e scuole non statali. L’autonomia delle scuole statali è quindi la condizione indispensabile per mettere sullo stesso piano e trattare equamente le scuole del settore non statale. Detto altrimenti, solo smantellando il sistema statale e « privatizzandolo » si realizzerà la parità. L’argomento sembra ineccepibile ma la vittoria sulla « malattia » si otterrà, in questo caso, con la morte del paziente, ossia con la scomparsa della scuola statale. Secondo questa logica, l’autonomia delle scuole deve essere piena: non va cioè nemmeno presa in considerazione la cessione anche parziale di una certa proporzione di competenze in materia scolastica alle regioni. « Il passaggio dell’attività scolastica dallo Stato alle Regioni...risulterebbe una soluzione peggiore ». (CIOFS/Scuola). In questo panorama si distingue la presa di posizione dell’AIMC che invece percepisce la necessità e la difficoltà di modulare l’autonomia con un controllo dei risultati ( il termine controllo non è però evocato da nessuno, come se fosse un tabù della pedagogia contemporanea): « Crediamo che, al riguardo, sia necessario darsi tempi e spazi per approfondire diffusamente il dibattito ». Si precisa anzi che « la declinazione del rapporto tra vincoli procedurali e vincoli di risultato ha necessità di una fase di studio e di approfondimento partecipata e mirata con tempi e procedure agili, ma certe ». L’AIMC emette per altro tutta una serie di riserve a proposito di una regolazione - a livello delle singole istituzione scolastiche come del sistema di istruzione e di formazione nel suo complesso - sulla base di vincoli di « prodotto ». Nella memoria dell’AIMC si intravedono i temi di una riflessione e di un’analisi su temi che sono ampiamente affrontati in altri sistemi scolastici e che in Italia sono invece solo timidamente segnalati in mancanza di esperienze, ricerche e perizie su vasta scala.

Bilancio

In conclusione, nei pareri espressi su questo punto traspare una forte reticenza a subordinare l’autonomia ad una verifica dei risultati o ad un obbligo di risultato negli apprendimenti, che è poi la stessa cosa, perché non si possono immaginare vincoli di risultati senza una forma di controllo che li verifichi. Occorre però anche dire che questa posizione è più l’espressione di un’ipotesi teorica che non il frutto di argomentazioni fondate su prove empiriche. Il problema posto è stato dunque trattato in generale in modo astratto, senza agganci con la realtà, senza un’analisi delle ripercussioni a livello sistemico o in una prospettiva diacronica. Nei pochi pareri argomentati prevalgono o considerazioni di parte -- il riconoscimento della parità tra scuola statale e scuola privata -- oppure riprese parziali di teorie sulle procedure decisionali traslate dal settore aziendale a quello scolastico. In una sola risposta si avverte la complessità della questione e si auspica un esame accurato della proposta.

Risposte alla Raccomandazione n. 9

Giuseppe Bertagna

A proposito di formazione iniziale dei docenti, i punti di maggior crisi nel dibattito apertosi in questi anni sono stati tre. Il primo riguarda la scelta di mantenere una gerarchia nella formazione dei docenti della scuola dell’infanzia, della scuola primaria e della scuola secondaria (media e superiore). Il secondo ha interessato la compatibilità tra le Ssis, avviate in un momento nel quale non era ancora stata portata a termine la riforma degli ordinamenti universitari, e in particolare la la fisionomia delle lauree specialistiche. Il terzo la natura di questa formazione, mix di cultura, didattica, psicologia e praticantato, così come si è potuto vedere nei corsi di Laurea in Scienze della formazione primaria. Gli interventi hanno toccato, in vario modo, tutti questi aspetti.

Percorsi di pari durate e dignità

Per il suo carattere di sintesi dei problemi e di avvio di concrete prospettive, è utile riportare in apertura di tema la risposta offerta dalla rivista ‘Scuola Italiana Moderna’. La più antica e prestigiosa rivista magistrale italiana, parte dall’indispensabilità della “risorsa uomo” allo scopo di procedere a qualsiasi riforma. La scuola di qualità è fatta, in primo luogo, di docenti di qualità. Ora, annota la rivista, una delle condizioni della “qualità” dell’insegnante è notoriamente posta nella sua formazione iniziale e nella capacità/opportunità di riaggiornare continuamente le proprie competenze professionali. Si tratta, detto in altro modo, di progettare percorsi di formazione iniziale ed in servizio tali da porre le premesse perché la professione docente non sia “conquistata” una volta per tutte, ma si configuri come una professione in progress – in linea, del resto, con quanto sta accadendo per tutte le professioni e, in specie, quelle intellettuali – capace di rispondere (attraverso un processo di continua ri-attualizzazione) alle esigenze di un’educazione e di una formazione scolastica sollecitate da continui cambiamenti. Secondo ‘Scuola Italiana Moderna’, questa regola generale «va “spalmata” in modo uniforme sui diversi livelli scolastici, sfuggendo all’antico (ma anche sempre ricorrente) pregiudizio secondo cui la preparazione dei docenti andrebbe commisurata, in termini di anni richiesti per la formazione, in rapporto ai livelli di scolarizzazione (meno formazione iniziale per scuola dell’infanzia e primaria, più formazione iniziale per le scuole secondarie). Occorre invece avviarsi per un’altra strada: prevedere un’uguale durata della formazione iniziale (principio dell’unitarietà della funzione docente), anche se articolata al suo interno in rapporto alle esigenze di ciascun grado scolastico (principio della differenziazione delle competenze). I due princìpi appena indicati vanno integrati da un terzo principio e cioè quello dell’omogeneità del modello formativo, ovvero un unico modello ordinato in tre segmenti tra loro interattivi (conoscenze disciplinari, competenze nelle scienze dell’educazione e pratica professionale), anche se calibrati, per quanto riguarda i crediti, secondo modalità coerenti con i diversi gradi nei quali i docenti sono destinati ad essere impiegati». Per Sim, la sede ordinaria della formazione iniziale è quella delle Facoltà universitarie, integrata e arricchita dalla frequenza di attività orientate all’inserimento nella professione (prima e subito dopo l’inquadramento in ruolo) organizzate all’interno della Scuola di specializzazione per gli insegnanti, adeguatamente riordinata alla luce delle non sempre positive esperienze che in questi primi due anni di avvio si sono realizzate (totale dei crediti per la formazione iniziale: 300 crediti). In tale attività appare fondamentale l’apporto della Facoltà di Scienze della Formazione sia per quanto riguarda la preparazione dei docenti della scuola dell’infanzia e della scuola primaria (il corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria, già attivo in questa Facoltà, andrà valorizzato per scongiurare il rischio di un “gettito” di docenti insufficiente rispetto alle necessità, contemporaneamente evitando che l’iter conduca esclusivamente alla professione docente nella scuola dell’infanzia e primaria) sia per quanto riguarda l’impianto e il funzionamento della Scuola di specializzazione per gli insegnanti. La rivista bresciana ritiene, inoltre, che «dopo la legge 30/2000, (che peraltro parla anche di differenze e di passaggi), si deve lavorare per l’uguaglianza e per l’unitarietà dei percorsi, senza però mortificare le differenze legittime». In modi diversi, sono molti a condividere questi medesimi orientamenti. Solo il Conapi (Coordinamento nazionale presidi incaricati) reputa esplicitamente che la formazione degli insegnanti possa continuare ad essere differenziata: una deve riguardare la scuola materna ed elementare, l’altra la scuola secondaria: media, superiore e la formazione professionale. E in maniera meno perentoria sulla stessa linea è l’Andis, secondo il quale la formazione iniziale degli insegnanti di tutti gradi scolastici deve essere di livello universitario, ma differenziata in ordine all’età degli studenti e delle specificità didattiche.

Le associazioni professionali

Secondo il Cidi il profilo professionale del nuovo docente si deve costruire nell’incrocio di quattro grandi aree di competenza: competenze disciplinari aggiornate alla cultura del novecento: padronanza del proprio sapere disciplinare, consapevolezza dei nuclei centrali delle discipline e delle loro aree di confine; competenze relative alla mediazione culturale: capacità di utilizzare le discipline a seconda dei livelli di scolarità, capacità di progettazione educativa e metodologico-didattica; competenze psicopedagogiche e relazionali; competenze organizzative che si esprimono da un lato nelle attività relative al progetto educativo e dall’altro nel loro coordinamento. L’insieme di tali competenze identificano una figura professionale cui va riconosciuta l’unicità della funzione. Ciò significa che la specificità della professione è quella dell’insegnamento-apprendimento. Specificità che, in rapporto ai diversi ordini di scuola, si arricchisce e si articola per corrispondere ai bisogni e alle caratteristiche delle diverse tappe di scolarità. Nel quadro dell’unicità della funzione è importante riconoscere un aspetto dinamico della professione docente rappresentato dalle varie articolazioni del lavoro e dall’assunzione di responsabilità, determinanti per la qualità del “fare scuola”, e finalizzate al miglioramento dell’attività di insegnamento/apprendimento. Il terreno da privilegiare per il lavoro individuale e collegiale è quello della ricerca e della sperimentazione metodologica, disciplinare e didattica, in funzione delle quali andrebbero pensati l’assetto organizzativo, gli spazi e i tempi della scuola: le istituzioni scolastiche come centri autonomi di ricerca, sperimentazione, progettazione. Questo dovrebbe essere il criterio anche per ripensare la formazione in servizio. Agli insegnanti, per crescere professionalmente, non servono i grandi piani nazionali di aggiornamento costruiti con logiche che non rispondono ai loro bisogni. Servono servizi e supporti di vario tipo: centri di documentazione, biblioteche e laboratori, luoghi di coordinamento e raccordo della ricerca e della riflessione sulla didattica dove possano avvenire scambi, confronto tra scuole, dove si possano trovare consulenze qualificate.

Anche l'Aimc ritiene strategico il problema della formazione dei docenti. Le proposte e le elaborazioni con le quali in questi anni l'Associazione ha contribuito a dissodare la "questione", hanno un preciso e costante obiettivo: lo sviluppo della professionalità docente in termini unitari e di pari dignità. La formazione si pone, infatti, come esigenza ineludibile per ogni professionista di scuola, indipendentemente dal grado e ordine di scuola in cui opera. Va assicurato al docente un profilo di persona colta, ben attrezzata, mediante una formazione iniziale che si configuri come percorso di studi con tratti comuni in termini di competenze di base, di durata e qualità, nonché tratti di opportune specificazioni. L'Aimc, pertanto, pensa una formazione iniziale che si caratterizzi, soprattutto, per: capacità di favorire lo sviluppo culturale, sociale ed etico della professione docente; possibilità di affinare la disponibilità al cambiamento ed all'innovazione; significatività di piani di studio "liberanti ed orientanti le persone"; stretta correlazione alla formazione in servizio. Secondo il Movimento di Cooperazione Educativa (Mce) si tratta di scegliere decisamente la prospettiva la progressiva attuazione di un ruolo unico docente che abbia come punti forti e qualificanti: la condivisione del compito; la progettazione collegiale come identità di istituto; l’assunzione di una metodologia di ricerca-azione; l’imparare a imparare dalla pratica; l’osservazione; la cura della biografia professionale, della propria storia cognitiva, del proprio stile di insegnamento. L’As.Pe.I. sottolinea, infine, la necessità di prevedere un’area pedagogica (o almeno un indirizzo) nell’articolazione della scuola secondaria, ricordando che questa presenza trova le sue ragioni, oltre che nel dovere di questa istituzione di incoraggiare le attitudini e le “vocazioni” degli adolescenti in considerazione del loro diritto di “orientarsi” anche alle professioni educative e alla prosecuzione degli studi nel settore della formazione, nelle potenzialità formative della pedagogia, la quale, pur nella sua specificità, si apre ad un “cercle” di scienze che studiano l’uomo da diverse prospettive, utilizzandole per conoscere e coltivare quella educativa, favorendo quindi l’interdisciplinarità. A questo indirizzo di studio si chiede di coltivare la sensibilità e le attitudini educative nell’età adolescenziale e di promuovere l’intelligenza pedagogica dell’educazione e della sua rilevanza sul piano sociale e la capacità di progettazione formativa.

L’As.Pe.I. inoltre richiama l’attenzione sull’opportunità di consentire a tutti gli studenti della scuola secondaria un approccio “al sapere pedagogico”. L’incontro con la cultura dell’educativo infatti può favorire l’orientamento e l’autoformazione dell’adolescente e la comprensione dell’importanza dell’educazione agli effetti della crescita personale e comunitaria, della cultura e del significato della solidarietà “intellettuale” ed etica.

La voce sindacale

La Cgil ritiene che la legge 341 abbia avviato la formazione iniziale specialistica degli insegnanti, ma non sia sufficiente a corrispondere alle dinamiche riformatrici in atto. In questo senso « devono essere superati i punti deboli della legge 341/90 che stanno emergendo chiaramente: la monodirezionalità dei corsi di laurea di Sfp e il mancato coordinamento con nuove forme di reclutamento dei docenti. Il potenziamento dell’identità professionale del lavoro nella scuola rende necessaria una formazione con un profilo professionale docente costituito da un sapere (competenze disciplinari e pedagogiche) un saper fare ( competenze metodologico didattiche e organizzative) ed un saper essere ( competenze relazionali e di ricerca ), tra loro correlate ed interagenti». Secondo la Cgil è necessario inoltre uno sviluppo del rapporto scuola università che può avvenire sia favorendo l’inizio o la ripresa di percorsi formativi universitari da parte dei docenti in servizio, sia assegnando crediti professionali per l’accelerazione di carriera. Quanto alla durata della formazione iniziale di tutti i docenti, la Cgil sostiene che una formazione iniziale degli insegnanti adatta al tempo esige che « pur differenziandosi fortemente in relazione alle specificità dei piani di studio e delle età evolutive, debba essere sostanzialmente equivalente sul piano della durata, al fine di porre le condizioni per un inquadramento unitario della funzione docente ». Tale durata viene identificata in 5 anni.

Per la Cisl scuola un insegnante deve essere in grado di fornire sempre una prestazione di qualità nelle diverse e molteplici dimensioni dell'attività che svolge, nei contenuti disciplinari specifici, relativamente alle metodologie più efficaci per la didattica che sviluppa, nell’ambiente in cui l’apprendimento si sviluppa, rispetto le componenti del processo che presiedono all’apprendimento stesso. L’identificazione professionale dell’insegnante è necessaria e il riconoscimento di una sua competenza formativa può essere la giusta chiave di lettura per chiarire meglio gli ambiti della sua specializzazione di lavoro. Conseguentemente la formazione del futuro insegnante deve basarsi su un curricolo universitario unitario nell'ambito del quale, sottolinea con originalità questo sindacato, siano «affrontate anche le problematiche svantaggio, dell'handicap, dell'integrazione e trovino risposte le specificità e le articolazioni professionali richieste dalla scuola dell'autonomia». Tale percorso deve, ovviamente comprendere e soddisfare le due componenti professionali di fondo, quella che riguarda i contenuti del sapere formale (o del saper fare formale) e quella che riguarda tutto quello che serve perché, attraverso i contenuti del sapere e del saper fare, si riesca a rendere l'esperienza educativa di un giovane gratificante e fruttuosa. Preparare e formare una professionalità di questo tipo non è semplice perché richiede di saper progettare interventi che non riguardano solo il momento del reclutamento (e le modalità attraverso cui si effettua) ma anche tutto un corredo di condizioni che sono quelle che servono per svolgere quotidianamente il lavoro di insegnante. Significa pensare ad una scuola dove gli spazi, i tempi e i modi del suo lavoro consentano all'insegnante di svolgere un'attività di grande impegno come può essere quella di un vero e proprio ricercatore educativo che si muove in un ambiente favorevole e ricco di risorse materiali ed umane.

Per essi dovranno prevedersi percorsi secondari ed universitari che realizzino l’unicità della funzione docente con attenzione alle diverse articolazioni ed alle età degli alunni, ma senza gerarchizzazioni professionali. Il percorso universitario dovrà garantire, già dall'inizio, la possibilità di passaggio nei diversi cicli (si pensa a percorsi integrativi, riconversioni, rientri in formazione, periodi sabbatici) e deve far conseguire un titolo di laurea spendibile nel campo della formazione intesa nel senso più lato. Secondo la UIL Scuola bisogna intervenire sulla formazione degli insegnanti dei diversi segmenti formativi e dell’istruzione. Nella revisione dei percorsi di studio per l’accesso all’insegnamento si dovrà però evitare una eccessiva caratterizzazione del corso che potrebbe prefigurare una riduzione delle opportunità di accesso al mondo del lavoro da parte degli aspiranti stessi; si devono cioè individuare corsi universitari diversi, ma comunque equivalenti alla laurea, evitando durate di corsi differenziate in relazione a diversi ordini e gradi di scuola.

L’Unicobas, infine, mentre chiede di collegare reclutamento e formazione iniziale, sottolinea l’opportunità di creare un canale di flusso verso l’università per assorbire i docenti di tutti gli ordini e gradi in funzione di tutoraggio e ricerca, nell’ambito della nuova formazione di base relativa all’insegnamento.

Altre voci

Ad avviso dello Cnos scuola dei Salesiani «la formazione dei docenti e degli operatori di formazione professionale va fatta in sinergia tra scuole/ centri di formazione professionale ed enti di formazione accreditati contemporaneamente ai curricoli accademici o professionali di obbligo». In questo senso va recuperata una tradizione viva nella scuola elementare, ma assente negli altri ordini di scuola.

Medesima esigenza è avanzata dal Msac. Secondo il Movimento Studenti di Azione Cattolica la formazione iniziale dovrebbe prevedere forme di tirocinio presso le scuole in cui deve essere valorizzata la funzione della scuola stessa e non solo dell’università. La scuola va concepita come laboratorio di “ricerca” educativa e didattica, secondo quanto previsto dal regolamento sull’autonomia, e messa in grado di esprimere una più forte soggettività.

L’Age reputa che « la formazione iniziale e ricorrente dei docenti vada ulteriormente rivista ed aggiornata». In particolare, l’Associazione, insiste affinché «si prevedano nei programmi specifiche discipline per preparare i docenti ad un’interazione positiva ed efficace con le famiglie. A questo fine stiamo realizzando un progetto europeo in collaborazione con facoltà universitarie italiane, francesi ed irlandesi».

La Filins reputa necessaria una maggiore « specificità dei corsi universitari in relazione ai vari ambiti di attività professionale, con ampio spazio per la dimensione europea della formazione».

Prisma avanza due idee: la selezione dei docenti deve passare attraverso le università; contro il modello adottato dalla riforma universitaria, il 4+1, laurea più anno i carattere prevalentemente pedagogico-metodologico, deve diventare la nuova formula della formazione iniziale.

Lo Cnadsi giudica la Raccomandazione «non molto chiara. Non si comprende in particolare che cosa si intenda per “linee di formazione iniziale” e se per “cicli scolastici” si intenda “gradi” di scuola o altro». In ogni caso, lo Cnadsi ribadisce il concetto «che gli insegnanti vadano preparati ed esaminati concorsualmente in relazione specifica ai loro compiti professionali, escludendo nel modo più assoluto abilitazioni o classi di concorso valide “per tutte le stagioni”, vale a dire per diversi gradi scolastici, o, nell’ambito dello stesso grado, per tipologie curricolari distinte che richiedano perciò specifiche competenze. Ad esempio, prendendo come riferimento le attuali distinzioni, non è la stessa cosa insegnare Italiano nella scuola Media o in una classe di Ginnasio-Liceo classico; non è la stessa cosa insegnare matematica in un Istituto Professionale o in un Liceo Scientifico».

Per ‘Tuttoscuola’ la formazione iniziale dei docenti deve certamente tener conto dell’assetto istituzionale e ordinamentale dell’offerta di istruzione e formazione che si andrà configurando, ma anche delle esigenze della formazione continua e permanente (lifelong learning), e delle prospettive aperte dall’e-learning, che modificano profondamente il ruolo dell’insegnante, facendogli assumere nuovi compiti, anche in rapporto ad una utenza che sarà sempre più complessa e differenziata rispetto a quella tradizionale. «Tracciata la linea di riforma del nuovo sistema di istruzione e di formazione occorre dunque investire sulla formazione iniziale degli insegnanti, superando l’attuale situazione figlia di una storia di ordinamenti scolastici separati. La riforma del 3+2 può consentire di investire in termini di formazione iniziale di base per tutti i docenti e di successiva specializzazione per gli ambiti di intervento. Una formazione iniziale a triennio comune può favorire nella nuova scuola di base la realizzazione dell’unica funzione docente e fors’anche, con gradualità e flessibilità, il raggiungimento del ruolo unico».

Per la rivista ‘Rassegna dell’istruzione’ la "semplice" individuazione di ambiti conoscitivi standard (disciplinari/ pedagogico-didattici /di organizzazione curricolare/di gestione della classe) non è sufficiente per porre le basi di una efficace formazione iniziale. È necessario, invece, «approfondire l'analisi allo scopo di individuare non solo le categorie conoscitive che compongono il bagaglio culturale e professionale dell'insegnante, ma per evidenziare anche le "fonti" da cui esse vengono ricavate e le modalità di interazione che si sviluppano nell'esercizio della quotidiana pratica didattica. Un punto al riguardo appare meritevole di attenzione. Quello di inserire in tale itinerario formativo uno spazio adeguato a quell'insieme di criteri e comportamenti che fondano le scelte didattiche degli insegnanti più preparati. Raccogliere quindi queste conoscenze, per lo più di tipo "pratico", derivate dall'esperienza per costituire una vera e propria letteratura capace di evidenziare regolarità, princìpi, casi emblematici. Una vera e propria "storia della pratica" che, come avviene in altri ambiti disciplinari (dall'architettura alla giurisprudenza, alla medicina) possa rappresentare un oggetto di riflessione e di studio a tutti gli effetti.

‘Orientamenti pedagogici’ propone una formazione iniziale degli insegnanti e dei formatori che abbia articolazioni e specificazioni interne ai cicli di istruzione e che preveda fin dall’inizio la possibilità di transitare nei diversi cicli scolastici, mediante studi integrativi, riconversioni, rientri in formazione (magari maturando periodi sabbatici o di aggiornamento concertati e stipendiati). La specificità della formazione docente chiede, inoltre, secondo questa rivista, non solo di collegare formazione iniziale e formazione continua, ma anche di caratterizzare già la formazione iniziale nel senso di una virtuosa congiunzione di teoria e pratica, di saperi frutto di esperienza e di saperi scientifici, «curvati» pedagogicamente e didatticamente già nel loro apprendimento universitario, di disciplinarità e di aperture interdisciplinari e globalmente culturali, di metodologie e di «ragioni» ispirative in una prospettiva di “apprendere ad apprendere” che sembra essere la caratteristica di ogni educazione minimamente attenta alla contemporaneità storica ed esistenziale.

Dissonante la posizione di ‘Edav (educazione audiovisiva)’. A suo avviso, la formazione didattica e comunicativa va affrontata non all’Università, bensì in corsi metodologici pratici da realizzarsi anche con periodi di vero e proprio insegnamento a fianco di insegnanti di provata capacità didattica.

Sulle Ssis

La Crui difende le scuole di specializzazione e allo stesso tempo la convinzione di una formazione iniziale dei docenti di durata non inferiore ai 5 anni ma non superiore ai 6, trovando « il giusto raccordo tra formazione disciplinare e formazione professionalizzante nell’ambito della nuova architettura universitaria». Valuta inoltre positivamente l’esperienza degli insegnanti supervisori del tirocinio coinvolti nelle Ssis. Anche per l’Apef si tratta di mantenere e valorizzare le Ssis. Secondo Clotilde Pontecorvo, della Ssis Lazio, non si tratta di "prevedere linee di formazione iniziale degli insegnanti" in quanto esse sono non solo previste ma in parte (scuola secondaria) già attuate nella Scuola di Specializzazione. Eventualmente si tratta piuttosto di "valutare" le scuole e di produrre cambiamenti conseguenti. Un punto tuttavia importante riguarda il raccordo tra le nuove lauree universitarie e la scuola. Per la formazione iniziale degli Insegnanti della Scuola Secondaria (tanto Secondaria di I grado quanto Secondaria Superiore) e forse anche per quelli della primaria, riteniamo che siano sufficienti 300 crediti. In concreto, si tratta di una Laurea disciplinare (3 anni), seguita dalla Scuola di Specializzazione (2 anni). L'accesso alla Scuola dovrebbe avvenire, di norma, dopo la laurea triennale. Si possono tuttavia richiedere crediti aggiuntivi specifici per le abilitazioni multiple tipo "matematica e fisica" o "italiano, latino e greco". Sono necessarie integrazioni dopo la laurea e prima della SSIS, solo se le SSIS ritengono che i crediti conseguiti durante la laurea non siano sufficienti per la classe di abilitazione (magari composita) a cui si aspira. A questa linea si ispirano altri interventi di docenti e direttori delle Ssis esistenti. In questo contesto va anche segnalata la rivendicazione del ruolo positivo della Ssis avanzata dai supervisiori per il tirocinio, che distaccati a metà servizio dalla scuola per seguire gli specializzandi, osservano che la loro esprienza arricchisce sia l’università sia la scuola. Secondo l’Associazione Dirigenti di Scuole Autonome e Libere(Disal) le scuole di specializzazione per l'insegnamento sono state una attuazione rovinosa di un principio giusto. Se è chiaramente necessario completare la formazione culturale universitaria con una formazione psico-pedagogica e con un solido tirocinio, «è assurdo invece (come tutte le scuole universitarie hanno fato) perpetuare insegnamenti delle discipline già seguiti, caricare di una massa oraria enorme il vario didatticismo, imporre un balzello dai due ai quattro milioni l'anno alla preparazione ad una professione già abbondantemente in altri modi scoraggiata, ridurre il tirocinio ad un incidente di percosso, solo per elencare gli aspetti più deleteri». Per la Disal occorre ridurre la specializzazione ad un solo anno universitario organizzato in collaborazione con le associazioni professionali dei docenti e prevedere un altro anno di forte tirocinio guidato dentro una singola scuola, già in una qualche forma riconosciuto sul piano contrattuale e con una selezione finale dove a prevalere non sia il giudizio dell'università ma, pur con essa, dell'ambito di tirocinio. in tal modo si andrebbe anche verso una piena valorizzazione della professione docente, dove i docenti già in servizio sono coinvolti e cointeressati ad una vera qualificazione della preparazione all'esercizio della professione.