INTERVISTA A ROBERTO MARAGLIANO
SUL TESTO PRESENTATO
DALLA COMMISSIONE BERTAGNA
La legge n° 30 di Riordino dei cicli
scolastici, è stata approvata nel febbraio del 2000. Il 20 dicembre 2000
il Parlamento ha approvato il Programma di progressiva applicazione delle
legge. Il Governo Berlusconi, omettendo di completare l’iter del Regolamento di
attuazione, non ha dato attuazione ad una legge dello Stato interrompendo così
l’erogazione di un pubblico servizio. La Commissione Bertagna, costituita
dal professore di Bergamo e da altri quattro esperti, in assenza di una
esplicita proposta alternativa, ha compiuto varie iniziative di consultazione i
cui risultati effettivi sono tuttora ignoti.
Anche il testo redatto dal prof. G.Bertagna,
nella sua stesura finale, era ignoto agli altri quattro componenti della
Commissione come ha dichiarato alla stampa il prof. S. Tagliagambe.
Prof. Maragliano quali sono le Sue considerazioni in merito?
Anzitutto occorre che io
faccia una premessa.
Sono certo disposto a misurarmi con quella che ormai molti chiamano la
controriforma Moratti, ma a patto che si possa riflettere, contemporaneamente,
e in forme chiare e oneste, sulla strada fin qui percorsa e sulle molteplici
ragioni dello sbocco attuale.
In altri termini, ha senso parlare del progetto Moratti solo se assieme si
parla del perché il progetto Berlinguer (direi di più: la riforma Berlinguer)
ha avuto lo sbocco che stiamo constatando. Non vorrei che la pur legittima
lotta anti-controriforma ci esimesse dal capire cosa non è andato, cosa non ha
funzionato nella riforma fatta (o, più correttamente, nella riforma formalmente
sancita).
Questa mia esigenza riflette il disorientamento non di chi si vede sottratto
adesso un risultato che giudicava acquisito ma di chi ha avuto e ha tuttora
l’impressione che quel risultato abbia cominciato a sottrarre forza a se stesso
fin dal momento in cui è stato acquisito, cioè abbia iniziato a morire nel
momento stesso in cui veniva alla luce.
Dobbiamo confrontarci di più e meglio sulle ragioni che hanno portato un’idea
importante e feconda (il valore progressivo dell’universalità/unità della
formazione) a scoprirsi esausta nel momento in cui, finalmente, dopo trenta e
più anni di elaborazione e di tensione, trovava un riconoscimento legislativo.
Perché, io chiedo, quest’idea si è mostrata improvvisamente svuotata di una
parte del suo senso, o almeno non così piena di significato ideale e operativo
come sembrava prima, e perché tutto ciò è avvenuto fin dal momento del varo
della riforma dei cicli, o addirittura prima?
Se non ci si impegna in questa critica (un tempo si diceva anche
‘autocritica’), il confronto con il progetto Moratti rischia di risultare
sterile, un semplice contentino ideologico o psicologico, un alibi.
Dunque, discutiamo di progetto Moratti ma anche di riforma Berlinguer, e non
nascondiamoci che il nuovo governo ha dovuto lavorare poco per smantellarla,
quella riforma, avendola ereditata – come ho detto e ripeto – esausta fin dai
primi vagiti.
Lei afferma, quindi, che la
mancata attuazione della riforma dei cicli non è dipesa univocamente dal
governo attuale, ma deriva anche da processi di lungo periodo preesistenti
all’attuale legislatura.
Su questo delicatissimo tema
ho le mie idee, come si è potuto constatare prima, e mi spiace se, nell’attuale
vuoto di elaborazione di temi scolastici autonomi, che sembra attanagliare
l’area dell’Ulivo, queste appaiono pregiudizialmente negative. Sono negative,
sì, ma non pregiudizialmente. Se il confronto sul perché e il percome della
riforma dei cicli fosse in atto (cosa che non è), idee come le mie potrebbero
(come di fatto vorrebbero) confrontarsi con altre, auspicabilmente più
positive. In attesa di ciò, espongo un’altra idea, che va in coppia con quella,
enunciata precedentemente, sullo svuotamento del processo di riforma, avvenuto
in prima battuta per ragioni endogene.
Questa mia seconda idea è presto detta: si tratta di un’ipotesi di lavoro.
La riforma dei cicli potrebbe esser vista come la cartina di tornasole dei
limiti di ciascuna delle anime politiche che un tale progetto hanno contribuito
a elaborare e portare al successo (un successo soltanto formale, ripeto). Nelle
ristrettezze di un intervento estemporaneo come questo, mi si scuserà se vado
per schemi, per sciabolate, e se individuo solo tre soggetti (del resto i
principali), dei molti che bisognerebbe chiamare in causa.
Per primo, ovviamente, il partito di riferimento dei due ministri della
Pubblica Istruzione (e le sue aree di attrazione, sul versante sindacale e
associazionistico), che si è trovato, nel pieno di questa vicenda, lacerato da
due tensioni, quella utopistica (cambiare radicalmente l’impianto della scuola)
e quella impiegatizia (non scontentare gli insegnanti, soprattutto evitare una
spaccatura interna al corpo); non basta, a questa lacerazione si è aggiunta
l’altra, storica, tra un’anima primaria e ‘popolare’ e un’anima liceale e
‘aristocratica’. Nella sua configurazione iniziale il progetto Berlinguer
premiava il primo corno di queste due tensioni, nella sua sanzione e
nell’inizio dell’attuazione la riforma è stata via via assorbita dal
secondo corno.
Per secondo, il partito cattolico, o meglio quel che restava (e resta) di
quella realtà. E’ questo il problema. Ho l’impressione che il modello di scuola
che abbiamo avuto fino ai giorni nostri e dal quale abbiamo tratto idee e
tensioni per il cambiamento sia stato uno dei capolavori politici della
Democrazia Cristiana (e dell’intero quadro politico che la esprimeva): un’istituzione
formalmente laica e intimamente religiosa, pubblica sul piano della forma e
privata sul piano della sostanza ideologica, tesa ad una missione educativa
(più che di istruzione) e tanto generosa e garantista nella salvaguardia di una
figura generica di docente scolastico quanto indisponibile a sviluppare e
articolare tale figura sul piano tecnico e remunerativo. Mutata la
situazione, scomparso quel partito e quel quadro, la scuola, quella scuola si è
sfarinata. Ma si è anche sfarinata, almeno in parte (se non altro la parte di
cui stiamo vedendo le macerie) la prospettiva di un serio cambiamento che
nascesse dal suo interno. Non sto rimpiangendo quella situazione. Sto
semplicemente dicendo che molte delle difficoltà del presente hanno le loro
radici in quella realtà. La divisione politica interna all’area cattolica (più
altri aspetti, evidenti per esempio nella ‘dialettica’, diciamo così, tra AIMC
e UCIIM, oppure nel diverso orientamento ‘politico’ tra la rivista per la
scuola primaria, favorevole alla riforma, e le due per la scuola secondaria,
sfavorevoli, della medesima editrice La Scuola) ha certamente influito
sull’indebolimento della riforma stessa, se non altro perché ha consentito alla
Chiesa di intervenire più direttamente di quanto non facesse prima (quando
c’era comunque la mediazione unitaria DC), e di far valere sommessamente prima
(e dopo sempre più platealmente, vedi oggi) i suoi interessi ideologici e
materiali, come non era più capitato dai tempi del fascismo.
Terzo soggetto, il mondo imprenditoriale, pronto a sostenere, tramite
Confindustria, le motivazioni economiche e sociali del progetto Berlinguer,
almeno nella prima fase, ma reticente, imbarazzato, diviso e tutto sommato
assente proprio nel momento in cui (a riforma varata) più serviva un impegno
attivo, e non di vertice ma di cultura, quindi di consenso sociale. Non è
dunque un caso né una novità se oggi, di fronte al progetto Moratti, i
distinguo, gli accademisti, gli imbarazzi prevalgono sulle fanfare.
Veniamo al documento Bertagna.
Penso che si possa dire che
il documento Bertagna, al di là delle fumosità e delle contraddizioni di
superficie, è l’esito naturale del processo in cui ho visto implicati i tre
soggetti di cui ho parlato (evitando di misurarmi con altri, se non altro per
ragione di spazio), un processo, dunque, iniziato prima della fine della
precedente legislatura e proseguito, come sappiamo, con ben altra velocità e
esplicitazione nella nuova.
Lo stesso si potrebbe sostenere a proposito della scelta del Ministro attuale
di adottare un simbolo come quello degli Stati Generali. Se non sbaglio,
questi vennero promossi dall’aristocrazia con l’intento di ridimensionare
l’assolutismo della monarchia, ma le cose andarono in altro modo, sfuggendo
dalle mani degli stessi promotori.
Cosa voglio dire? Che c’è il rischio che in quel di Foligno si vada ben al di
là dei confini civili (anche se inaccettabili nella sostanza) del discorso
Bertagna.
Questa è la cosa che più temo. E intendo essere chiaro, su questo punto.
Che sia in atto una sorta di Vandea pedagogica è difficile negarlo.
Personalmente, però, non sono tanto preoccupato per le misure (o le
contromisure) che potranno essere prese sul piano istituzionale (ci sarà, io mi
auguro, tempo e modo di tornare su di esse, in sede parlamentare, se e quando
le cose cambieranno), quanto lo sono per il tipo di autorizzazione che viene
data a idee, concetti e principi che fino ad oggi avevano scarsissima se non
nessuna circolazione, almeno tra le persone in grado di parlare (e scrivere) pubblicamente.
Sono insomma preoccupato per le parole che si sentono oggi e per le ideologie
che stanno riemergendo, dopo un lungo periodo (una parentesi?) che ha inizio
con gli anni Sessanta.
Un edificio nuovo (o ricostituito ad immagine dell’antico) lo si potrà
cambiare, le idee no, soprattutto quelle di bassa lega, quelle semplicistiche:
una volta che abbiano conquistata una legittimità ‘ufficiale’ faranno proseliti
in ogni dove, e sarà difficilissimo levarsele di torno. Se si dà la stura a
certi discorsi (tipo: non si cava succo da una rapa; non c’è modo di
raddrizzare le gambe ai cani; e via dicendo), non ci sarà diga che potrà
contenerli.
Un esempio.
Uno solo tra i molti
possibili.
Prendo l’editoriale domenicale del ‘Corriere della Sera’ (9 dicembre 2001),
scritto da un nome di tutto rispetto (Alberto Ronchey) e leggo: “… è manifesto
che l'istruzione pubblica versa in un cronico malessere, o è gravemente malata
negli studi medi e superiori. Fra le cause oggettive di simili condizioni,
risultano evidenti le insufficienze dei bilanci ministeriali e delle selezioni
sia tra gli studenti sia tra i docenti. Al di là d'ogni giudizio sulle
contestazioni attuali, si deve risalire all'origine del dissesto, che fu dovuto
all'ambizione ingenua o millantatoria di elargire l'istruzione superiore per
tutti o quasi dopo la «scuola dell' obbligo» senza commisurare mezzi e fini”.
Mi chiedo: che cosa diventerà, questa idea, una volta che verrà riprodotta e
tradotta in linguaggi più correnti e meno contenuti? cosa essa diventerà nella
bocca dell’insegnante frustrato e appesantito dalle novità del mondo? cosa ne
sarà di quest’idea quando, com’è prevedibile, resterà solo la prima parte della
frase (l’ambizione ingenua o millantatoria di elargire l’istruzione superiore
per tutti) e cadrà la seconda (senza commisurare mezzi e fini)?
Un’ideologia non dissimile potrebbe venir fuori dall’opera di circolazione e
traduzione in senso comune dei contenuti del documento Bertagna. E dovrebbe
risultare non diversa da quella che aveva cominciato ad esercitare la sua
azione, anche all’interno dell’Ulivo!, con le perplessità diffuse sul varo
della riforma dei cicli, o anche prima, con il rifiuto di discutere i criteri
stessi di una possibile revisione dei saperi scolastici.
Il disegno Berlinguer e soprattutto il suo demone (fare di una primaria lunga
il centro dell’edificio scolastico) sono stati annullati da quello che si
potrebbe chiamare ‘il movimento dei licealisti’, dai difensori di un’idea
riservata (e tutto sommato aristocratica) di formazione secondaria, difensori
che stavano e stanno tuttora anche dentro il comparto universitario (basterà
far riferimento al penoso confronto, che si è prolungato nei mesi finali della
precedente legislatura, sull’opportunità di rivedere la formazione universitaria
degli insegnanti e renderla coerente con i cicli scolastici, conclusosi con un
nulla di fatto, cioè con il mantenimento dello status quo e quindi anche con un
pesante vulnus inferto alla riforma universitaria)
A questo punto mi si potrebbe obiettare: come mai questi ‘licealisti’, questi
‘secondaristi’ non reagiscono oggi alla proposta di togliere un anno alla
scuola secondaria superiore? come mai non strillano come e più di quanto non
hanno fatto con Berlinguer?
Perché, rispondo, il progetto nuovo dà a questi signori (di destra e di centro
e di sinistra) quello che di fatto essi vogliono: vale a dire una scuola aperta
solo a coloro che se la meritano, una scuola per i felici pochi.
Può spiegare meglio questo
passaggio?
Lo faccio subito.
Ti tolgo un anno, dice la Moratti al licealista, ma ti libero della zavorra
costituita dagli studenti incapaci e immeritevoli (che verranno instradati
nella formazione/avviamento) ed anche dalle materie secondarie e manesche (che
andranno nelle aggiunte dopocurricolaristiche dei laboratori).
Dice di più, dice: “sta pure fermo, che fai bene!”. Cito dal documento
Bertagna: “Negli ultimi vent’anni, tutte le ricerche di psicologia,
sociologia ed economia dell’educazione hanno dimostrato che la causa principale
dei fallimenti scolastici non è, in genere, la scuola, ma l’extrascuola, in
particolare l’ambiente sociale e familiare di provenienza degli alunni … Il
sistema educativo di istruzione e di formazione, dunque, sebbene desideri
interpretare il ruolo di Davide, è, nel complesso, perdente davanti al gigante
Golia dell’emarginazione sociale strutturale”. Dunque, perché darti tanto da
fare? Basterà riconoscere che le cose stanno così, né possono andare
diversamente: la scuola può fare poco o niente, per cambiare le cose. Insomma,
sei nel giusto a fare poco o niente, o ad opporti a chi vuole cambiare le cose,
caro insegnante. Noi ti aiuteremo, in questo immobilismo, e semplifichiamo
ulteriormente il tuo lavoro, liberandoti della zavorra!
In questo, la Moratti assume i contorni di una Maria Antonietta alla rovescia:
“Loro (i comunisti, ovviamente!) volevano dare brioches, io, con il tuo aiuto
di insegnante immobile, darò ai giovani che protestano/pretendono scuola quel
che effettivamente meritano, cioè il pane!”.
Ma, al di là di questo nucleo duro del documento Bertagna, il nucleo di
pedagogia aristocratica e della vocazione che ahimé rischia di trovare consensi
in ogni dove, c’è un altro aspetto che merita di essere segnalato con accenti
preoccupati e che fin qui non ho visto messo in luce dai commentatori. E’ la
chiusura totale e ferrea del discorso entro i recinti della pedagogia e delle
istituzioni formative. Non c’è respiro storico, né cronachistico né tantomeno
epocale, in tutte quelle pagine. Non c’è il mondo di oggi, con le sue urgenze e
le sue fratture, non ci sono i movimenti attuali delle cose, dei soggetti, dei
simboli. Dire che così ragionando si torna agli anni Cinquanta forse non è
giusto: andrebbe riconosciuto che così si va in un luogo senza tempo.
Un luogo dove sussiste solo l’intelaiatura (e non la sostanza, si badi bene)
della scuola-scuola. E sì che da ogni parte ci dicono che dopo l’undici
settembre il mondo non è più quello di prima: qui invece sta andando a
ricostituirsi come era prima di essere prima!
Si badi bene. Su questo fronte ‘pedagogico’ il documento tocca livelli di
cinismo che mai era capitato di trovare in testi simili. Cito di nuovo: “In una
società della conoscenza, nella quale ogni organizzazione è e si fa
comunicazione e intelligenza distribuita … la centratura scolasticistica, con
tutto il tradizionale armamentario concettuale che l’ha finora seguita
(separazione disciplinare del sapere, antinomie epistemologiche del genere
cultura umanistica, cultura scientifica, cultura tecnico-tecnologica, rigidità
dei tempi e degli spazi, classificazione degli allievi per età invece che per
altri criteri qualitativi molto più flessibili, piani di studio impostati per
coppie oppositive quali discipline comuni e di indirizzo, cultura generale e
cultura professionale, sapere gratuito e sapere utile) non è più
accreditabile”. Sul piano concettuale, condivido pienamente questo
ragionamento, ma personalmente lo intendo come invito a cambiare impianto della
scuola; qui invece viene usato (lo ribadisco: cinicamente) per mostrare la
valenza positiva dell’alternativa alla scuola costituita per un verso dai
luoghi della formazione e per un altro verso dalla possibilità di far prevalere
su tutto la logica delle certificazioni delle competenze (insomma, ancora una
volta: gloria a Golia).
Come prevede che andranno avanti
le cose, nel medio periodo?
In questi giorni possiamo
vedere, per esempio sul fronte giudiziario, come l’allontanamento dalle
prospettive europee non costituisca un problema per l’azione del governo. Molto
del cambiamento introdotto nei comparti scolastici e universitari nel corso
della precedente legislatura è stato fatto in relazione ad un’esigenza di
allineamento a standard internazionali, comunque europei. Si pensava ad una
sorta di ‘moneta unica formativa’.
Le cose, certamente, possono cambiare, anche le scelte politiche di fondo
possono mutare. Mi sembra che l’inversione di tendenza sia già in atto.
Lo si constata apertamente sul fronte universitario.
Qui la riforma era andata più avanti di quanto non aveva fatto quella
scolastica, dunque non poteva essere fermata dal nuovo ministro. E così è
stato. Ma ci sono altri mezzi per impantanare un processo: dal non alimentarlo,
al delegittimarlo, fino al lavorarvi contro. E’ quanto mi sembra si stia
facendo dal MIUR in questi delicatissimi mesi di avvio dell’innovazione
didattica universitaria. Restrizioni finanziarie, accuse di parzialità politica
rivolte agli atenei (impegnati ad attuare, si badi bene, non un progetto dei
comunisti ma una legge dello stato!), messa in forse di quei presupposti di
continuità che garantiscono alle università, ora autonome sul piano
finanziario, la possibilità di pianificare le loro attività. Strette come sono
tra vincoli di attuazione dei nuovi ordinamenti inutilmente capziosi e defatiganti
(regalo del precedente governo) e segnali di smantellamento e di congelamento
(provenienti dal nuovo) le università rischiano di trovarsi nelle condizioni di
quei cani del laboratorio di Pavlov che ricevevano alternativamente un rinforzo
positivo e uno negativo allo stesso stimolo e sui quali si attuava la
produzione sperimentale di nevrosi.
Cosa capiterà nella scuola? Il rischio più grosso è che avvenga quello che sta
già accadendo nelle università: disorientamenti e lacerazioni profonde, nevrosi
insomma, che potranno essere il risultato delle azioni mirate, dirette come
indirette, di delegittimazione dell’istituzione.
Dobbiamo metterci nelle condizioni di prevenire e annullare questi fenomeni.
Lo possiamo fare aumentando il tasso di criticità (e autocriticità) della
nostra discussione e della nostra azione.