Alcuni puntini sulle i dei saggi

di Roberto Maragliano

(29 giugno 1998)



0. Nel giro di pochi giorni, a metà giugno 1998, ho preso parte a due incontri pubblici, a Roma, sui temi dei "nuovi saperi": uno, pacato e raziocinante, con esponenti del Cidi; l’altro, svoltosi in un clima da corrida, con esponenti della Gilda. Le seguenti notazioni, redatte a distanza di una quindicina di giorni, assommano le mie personali reazioni alle due esperienze: il primo punto è dedicato ai lavori della Commissione dei saggi (gennaio – aprile 1997), il secondo al documento dei sei (marzo 1998).

1. Il mandato affidato dal Ministro Berlinguer alla Commissione dei saggi era aperto, e resta tale a distanza di più di un anno dalla conclusione dei lavori.

Non ci si attendeva, da quella prima fase di lavoro, un’elaborazione compiuta e vincolante per successivi decisioni.

Né poteva essere altrimenti, data la natura stessa del compito, che proverei ad esprimere in questa forma: si trattava di interpretare la domanda sociale di formazione, l’insieme di saperi che la collettività nel suo complesso considera riferimenti irrinunciabili per l’azione educativa e istruttiva della scuola. E data anche la composizione anomala del gruppo, costituito, più che da rappresentanti delle diverse istituzioni culturali, da liberi "osservatori del mondo" (ricercatori, industriali, artisti, uomini di scienza, religiosi).

Del resto, credo che tutto si possa dire, riguardo ai risultati delle attività di tale Commissione, escluso il fatto che siano "blindati", vale a dire incontrovertibili e vincolanti.

Altro problema è, ovviamente, come tali risultati sono stati letti e a loro volta interpretati. Qui, al di là di significative accettazioni di una tale piattaforma di discussione, non hanno mancato di venire a galla alcuni vizi di rigidità e di individualismo, tipici di un’intellettualità, accademica e scolastica, non sempre disposta a mettersi in gioco ed accogliere quella che si potrebbe chiamare, anche sul versante scolastico, la "sfida della complessità"; sfida che, a mio avviso, i saggi hanno inteso affrontare.

Vediamo di chiarire questo punto, che non è marginale.

Tra complessità e complicazione passano differenze di non poco conto. La complicazione va indubbiamente combattuta, soprattutto quando è inutile o nasconde interessi di parte. E uno degli strumenti per ridimensionarla è appunto quello di "fare chiarezza", semplificando. E’ probabile che nell’insieme, gli abbondanti materiali della Commissione presentino non pochi elementi di complicazione, e durezze che con tempi più ampi e condizioni di lavoro più distese avrebbero potuto trovare un positivo scioglimento.

La complessità è invece impermeabile, nella sua totalità, ad operazioni di semplificazione. Il tema proposto dal Ministro era complesso e complessa non poteva non essere la sua perlustrazione.

Si trattava di interpretare e di conseguenza delineare le emergenze culturali di una società che deve fare i conti con la perdita di esclusività della formazione scolastica e con l’obiettivo, che discende da questa assunzione, di mettere l’istituzione scolastica nelle condizioni di saper (voler) entrare in un rapporto di dialogo e di collaborazione con le molteplici sedi collettive all’interno delle quali si gioca, in una società complessa come la nostra, la riproduzione del sapere. Dati questi orientamenti, non ci si poteva aspettare, come esito dei lavori, un testo chiuso: né l’abbozzo di nuovi programmi didattici, né la mappa completa dei quadri delle materie. Non era questo che chiedeva il committente, il quale, invece, aveva posto, a mio avviso in modo originale e onesto, il problema di poter disporre di una griglia delle "emergenze epistemologiche", cioè delle cose di cui un giovane cittadino del nostro tempo dovrebbe essere competente e consapevole; in un secondo tempo, da questa griglia avrebbe preso corpo, attraverso una fase ulteriore e più ampia di confronto, una mappa più articolata dei saperi da affidare ad una scuola in via di trasformazione.

Del resto, il modo stesso con cui le attività della Commissione sono state rese pubbliche, attraverso un repertorio ipertestuale di documenti di varia natura, testimonia l’intento dei saggi di sollecitare e non già di chiudere il confronto pubblico. E certamente è anche per questa ragione che non si è inteso approdare ad un documento vincolante, sottoscritto da tutti i membri, ma si è preferito affidare al coordinatore dei lavori il compito di fornirne una sintesi personale.

A proposito di questo aspetto, è il caso di sottolineare, rimandando per una opportuna verifica all’Ipertesto, che della bozza preparata per un’approvazione collettiva (se ne sarebbe discusso alla quinta riunione prevista per l’8 aprile 97) sono stati contestati, da una parte dei saggi (nel corso di quella riunione), molti aspetti importanti di cornice, ma non la sezione contenutistica ("3. Le aree di sapere della nuova scuola"). Questa sezione risulta integralmente accolta nel documento conclusivo a firma del coordinatore, anche a riprova del fatto che, al di là di differenze di idee sull’inquadramento generale dei problema dei saperi e della loro collocazione scolastica, sulla loro provvisoria delineazione c’era concordanza di vedute tra i membri del gruppo (ovviamente, tra i partecipanti). E, visto che ci sono, mi corre l’obbligo di segnalare, a chi non se ne fosse accorto, che la versione a stampa dei lavori della Commissione (n. 78, 1997, di "Studi e Documenti degli Annali della Pubblica Istruzione") non riporta proprio la documentazione più significativa a questo proposito, cioè il documento, datato 4 aprile 1997, e titolato "Materiali redazionali fatti pervenire tra il 18 marzo e il 1° aprile in vista del documento finale della Commissione dei saggi", nel quale come coordinatore raccoglievo i contributi individuali (di Nicola Tranfaglia, Mario Vegetti, Clotilde Pontecorvo, Paolo Damiani, Carlo Bernardini, Antonio Portolano, Vittorio Cogliati Dezza, Carlo Borgonovo, Giovanni Polara, Paul Ginzborg, Luisa Ribolzi) alla redazione del testo collettivo. Non sono responsabile dell’omissione, essendosi il mio lavoro concluso, in quella prima fase, con la consegna dell’Ipertesto al Ministro e al Presidente della Repubblica, il 13 maggio 97, giorno di chiusura ufficiale dei lavori, e con la raccomandazione che eventuali pubblicazioni su carta prevedessero l’inclusione dell’Ipertesto in floppy disk (raccomandazione accolta: nel volume su citato è inclusa una copia in dischetto dell’Ipertesto).

Sulla rispondenza della sintesi da me preparata alle caratteristiche della discussione che si era sviluppata nei quattro mesi di lavori, ognuno può e deve dire la sua, ma a patto, me lo si lasci sostenere, che si tenga conto di quanto è chiarito proprio nelle prime battute del documento stesso:

  1. "’cosa insegnare ai bambini e ai ragazzi delle prossime generazioni’ (l'interrogativo postoci dal Ministro Berlinguer) è questione assai controversa, rispetto alla quale l'esperto non può non essere una collettività senza limiti, destinata a coincidere con la scuola, ovviamente, ma in prospettiva con la società tutta, e con le dinamiche della sua attuale, profonda trasformazione. La risposta a questo interrogativo non potrà mai trovare un punto fermo";
  2. "Quando si affrontano temi di questo tipo, ogni singola competenza, e di conseguenza la tentazione di far centro attorno al relativo ambito di esperienza, deve essere subordinata all'esigenza di ‘pensare in generale’: solo così si può contribuire alla delineazione di una quadro complessivo di competenze e conoscenze irrinunciabili per tutti coloro che escono dalla formazione scolastica. Non è solo lo storico che deve sostenere l'importanza di una formazione storica, la dovranno sostenere il fisico, il musicista, il tecnologo, il linguista, e lo faranno (l'hanno fatto nell'ambito della Commissione) rinforzando una cornice generale di considerazioni di carattere filosofico, sociale, ideologico, epistemologico: in questo quadro di complessità (che significa non più pensare alle articolazioni di una scuola liceale, ma alla costruzione di una solida base educativa per la scuola di tutti) il problema della singola area di formazione perde il suo carattere locale, e diventa elemento di un tessuto complessivo";
  3. "E' opportuno che si consideri programmaticamente aperta l'interpretazione del significato di un simile impegno di elaborazione, cominciando dalla parte che vi hanno giocato i singoli membri della Commissione. Per questo occorrerà prendere in considerazione l'intero tragitto fatto, e le tracce via via depositate. Al di là della sintesi, inevitabilmente parziale, i saggi della Commissione si riconoscono nel complesso del lavoro fatto".

Viene da chiedersi se coloro che in questi mesi hanno rifiutato un tale piano di discorso, non coloro che ne hanno giustamente e costruttivamente criticato gli esiti provvisori, si siano attenuti alle precauzioni metodologiche su riportate.

Ho l’impressione che contributi come quelli di Giulio Ferroni e di Lucio Russo (paradigmatici, per questo aspetto, ed anche per i tempi di pubblicazione: alludo a La scuola sospesa, del primo, uscito per Einaudi a ridosso della conclusione dei lavori della Commissione, nell’aprile del 1997; e a Segmenti e bastoncini, del secondo, uscito per Feltrinelli nel marzo dell’anno successivo, a ridosso della presentazione del documento dei sei) abbiano voluto sottrarsi ad un simile impegno, sia spostando l’ottica del confronto da quello della complessità a quello della semplificazione, e quindi assumendo come dato incontrovertibile l’attuale organizzazione istituzionale (e accademica) delle discipline (della Commissione, lamenta Ferroni, "non fa parte nessun ‘italianista’"), sia giocando, con pochissima discrezione, l’arma della caricatura nei confronti del coordinatore della Commissione, e quindi caricaturizzando l’intera operazione nonché il suo responsabile politico ("l’obiettivo di deconcettualizzare l’insegnamento, espellendo i concetti astratti dalla scuola – sostiene Russo – è evidentemente ben chiaro a Maragliano. In lui l’entusiasmo per le nuove tecnologie è quello tipico dell’acquirente passivo, felice della novità e potenza del nuovo giocattolo", etc.).

Che io possa avere determinate idee sulla scuola, sulla possibilità di cambiarla, anche con la multimedialità, e al limite sul significato da attribuire ad un’operazione come quella dei saggi (idee che non ho mai nascosto e che quanti abbiano un minimo di pazienza potranno trovare espresse nel volumetto Tre ipertesti su multimedialità e formazione, recentemente uscito presso Laterza; elaborazione, è il caso di sottolinearlo, che impegna soltanto il suo autore, e che sarebbe improprio se non disonesto attribuire a Berlinguer), insomma che anch’io, smesse le vesti di coordinatore, possa essere un libero pensatore, è una garanzia che i critici dovrebbero riconoscermi per primi: se lo facessero, cosa che fin qui non hanno fatto, eviterebbero di parlare di una pedagogizzazione (nel senso nemmeno tanto nascosto di una "banalizzazione") del confronto sui saperi (mettendo così in dubbio l’onestà intellettuale di quella trentina di saggi che hanno fattivamente collaborato alla discussione, con i contributi documentati nell’Ipertesto), o di una fantomatica "Linea Berlinguer-Maragliano" (attribuendo al sottoscritto ruoli e funzioni che non ha mai avuto né ha mai desiderato avere).
C’è bisogno di illustrare in che modo questi approcci sono diventati paradigmatici? Forse sì, se non altro per aprire un ulteriore piano di discussione, sulla pigrizia e sull’approssimazione filologica di una parte dell’intellettualità nazionale, e sulla eco che essa talora trova nella stampa.

Mi dispiace, ma debbo partire da un fatto personale.

Nella nota 14 di pag. 98 del suo libro, Ferroni mi fa l’onore di citare una mia dichiarazione giornalistica sul "portato rivoluzionario", in senso epistemologico, del videogioco. Il titolo dell’intervista, correttamente, chiedeva alla scuola di "mettersi in gioco", e il riferimento al videogioco, almeno nella mia intenzione, andava nella direzione di sollecitare la scuola ad accogliere altre forme di intelligenza e di sensibilità, accanto a quella tradizionale della lingua scritta; intelligenza e sensibilità che, a mio avviso, non sono così distanti dall’area del letterario, se è vero che una sostanziosa zona della nostra tradizione artistico-letteraria, pur arrivando alla nostra scuola in forma scritta, scaturisce da culture ancora fortemente impregnate di oralità, di vocalità, e di immaginario visivo non compiutamente alfabetico e alfabetizzabile. Si può non accettare questo approccio "provocatorio", ed eventualmente discuterlo nel merito, bersagliando di critiche i testi nei quali ho tentato di svilupparlo (dal Manuale di didattica multimediale, di Laterza, del 1994, a Esseri multimediali, de La Nuova Italia, del 1996), ma attribuirmi l’intenzione di voler portare i videogiochi commerciali a scuola equivale ad usare un "argomento di fatto" non dissimile da quello che io potrei usare, se volessi seguire lo stile di Ferroni, nell’accusarlo di voler difendere, in tutti i modi e con tutti gli strumenti, il suo manuale scolastico di storia letteraria. Cosa che non mi permetterei mai di fare, anche perché a quell’opera sono legato, certo molto di più di quanto non sia legato, il Ferroni, ai miei lavori. Ma, lasciatemelo dire, non è in scena, qui, un battibecco accademico.

Il fatto è che Russo, il quale ha minori frequentazioni pedagogiche di Ferroni, riprende la stessa citazione mia (ripeto: da un’intervista giornalistica), ulteriormente brutalizzandola e non collocandola più in nota ma nel corpo della sua disanima della Linea Berlinguer- Maragliano, quindi attribuendo idee simili alla Commissione nel suo complesso (li vedete, voi, il Cardinal Tonini, Eugenio Scalfari, Mario Luzi, Antonio Tabucchi, Giuseppe De Rita, etc. a sostenere il valore formativo dei videogiochi?). A questo punto, considerato il successo non solo commerciale del lavoro di Russo (se qualcuno, poi, vuol sapere le mie idee nel merito, può rifarsi sia al mio intervento Sapere mondano, dentro e fuori le mura scolastiche, pubblicato su "il Manifesto" il 29 aprile 1998, sia alla trascrizione del colloquio radiofonico avuto con lo stesso Russo, il 9 aprile 1998), successo che, io penso, sia dovuto anche ad una forte reazione di difesa e di "orgoglio disciplinare" messa in atto da una parte dei docenti dell’attuale scuola secondaria superiore, la formuletta caricaturale del Maragliano "epistemologo del videogioco" (una sorta di buffone tecnologico di corte) è rimbalzata da una gazzetta all’altra, mettendo nel ridicolo non tanto l’autore di queste note, quanto l’operazione di cui è stato coordinatore.

Non basta. Ferroni cita un mio frammento "orale" e ne fa un testo paradigmatico. Russo prende il paradigma e lo proietta su un brano del documento di sintesi (quello in cui si sostiene, punto 2.5, che "gli strumenti multimediali sono estremamente motivanti per bambini e ragazzi, perché non hanno affatto odore di scuola, danno loro il senso di disporre di risorse per il saper fare e consentono di non disperdere, ma valorizzare, in un quadro intellettuale più strutturato, forme di intelligenza intuitiva, empirica, immaginativa, assai diffuse tra i giovani"), senza porsi il problema di contestualizzarlo, vale a dire riportarlo alla discussione fatta, su questo tema, dalla Commissione. Arriva poi il prof. Vincenzo Bugliani, che, nell’aprire l’incontro Gilda richiamato all’inizio, costruisce l’intera sua relazione su questa citazione, anzi su un frammento di essa ("odore di scuola"), considerato offensivo (tra l’altro, se qualcuno volesse andare alla genesi e quindi all’attribuzione di paternità di quel frammento potrebbe riuscirci in modo veloce ed elegante utilizzando l’Ipertesto, mentre rischierebbe di non riuscirci affatto con la versione a stampa dei lavori della Commissione: è prova, anche questa, di "passività" dell’acquirente di tecnologia, o invece di prerogative culturali prima che tecniche della cultura ipertestuale?).

Insomma, la semplificazione regna sovrana, anche da parte dei "maestri", o degli aspiranti tali.

Perché questo avviene? E’ solo un problema di non eccelsa onestà intellettuale, di pigrizia politica e/o culturale?

Non credo proprio. Sono disposto a riconoscere che dietro a queste posizioni "distruttive" c’è tanta passione. Forse, e questo è un problema, ce n’è troppa.

Evidentemente l’operazione dei saggi tocca un nervo scoperto dell’attuale assetto (scolastico, universitario, ma anche ideologico). Reazioni così intolleranti vanno dunque interpretate. Io penso che siano una risposta nervosa e aggressiva al senso più profondo dell’operazione, consistente nella classica denuncia che "il re è nudo". In questo caso, il re era ed è l’assetto attuale delle discipline scolastiche ed accademiche, e la denuncia (della quale la Commissione si è fatta tramite e interprete) non viene dai saggi, ma dalle trasformazioni che le società dell’Occidente post-industriale hanno maturato nel corso dell’attuale secolo, in particolare dalla trasformazione che ne è venuta sul terreno dei regimi collettivi del sapere (delle arti, delle scienze, delle "umanità", ma anche delle sensibilità).

Non mi sembra il caso di ritornare ancora una volta sulla densità delle elaborazioni proposte dalla Commissione, né sulla ricchezza della documentazione fornita.

Può essere invece utile rispondere al partito dei semplificatori riportando qui alcuni passi cruciali di un rapporto redatto, nell’aprile 1998, da Edgar Morin, presidente del Consiglio Scientifico al quale il Ministro dell’Educazione Nazionale di Francia ha dato incarico di organizzare una consultazione e un colloquio sul tema "Quali saperi insegnare nei licei?". Servirà, se non altro, a far riflettere attorno al fatto che problemi di questo tipo non riguardano solo il nostro paese ma sono all’ordine del giorno in altre nazioni europee, e che, quindi, gli interrogativi che ci si pone e soluzioni che si vanno cercando dovranno trovare un loro terreno elettivo nel contesto complessivo della cultura europea (e non, invece, nell’ammiccamento a quella statunitense, come, assai ingenuamente, sostengono i critici irriducibili sopra richiamati).

Dunque, Morin (che non mi risulta essere pedagogista, né vittima del giocattolo multimediale), sostiene che mai come oggi l’insegnamento si è trovato direttamente implicato nelle formidabili sfide della cultura, della civilizzazione, della società.

Quali sarebbero queste sfide?

  1. L’individualizzazione/emancipazione di massa, propria delle società democratiche contemporanee, un processo dentro il quale l’educazione è un mezzo e dovrebbe divenirne un motore, al fine di generalizzare ciò che era tradizionalmente riservato ad una élite.
  2. Il carattere sempre più cognitivo di tutte le attività economiche, tecniche, sociali, politiche e la rapidità delle trasformazioni in questi campi, le quali fanno sì che: l’informazione è una materia prima, che la conoscenza deve padroneggiare e integrare; la conoscenza deve essere continuamente rivisitata e revisionata dal pensiero; il pensiero è più che mai il capitale più prezioso. E qui, per quanto riguarda la scuola, le nuove tecnologie dovrebbero fungere da risorse ausiliarie dell’educatore piuttosto che essere l’educatore strumento ausiliario di queste tecniche.
  3. L’irrompere di una cultura mediatica, esterna alla scuola, ignorata e disdegnata dal mondo intellettuale, mentre la sfera insegnante si chiude su se stessa come una cittadella assediata.
  4. Il processo di autonomizzazione conquistato dal mondo giovanile negli anni 60-70, che ha condotto all’emergenza di una cultura adolescenziale propria e quindi all’autonomizzazione crescente dell’adolescenza in rapporto alla cultura famigliare e alla cultura scolastica.
  5. Il deficit crescente di democratizzazione dovuto all’appropriazione, da parte degli esperti, degli specialisti, dei tecnici, di un numero crescente di problemi sociali e politici vitali, fenomeno che pone il problema storico, ormai vitale, di una nuova democrazia cognitiva.
  6. Infine, l’aspetto che più a che fare con l’insegnamento: il contrasto sempre più ampio, profondo e grave tra un sapere disciplinare specializzato, dunque di fatto parcellizzato e frammentato in elementi disgiunti e compartimentalizzati, e delle realtà o dei problemi sempre più polidisciplinari, trasversali, multidimensionali, transnazionali, globali e, con la mondializzazione crescente, planetari. Fenomeno, questo, che mette a nudo la grande separazione tra la cultura umanistica e quella scientifica: la prima, nella sua vocazione alla riflessione generale sul sapere e all’integrazione personale delle conoscenze, è diventata come un mulino che, privato del grano delle acquisizioni scientifiche sul mondo e sulla vita, gira a vuoto; mentre le seconda, privata di un impulso di riflessività sui problemi generali e globali è privata di pensiero e, dunque, diventa incapace di pensarsi essa stessa e di pensare i problemi sociali e umani che pone.

Di fronte a fenomeni di questa portata nasce, dunque, l’esigenza di fortificare l’attitudine all’interrogativo, legando il sapere al dubbio.

Morin cita, a questo proposito, Montaigne che cita Dante (e siamo ben lontani, ne converrete, da Bugliani che cita Russo che cita Ferroni che cita Maragliano…): "Che non men che saper dubbiar m’aggrade".

2. Vengo ora alla seconda fase dell’operazione, cavandomela con un numero ridottissimo di osservazioni, in forza del carattere ancora aperto della fase stessa.

Il Ministro ha incaricato, a fine 1997, sei esponenti del gruppone dei saggi (chi scrive, Clotilde Pontecorvo, Giovanni Reale, Luisa Ribolzi, Silvano Tagliagambe, Mario Vegetti) di preparare un documento che, prendendo le mosse dalla sezione contenutistica della relazione di sintesi (il punto 3, quello che ha trovato maggiori convergenze dentro la Commissione del 1997, come ho già detto), definisse i contenuti essenziali per una formazione di base calcolata su dieci anni di scolarità obbligatoria. Compito dei minigruppo non era di sostituirsi ad un’autorità politica, affrontando la molteplicità dei problemi di revisione istituzionale e amministrativa oggi sul tappeto (dall’autonomia alla revisione dei cicli, dall’innalzamento dell’obbligo alla legge sulla parità, dal piano di sviluppo delle tecnologie multimediali agli indirizzi per le sperimentazioni scolastiche), ma di operare allo scopo di fornire all’autorità politica, perché ne facesse oggetto di discussione fuori della scuola e di consultazione dentro di essa, una griglia di indicazioni su saperi e valori educativi che possano garantire ricchezza e solidità alla parte comune della formazione scolastica, negli auspicati dieci anni dell’obbligo (lo ripeto: la parte comune, che comunque ci sarà, anche se progressivamente più ridotta mano a mano che ci si avvicinerà agli anni terminali).

Come tutti sanno, il documento è stato presentato all’Accademia dei Lincei (non presso una qualche società pedagogica, con tutto il rispetto per queste istituzioni!) il 20 marzo scorso, ed ha avuto ampia circolazione. Mentre scrivo si sta concludendo la fase di consultazione delle scuole, e di queste cose si discute abbondantemente sia sulle due bacheche Internet destinate al documento (rispettivamente, del sito de "Il Sole – 24 Ore", e del sito della Biblioteca Pedagogica) sia su alcuni gruppi liberi di discussione telematica (dove, a mio avviso, si sono lette le cose più interessanti e meditate), sia sui giornali e sulle riviste specialistiche.

Immagino (ma non ho elementi che garantiscano la mia immaginazione) che si vada in tempi abbastanza rapidi ad un nuovo incontro pubblico, nel corso del quale possa esser presentato un documento più articolato di quello del marzo e più rispondente agli esiti di un confronto durato per tutta la primavera del 1998. Poi, si dovrebbe por mano alla revisione dei programmi didattici e all’impostazione del lavoro che porterà (come chiedono le norme sull’autonomia) alla definizione degli standard per la verifica della qualità delle scuole.

Quanto più il dibattito sarà stato ricco e circostanziato tanto più risulterà chiaro e in qualche modo vincolante il mandato della collettività al Ministro, su questa specifica questione.

Il gioco, insomma, è ancora aperto (lo dico, credetemi, anche a Bugliani, Russo, Ferroni e ai loro seguaci).

Una sola cosa, io credo, è prevedibile: che non debba vincere nessuno, se non quella sorta di democratico "Gentile collettivo" del quale il Ministro Berlinguer ha invitato tutti noi ad essere parte, ciascuno facendo affidamento sulle sue personali capacità di interpretare l’interesse generale e di sacrificare l’ottica particolare.

Un’altra cosa mi limito ad proporla come auspicio personale: che la tensione culturale prodotta in questa stagione di confronto resti tale anche una volta che i singoli provvedimenti saranno eventualmente andati in porto, e che dunque lo spirito di una ricerca programmaticamente "aperta" sui contenuti essenziali della formazione scolastica garantisca un rapporto sempre più stretto e reticolare fra la scuola (per come deciderà di essere) e il mondo (per come sarà).