Cidi, Firenze, aprile 1998 (testo revisionato a settembre 1998)

Qualche puntualizzazione sul lavoro dei saggi

di Roberto Maragliano


Inizio con la prima delle avvertenze, che, caro lettore, ti invito a tenere presente (assieme alle altre due) quando scorrerai queste note.

Il testo che hai sotto gli occhi prende le mosse da un mio intervento "a braccio", fatto a Firenze venerdì 17 aprile 1998, in occasione di un convegno dedicato ai saperi scolastici. Adesso ne sto rivedendone la trascrizione, e siamo ai primi di settembre dello stesso anno. Non so quando tu mi leggerai. Però una cosa è chiara: i tre tempi (del discorso originario, della sua trasformazione in scrittura, della tua lettura) non collimano. Poco importante, dirai tu, visto che sono in gioco problemi generali riguardanti l’assetto culturale della scuola: cose che non cambiano certamente da un mese all’altro. Eppure non è il caso che mi e ti nasconda i problemi che nascono dall’essere io al corrente, ora, di alcune cose che allora non conoscevo e dall’essere tu lettore, nel momento in cui scorrerai queste righe, a conoscenza di cose che adesso io non so. Questo capita tutte le volte che un evento tipicamente contestuale (situato in un tempo e in uno spazio), come il discorso improvvisato in un’occasione pubblica, si trasforma in un testo destinato alla stampa e quindi si impegna a diventare qualcosa di duraturo e decontestualizzato (relativamente, però, perché sempre falsificabile dagli eventi del tempo e del mondo). E già questo sarebbe un bel tema da trattare a scuola in termini didattici, profittando intelligentemente delle diverse risorse fornite dal sistema dei media (dal dialogo faccia a faccia alla registrazione di un discorso, alla sua trascrizione, alla sua trasformazione in un testo digitale, sempre perfettibile, con tutto quel che ne viene sulla moltiplicazione dei tempi, dei modi, dei contesti della comunicazione). In più, nel caso su cui sto qui ragionando, c’è la questione di un processo (l’innovazione scolastica) che dopo anni di relativa mobilità (di sostanziale immobilismo, diciamolo) ha cominciato a marciare con ritmi (ma anche idee e prospettive) alle quali non eravamo abituati: se un arco di pochi mesi aveva un valore pressoché nullo, all’interno del tempo immobile della non-riforma e del non cambiamento, acquista un valore assai rilevante quando le cose si muovono. Tieni dunque conto di questo aspetto.

Seconda avvertenza. In questa vicenda dei saperi scolastici sono personalmente implicato, volente o nolente, in tre modi: come coordinatore della prima fase, quella della cosiddetta commissione dei saggi, che ha lavorato nei primi mesi del 1997; come coautore (assieme ad altri cinque colleghi) del documento sui saperi essenziali per la formazione di base, presentato a marzo 1998 presso l’Accademia dei Lincei e oggetto nei mesi successivi di ampia consultazione e discussione, dentro e fuori della scuola; come "libero pensatore" che ha le sue idee, le sue antipatie, le sue affezioni. Perché, mi chiederai, ci tieni tanto a distinguere queste tre figure? Rispondo subito, perché i molti semplificatori che muovono l’opinione pubblica hanno fatto di tutto (continuano a fare di tutto) per mescolare questi tre ruoli: così mi sono trovato ad essere bollato (in forza di quel che penso autonomamente, e spero liberamente, a proposito della società dei media) come l’ispiratore-traviatore di un Ministro che invece, fortunatamente per me e per voi, ha ben altre risorse e idee che non le mie…E allora non vorrei che l’immagine che mi è stata cucita addosso, di "epistemologo del videogioco", venisse anche qui proiettata negativamente sulle altre due figure, e che quindi tu pensassi che più di quaranta liberi osservatori del mondo (cioè i saggi della prima fase dei lavori) e poi cinque di loro (quelli che assieme a me hanno preparato il testo del marzo 98) siano caduti nel perverso tranello di un pedagogista, per di più fanatico dei videogames (come sembra pensare e far pensare l’ineffabile Lucio Russo, autore di libretto che ha fatto tanto rumore, Segmenti e bastoncini, della Feltrinelli). Se però vuoi confrontarti con questo ed altri schemi riduttivi potrai ricorrere al mio libretto-risposta Tre ipertesti su multimedialità e formazione, uscito qualche settimana dopo quello di Russo presso Laterza, dove troverai, sorprendentemente, pochissimi riferimenti al sapere del videogioco e nessun riferimento al sapere pedagogico (e lo stesso dovrei dire del Nuovo manuale di didattica multimediale, in uscita a fine 1998, sempre per Laterza, edizione completamente revisionata e aggiornata del testo del 1994, ora accompagnata da un cd-rom di strumenti per la didattica). Come mai? Evidentemente i temi in discussione si presentano, almeno ai miei occhi, assai più complessi di quanto intenderebbero le semplificazioni dei critici, che attribuiscono al soggetto-oggetto delle loro idiosincrasie ciò di cui fanno un uso indiscriminato, cioè il valore narcotizzante delle formulette pedagogiche.

Terza avvertenza. Vorrei poter parlare prevalentemente della seconda fase del lavoro sui contenuti scolastici, quella centrata sul documento dei Lincei, ma mi è impossibile farlo evitando il confronto con la fase che l’ha preceduta, quella della commissione del 1997. Qui vado sul sicuro, a Dio (ma non ai non-lettori!) piacendo: nessuna dietrologia, nessun sospetto, nessuna malizia è (dovrebbe esser) autorizzata, in quanto l’Ipertesto che ho messo a disposizione dell’opinione pubblica il giorno stesso in cui si concludevano i lavori fornisce la più ampia e completa documentazione di quanto si è fatto e di come lo si è fatto. Mi dispiace solo che la pigrizia abbia prevalso in quanti, tra i commentatori, si sono dedicati a vivisezionare la mia sintesi di venti paginette, non misurandosi invece con le cinquecento prodotte dalla commissione (ricchissime, io credo, di spunti, teorie, analisi). Dal che ricavo dei moniti, che mi piacerebbe tu tenessi presenti: attenzione ai riduzionismi! attenzione a chi pensa che i problemi della scuola possano esser risolti facendo agire formulette ricavate dal buon senso o, peggio, dal senso comune! attenzione agli argomenti ricattatori degli accademici, e di tutti coloro che prima di tutto difendono una cattedra (ovviamente, questo deve valere anche nei miei confronti…)!

Poste tali premesse, posso finalmente iniziare il mio ragionamento.

E lo faccio sostenendo subito che il problema più grosso affrontato con il complesso di questa operazione non è stato e non è (a mio avviso) quello di aggiornare i programmi didattici, ma quello di aggiornare la domanda sociale in fatto di formazione. E’ questa che versa in situazione critica, nel nostro paese (e non solo), assai più di quanto non lo siano i documenti e le pratiche didattiche correnti. Il problema si presenta come molto serio, e non può essere assolutamente rimosso. Si tratta di questo: l’immobilismo che ha caratterizzato la questione scolastica nei decenni passati (e ciò riguarda in primo luogo la situazione italiana) si è fatalmente tradotto in immobilismo del modo di pensare la scuola da parte della società nel suo complesso, e del modo di pensare i rapporti fra la scuola e le altre sedi, più o meno formali, di produzione-riproduzione culturale.

In altri termini, mi sembra che questa nostra società, che più o meno consapevolmente va facendo grossissimi investimenti sul sapere come risorsa generale per sviluppo, sa e vuol sapere poco o nulla di scuola, e soprattutto è riottosa a mettersi in discussione su tale materia. Ecco allora che reagisce alla novità rappresentata dal confronto sui contenuti essenziali della formazione scolastica, un confronto che in un certo senso dovrebbe essere più esterno che interno all’istituzione, menando scandalo. Come osate, sembra dire una parte non marginale di questa società, mettere in discussione i capisaldi di una tradizione scolastica esemplare, toccare la materia "x", abrogare (così ci è capitato di leggere) Dante, Petrarca, Boccaccio, Leonardo, Raffaello e via elencando quelli che sono stati visti come "buchi" nel lavoro della commissione?

Lo ripeto. E’ qui l’ostacolo più grosso che incontra il nostro cammino: far capire il nuovo scenario entro il quale devono esser ripensati i contenuti (e le aggregazioni di sapere) della formazione scolastica, favorire la crescita di una nuova consapevolezza formativa, all’interno della quale la scuola non sia più vista come roccaforte che resiste alla presunta degenerazione culturale della società, ma sia ridisegnata come un nodo importantissimo, cruciale, ma pur sempre relativo, non esclusivo, dentro la rete sempre più estesa e multiforme degli ambienti e degli apparati della riproduzione socio-culturale.

Ecco la ragione per cui ha circolato molto, in questa fase del confronto, un termine come "saperi" (al plurale!), che sarebbe improprio vedere come equivalente ai termini fin qui usati in ambito scolastico (discipline, curricoli, contenuti, ecc.). Esso rimanda a qualcosa di più e di diverso rispetto alla tradizionale enciclopedia accademica e scolastica. Mette in gioco, infatti, il farsi e il continuo disfarsi collettivo (ma anche individuale) delle conoscenze e delle coscienze, il rapporto fra sapere, saper fare, saper essere, l’integrazione-collaborazione che inevitabilmente ciascuno di noi, e più di noi chi è in via di crescita, stabilisce e pattuisce tra le molteplici e sempre più difformi fonti e forme del conoscere e dell’esperire (ivi compresi i media, tanto bistrattati quanto poco conosciuti e problematizzati).

Il fatto è che la cosiddetta società della conoscenza non è un’invenzione di qualche buontempone di sociologo. E’ (dovrebbe essere) la premessa concettuale per una presa di coscienza del fatto che oggi si impara e si fa tesoro di quello che si impara in innumerevoli modi, e che a questa rivoluzione dell’apprendimento (che ha enormemente ampliato le modalità dell’apprendere informale rispetto a quelle dell’apprendere per via formale) non ha fatto seguito, almeno fin qui, un adeguato ripensamento dei modi, dei contesti, delle categorie dell’insegnamento, in praticolare di quello scolastico.

Come libero pensatore penso di esser autorizzato a leggere nel compito affidato dal ministro Berlinguer alla commissione dei saggi (definire le emergenze culturali dell’istituzione scolastica) soprattutto l’esigenza di misurarsi con questo tema del rapporto fra nuova domanda sociale di formazione e compito della scuola, che è anche il tema dell’autonomia culturale che scuola e università debbono mostrarsi capaci (e meritevoli) di conquistare.

Dunque, i problemi posti sul tappeto sono:

  • come insegnare e come far apprendere in una condizione di incertezza, non avendo più un "centro" cui far riferimento (nel bene e nel male), avendo smarrito parte degli "assoluti" (scientifici, tecnici, pedagogici) che tradizionalmente erano prerogativa dell’assetto centralistico della scuola?
  • come considerare la situazione di "smarrimento" che ne viene, tipica ormai del nostro stare al mondo, non già come una perdita secca, ma come una liberazione da vincoli scolastici (di tipo concettuale, materiale, politico) non più sostenibili?

Come coordinatore della commissione sono stato, e sono felice di poter documentare la crescita di consapevolezza del gruppo proprio su questo terreno. All’inizio dei lavori, il paradigma scolastico di riferimento era rappresentato, per molti, dalla formazione liceale, cioè da una visione aristocratica e (lasciatemelo dire) spocchiosa del sapere scolastico. Al di là di tutto il bene che si può dire di quel sistema, e di quella filosofia, è evidente che il modello di didattica che ne costituisce l’espressione non è dotato di un valore sovrastorico: i contenuti e le forme che gli hanno dato (che ancora gli danno) sostanza non sono resistenti al tempo; se non si può dire che si siano sgretolati (visto che quell’impianto è ancora in piedi) va riconosciuto che si sono ingessati e poi svuotati, prosciugati, sterilizzati; è rimasto in piedi soltanto lo scheletro istituzionale. Bene. Attraverso il dialogo e il confronto, talora anche assai vivace, ci si è trovati, dentro la commissione, in sintonia con un altro modo di concepire l’istituzione scolastica, ponendone il centro gravitazionale non più in un modello elitaristico di formazione secondaria superiore ma in un modello generale di formazione di base. Si è così capovolta la prospettiva dell’intero ragionamento: gli anni che precedono il completamento della formazione scolastica non vengono più intesi come preparatori allo sbocco liceale (o ai suoi surrogati), ma diventano la base su cui è destinato a innestarsi il complesso della futura crescita culturale della persona, fuori e dentro le istituzioni scolastiche. Ne viene dunque l’esigenza di definire, in primo luogo in termini culturali, questa base e di delinearla in termini flessibili: quali conoscenze, quali valori, quali conoscenze, quali pratiche, dunque, risultano irrinunciabili per il giovane destinato a vivere in una società profondamente diversa da quella pensata da Gentile?

Ecco che delimitazione dei saperi (secondo criteri di massima apertura all’integrazione, alla contestualizzazione e a "logica di sistema" che non debbono essere mai vincolanti) e ridefinizione dell’assetto scolastico (il tema posto con la revisione dei cicli) vanno a confluire sullo stesso terreno.

Allora sbaglia, lo dico apertamente, chi, dall’interno di una visione disciplinaristica, asfittamente accademica o scolasticistica delle conoscenze, va a misurare le righe che nei documenti prodotti dalla commissione allargata e poi da quella ristretta sono dedicati a questa o quest’altra "materia" (quasi queste fossero degli assoluti sottratti all’usura della storia), chi rifiuta l’impegno di considerare gli assetti disciplinari come fenomeni storici, da contestualizzare e problematizzare incessantemente, chi, insomma, pensa di combattere la complessità con la semplificazione e l’autoritarismo degli "argomenti ontologici" (così è la materia, così è l’allievo, così è la società).

Non siamo ancora arrivati, nel nostro lavoro, al piano di discorso che prelude alla stesura di nuovi programmi: non abbiamo stilato l’elenco delle discipline né abbiamo organizzato un orario-tipo. Non è questo che ci è stato chiesto. Né poteva essere la commissione o la sua appendice successiva ad occuparsi di queste cose. Si doveva invece discutere dei saperi emergenti, di quello che oggi la società chiede ad un giovane di conoscere, fare, essere. E non era, la risposta a questi interrogativi, qualcosa che si potesse leggere direttamente in un luogo ben preciso, dentro una società che si presenta, ai nostri occhi, in forme sempre più opache e complesse. Era ed è una risposta che deve scaturire da molte interlocuzioni, da moltissime mediazioni. Questo spiega perché la composizione della commissione è stata così anomala, così poco "scolastica". E spiega anche perché essa ha segnato uno spartiacque rispetto alle elaborazioni precedenti: per intenderci, nel dare un mandato alla commissione Brocca il ministro di allora si trovò a risolvere, attraverso la designazione dei membri di quel gruppo, i problemi di fondo (epistemologici, in primo luogo) che il ministro che ha istituito la commissione dei saggi considerava aperti, degni di analisi e di discussione. E tale discussione resta ancora per un po’ aperta.

Stiamo tutti lavorando, anche chi mi legge, ad arricchirla, questa discussione, a formulare risposte agli interrogativi di fondo sull’identità culturale della formazione scolastica.

Poi, quando ne avremo di accettabili e ampiamente condivise, potremo autorizzare il Ministro a porre le condizioni perché si tracci la mappa delle aree disciplinari della nuova scuola e si provveda alla stesura dei programmi coerenti con tale impostazione.