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L’ascolto dell’abuso e l’abuso nell’ascolto.

Abuso sessuale sui minori: contesto clinico, giudiziario, sociale
a cura di Claudio Foti
Franco Angeli Editore, Milano, 2003
collana: Hansel e Gretel, dalla parte del bambino - direttore Claudio Foti, condirettore Claudio Bosetto


 

Introduzione. Per una teoria dell’ascolto dell’abuso

 

 

di Claudio Foti

pag.

9

 

 

 

 

 

 

Parte prima
Ascolto e mancato ascolto dell’abuso

 

 

 

 

 

L’ascolto dell’abuso e l’abuso nell’ascolto

di Claudio Foti

 

»

 

63

Cause psicologiche della violenza familiare

di Felicity de Zulueta

 

»

 

95

L’abuso sessuale: caratteristiche del racconto di eventi traumatici

di Paola Di Blasio

 

»

 

116

Rimozione non fa rima con prevenzione, né con protezione

di Nadia Bolognini, Claudio Foti

 

»

 

134

Adultocentrismo dell’istituzione e ascolto emotivo

di Sabrina Farci

 

»

 

152

Autotutela delle istituzioni e ascolto del bambino

di Marilena Dellavalle

 

»

 

160

 

 

 

 

 

 

Parte seconda

 

 

L’ascolto dell’abuso e l’intervento psicologico

 

 

 

 

 

Originalità e creatività del concetto di trauma nel pensiero e nell’opera di Sándor Ferençzi

di Franco Borgogno

  

»

 

 173

 La ripetizione dell’abuso e dei maltrattamenti da una generazione all’altra

di Estela V. Welldon

  

»

  

192

Quando i bambini dicono bugie...

di Claudio Foti, Nadia Bolognini

 

»

 

208

Cosa succede a chi ascolta l’abuso?

di Alessandro Vassalli

 

»

 

227

 

 

 

 

 

 

Parte terza

 

 

L’ascolto dell’abuso e il contesto giudiziario

 

 

 

 

 

L’ascolto del minore nel processo penale. Il bambino abusato: vittima due volte?

di Piero Forno

  

»

 

 237

La diagnosi abusante. Le domande che non sono domande

di Guglielmo Gulotta, con la collaborazione di Ilaria Cutica

 

»

 

248

Ti chiedo di parlare ma faccio in modo che tu taccia. La “suggestione negativa” nei casi di presunto abuso sessuale

di Cristina Roccia, Gianni Guasto

 

 »

  

265

Intelligenza emotiva e suggestione nella valutazione psicologica del bambino

di Claudio Foti

 

 

»

 

 

281

Le resistenze istituzionali e giuridiche al riconoscimento dell’abuso

di Laura De Rui

 

»

 

299

L’audizione protetta: la preparazione, il sostegno e l’ascolto del piccolo testimone

di Claudio Foti, Danila Ghiano

  

»

  

305

 

 

 

 

 

 

Appendice

 

 

Ascolto dell’abuso e formazione

 

 

 

 

 

La formazione degli operatori per lo sviluppo delle competenze empatiche

di Claudio Foti

 

 »

  

327


 

Introduzione.
Per una teoria dell’ascolto dell’abuso

di Claudio Foti

 

  

1. Ascolto e identificazione empatica

 

«Io sono Anna, ho 12 anni e non sono stata ascoltata perché nessuno ha capito la mia voglia di spaccare tutto, la mia voglia di distruggere tutto e mi sento spaccata dentro, mi sento sporca e mi sento terribilmente sola».

«Io sono Francesco, ho 9 anni, mi costringono ad andare in un posto dove ci sono degli uomini, delle donne, dei grandi che fanno delle brutte cose, alcune volte viene anche mia sorella che è più è piccola; ho tanta paura, non ce la faccio a parlare con nessuno, vorrei tanto che qualcuno si accorgesse di me, vorrei tanto incontrare degli sguardi che potessero sentire quello che ho dentro, non ho nemmeno la forza di parlare, solo quella di piangere».

«Mi chiamo Carmela ho 16 anni e vivo in comunità, sono molto arrabbiata. Vivo in comunità perché mio padre ha abusato di me. Sono tanto arrabbiata e forse non capisco neanche tanto bene perché sono così arrabbiata, ce l’ho con tutti, ce l’ho con gli educatori, ce l’ho con tutto il mondo e sento che anche tutto il mondo, gli educatori, le persone che mi stanno vicino non mi sopportano proprio più, sono tanto arrabbiati con me, può darsi che abbiano anche ragione».

«Sono Federico, ho 9 anni. Non mi sento ascoltato perché non parlo, non capisco quello che succede, lo zio mi porta in soffitta, mi fa vedere i giornali pornografici… io non ho mai visto un pisello così grande, caldo, duro… io non capisco quello che succede, sento che qualcosa che… di sessuale… qualcosa che non va fatto, ma non capisco, non comprendo e così non parlo e però lo faccio con mio cuginetto più piccolo, ho imparato a fare così».

Non sono bambini o bambine a parlare, bensì, in un salone congressuale, gli psicologi del Centro Studi Hänsel e Gretel che hanno condotto i gruppi di lavoro del Convegno “Ascolto dell’abuso e abuso nell’ascolto”[1]. I conduttori sono schierati ad ala sul palco di fronte a cinquecento persone ancora presenti in sala nonostante sia l’una di domenica mattina: uno dietro l’altro, attraverso la tecnica psicodrammatica dell’inversione di ruolo, ciascuno sta cercando di dare voce ad un bambino, la cui problematica e la cui vicenda sono comparse all’interno del lavoro del loro gruppo.

È il momento conclusivo di un Convegno, i cui contributi teorici più rilevanti sono contenuti in questo volume. Compare inoltre in questo libro un resoconto dell’esperienza di gruppo emotivamente più coinvolgente e significativa che è stata vissuta nei ventitre gruppi di lavoro del convegno.

Si tratta di una fantasia guidata attraverso la quale i partecipanti hanno sperimentato la possibilità di sentire e mentalizzare in termini esperienziali e profondi, e non solo superficiali o intellettualistici, la posizione di un bambino preso dal conflitto tra il bisogno di parlare e la necessità difensiva di tacere. In questa esperienza di gruppo i partecipanti sono stati sollecitati a comprendere da vicino quali sono gli atteggiamenti, i comportamenti e le verbalizzazioni dell’ascoltatore che favoriscono la confidenza e quali invece risultano bloccanti e disturbanti rispetto al desiderio del bambino di aprirsi (cfr. C. Foti, La formazione degli operatori per lo sviluppo delle competenze empatiche).

«Io sono Carla e ho 8 anni. Non mi sono sentita ascoltata quando ho detto all’assistente sociale che non volevo stare a casa il sabato pomeriggio, non volevo stare a casa sola con papà; però io penso di non essere stata ascoltata perché non ho parlato abbastanza, non ho detto chiaramente, dovevo dire di più, è colpa mia e mi sento delusa e mi sento sola».

«Sono Anna, ho 15 anni, mio padre abusa di me da quando ero piccola, ora finalmente ce l’ho fatta a dirlo, ma la psicologa a cui l’ho detto si è spaventata da morire e ha chiesto l’aiuto di un’altra. Quest’altra mi ha capito, ma poi mia mamma subito mi ha portato dall’altra psicologa, perché la seconda psicologa aveva parlato della necessità di denunciare il fatto. Io adesso ho rovinato la mia famiglia, mio padre e mia madre si sono separati; mi sento cattiva, colpevole, confusa, arrabbiata, sola, impotente».

L’ascolto dell’abuso implica in effetti la capacità di identificarsi  in modo rispettoso con l’alterità della penosa condizione del bambino vittimizzato e con l’intelligenza emotiva che consente di dare un nome ai sentimenti di questo bambino. L’abuso nell’ascolto coincide invece con la paura di ascoltare il dolore e l’impotenza, con la stupidità emotiva che può esprimersi con la fuga, più o meno razionalizzata, dal mondo delle emozioni o con la proiezione massiccia sul bambino di sentimenti non elaborati dell’operatore.

L’ascolto dell’abuso sessuale ai danni dell’infanzia evoca almeno tre significati: a) è impegno di consapevolezza sulla consistenza e sulle caratteristiche del fenomeno; b) è capacità concreta di rilevazione degli indicatori della violenza; c) è, in senso più specifico, disponibilità e competenza, emotiva e cognitiva, all’accoglimento non distorcente e non inibente delle comunicazioni verbali del singolo bambino che è stato abusato o che potrebbe esserlo.

L’abuso nell’ascolto d’altra parte è: a) l’alterazione della consapevolezza sulla realtà del fenomeno per cui quest’ultimo viene rappresentato in modo distorto (amplificandone o più spesso riducendone le dimensioni); b) è grave carenza nella capacità di rilevazione dell’abuso con letture  generalizzanti  ed allarmistiche che generano negli operatori un eccesso di preoccupazione o, più spesso, con letture difensive che producono un difetto di preoccupazione, attraverso la minimizzazione e la negazione di evidenze cliniche e comportamentali che rinviano all’ipotesi dell’abuso; c) in senso più specifico, è l’assenza di comprensione e di condivisione, l’incompetenza, emotiva e cognitiva, nell’ascolto di un minore: atteggiamenti che non consentono al bambino di esprimere autenticamente la propria vicenda,  la propria bisognosità, la propria verità: l’abuso nell’ascolto si manifesta con interventi e atteggiamenti suggestivi vuoi in senso negativo (disorientanti e scoraggianti la comunicazione di un abuso che potrebbe essere accaduto), vuoi in senso positivo (persuadenti e inducenti la comunicazione di un abuso che potrebbe non essere accaduto).

 

 

2. Quali parole attorno all’abuso

 

Sull’ascolto dell’abuso sessuale sui bambini si sentono dire tante cose: “Ma non è certo un problema!… i media non parlano d’altro!… è un tema diventato di moda… forse se ne parla troppo…”.

Che la questione della violenza sessuale ai danni dell’infanzia abbia faticosamente e contraddittoriamente cominciato ad uscire dall’alone di silenzio, di tabuizzazione, di diniego culturale, scientifico e sociale che la circondava, è un fatto. Che l’ascolto dell’abuso sessuale sui minori sia un impegno sociale adeguatamente affrontato è una grave mistificazione.

Fatta emergere e precipitosamente accantonata dalla psicoanalisi freudiana alla fine del sec. XIX[2], riproposta negli Stati Uniti negli ultimi decenni del secolo trascorso a partire dalla sensibilità emergente alle tematiche del trauma, dello stupro e della protezione dei bambini, la questione dell’abuso sessuale ai danni dell’infanzia inizia faticosamente ad essere affrontata in Italia sul piano clinico e istituzionale a partire dagli anni ‘80. Da questo momento il problema comincia a circolare nella comunicazione mediatica e sociale con un’attenzione tutt’altro che costante: abbiamo assistito ed assistiamo ad ondate oscillatorie tra il sensazionalismo, che si consuma con il rapido logorarsi delle notizie usa e getta relative agli abusi e i movimenti prolungati di rimozione del problema; tra picchi di indignazione forcaiola in coincidenza di eventi drammatici e comportamenti continuativi di deresponsabilizzazione della comunità adulta[3]; tra enfatizzazione saltuaria del tema della pedofilia e dimenticanza strategica dell’abuso sessuale intrafamiliare; tra stentati avvii di una presa di coscienza istituzionale e costante rinvio di una politica coerente per il sostegno dell’intervento di prevenzione e contrasto alla violenza ai minori.

Certo, in alcuni ambiti istituzionali e sociali (comunque limitati!) s’è ridotta l’indicibilità e l’impensabilità del problema dell’abuso sessuale sui minori, alcuni settori di operatori (comunque ristretti) sono stati coinvolti in alcune iniziative di sensibilizzazione e di formazione, il tema è stato, in qualche occasione, messo nell’agenda dei problemi sociali dalla pur ambivalente attenzione mediatica e le vittime, in questo contesto, hanno cominciato ad approfittare della riduzione della stigmatizzazione sociale ai loro danni e delle nuove possibilità offerte della comunicazione sociale.

Ma, detto questo, la questione dell’ascolto dell’abuso sui bambini resta tutta da affrontare e molte valutazioni improntate ad una semplificazione ottimistica rinviano ad una malcelata insofferenza difensiva nei confronti del riconoscimento del problema e della radicata difficoltà strutturale a recepirlo sul piano individuale, istituzionale e sociale.

La parola che inizia a circolare attorno all’appropriazione e alla strumentalizzazione sessuale dell’infanzia è una parola che può cominciare a portare la luce in zone di buio, di segreto e di sporcizia, che può liberare da vissuti di colpa e di stigmatizzazione e portare elementi di chiarezza nella confusione dei ricordi e dei significati. È una parola che inizia a produrre una nuova più dignitosa rappresentazione sociale della vittima[4], a favorire risposte penali capaci di fermare il senso di onnipotenza e d’invulnerabilità degli abusanti, ma è una parola che ancora può essere facilmente soffocata, interrotta, spezzata; usata strumentalmente per fare audience piuttosto che per fare riflettere; ritrattata da vittime non adeguatamente sostenute; non presa sul serio e contraddetta da adulti a cui viene aprioristicamente accordata maggiore credibilità; fatta oggetto di scempio in molte aule di tribunali da parte di avvocati e consulenti; esaminata criticamente e svuotata di senso da esperti che usano la scienza per difendere il privilegio dei più forti e dei più ricchi.

 

 

3. Un fenomeno, diffuso, sommerso, inascoltato

 

Sono stato invitato ad un seminario di sensibilizzazione sul tema dell’abuso sessuale all’infanzia da un’associazione con un forte impegno sociale e religioso. Mi trovo di fronte ad una quarantina di persone, allenate al confronto sulle esperienze soggettive e ad un ascolto reciproco e rispettoso, ma che non hanno mai affrontato il tema dell’abuso. Mi sono preparato una scaletta di conduzione per la giornata che prevede un’interazione iniziale con i partecipanti e successivi interventi di riflessione e di attivazione del gruppo.

La mia scaletta salta completamente. Appena introduco la sollecitazione all’ascolto emotivo do il via ad un’esperienza sorprendente e straordinariamente coinvolgente: si susseguono gli interventi dei partecipanti che portano esperienze personali molto diverse tra loro di abusi subiti nell’infanzia e nell’adolescenza. Mi colpisce la storia di una donna che descrive con molta forza emotiva, ma nel contempo con pacatezza, il proprio calvario di sofferenze a partire da un abuso infantile non creduto. Si nota che c’è stata una grande elaborazione della propria vicenda. La propria madre la fece ricoverare in clinica psichiatrica quand’era adolescente, illudendosi così di “curarla”. Qualche tempo dopo le dimissioni, la madre s’accorse leggendo il suo diario che la ragazza insisteva nel descrivere gli abusi: telefonò pertanto allo psichiatra per segnalare una “riacutizzazione dei sintomi”!

Gli interventi si succedono in uno spirito di autenticità emotiva che non ha nulla della suggestione isterica. Il gruppo è composto da persone abituate per le finalità culturali e spirituali dell’associazione ad un pensiero riflessivo. Anche la storia di una donna di settanta anni è molto commovente e nel contempo lucida. Fino a poco tempo fa pensava di dover combattere con il ricordo dell’abuso subito dal padre, ritenendo che la maturità coincidesse con un perdono inteso come cancellazione della propria memoria e dei propri sentimenti. Oggi invece ha cambiato idea e vuole imparare a rispettare la propria vita e la propria mente.

La maggior parte degli abusi che vengono esplicitati nel gruppo non vennero comunicati nel passato: mancarono le parole per dirlo, ma soprattutto le orecchie e la mente degli adulti per ascoltare. Qualcosa evidentemente non ha funzionato e non funziona nell’ascolto sociale dell’abuso sessuale sui bambini!

Le ricerche retrospettive sulla diffusione dell’abuso sessuale sui minori rappresentano uno strumento conoscitivo rilevante che consente di aprire uno squarcio nella cortina del mancato ascolto e del mancato riconoscimento dell’abuso: un fenomeno certamente vecchio come il mondo, ma nel contempo sollecitato a nuovi sviluppi da un lato dal progresso consumistico e telematico, dall’altro dall’imbarbarimento etico e culturale della società contemporanea. Molti studi, condotti nei decenni trascorsi, negli USA e in paesi dell’Europa occidentale, attraverso interviste a campioni di soggetti adulti, effettuate con metodologie rigorose e con la garanzia dell’anonimato su eventuali violenze subite nell’infanzia e nell’adolescenza, hanno dimostrato che tali violenze hanno colpito percentuali molto consistenti d’individui prima dei 18 anni (in genere dal 10 al 35% della popolazione femminile, dall’8 al 15% della popolazione maschile).

Queste ricerche retrospettive, i cui risultati mutano a seconda delle metodologie utilizzate e dalla definizione scelta di abuso sessuale, concordano comunque nel definire una rappresentazione  dell’abuso sessuale sui minori ben diversa e ben più consistente di quella che deriva dalle denunce effettuate all’autorità giudiziaria. Emerge un fenomeno ampiamente diffuso, ampiamente sommerso (dal punto di vista della rilevazione sociale e giudiziaria), ampiamente inascoltato (da alcune ricerche si ricava che molti casi non sono mai stati comunicati ad alcuno).

Per es. il 10,5% del campione di bambini intervistati in un ricerca di Filkenhor[5] comunica di aver subito un abuso sessuale o un tentato abuso senza averlo mai riferito.

 

I dati di queste ricerche - afferma il manifesto del Progetto Movimento per l’Infanzia[6] - confermano che il bambino continua ad essere un oggetto sessuale molto appetibile da parte di molti adulti, e che l’abuso sessuale sui bambini è tuttora una pratica così diffusa da dover essere considerata fenomeno non eccezionale, ma statisticamente comune. Conferma ulteriore di ciò deriva dall’esistenza del vastissimo e per ora incontrollabile mercato della pedofilia nato rapidamente con Internet, e dall’altrettanto vasto, e tollerato, mercato della prostituzione minorile esistente in numerose parti del mondo. (…) L’abuso sessuale sui minori costituisce, dunque, per la sua diffusione, un reale e allarmante problema sociale e, a causa delle conseguenze devastanti sullo sviluppo psichico, anche un problema di salute pubblica. È necessario dunque che l’opinione pubblica e il mondo politico diventino consapevoli che anche nel nostro Paese i diritti dell’infanzia sono spesso violati affinché il problema della violenza sui bambini venga posto come prioritario e affrontato con correttezza ed efficacia, sia a livello di prevenzione che di riparazione dei danni. (…) Solo in una cultura in cui il bambino cessa di essere bambino-oggetto per diventare bambino-persona, degna di rispetto e di attente cure in quanto soggetto in evoluzione, è possibile interrompere il secolare ciclo generazionale del maltrattamento.

 

 

4. Il piacere perverso, il potere e il furto

 

Nel settembre del 2001 un’inchiesta del quotidiano francese Le monde evidenziava come al primo posto tra le paure dei francesi comparisse la paura della pedofilia. Sicuramente esiste una diffusa tendenza antropologica a proteggere la prole, ma resta la domanda: se la comunità sociale ha così tanta paura della pedofilia, perché la pedofilia non ha paura di essere così estesa e radicata nella comunità sociale?

E la pedofilia non è che un aspetto del fenomeno poliedrico della perversione che minaccia l’infanzia[7]. La perversione è una modalità per assumere una posizione di controllo onnipotente su un’altra persona, per negare la propria debolezza e la propria bisognosità. I bambini si prestano per la loro infermità e malleabilità a relazioni perverse e strumentali.

La sessualizzazione perversa è una tendenza a trasformare la persona in cosa, inseguendo l’eccitazione e il godimento sessuale per riempire la solitudine, la mancanza, la sofferenza mentale, senza tener assolutamente in considerazione se il partner sessuale sia in grado o meno di gestire il rapporto, se il rapporto sessuale avrà conseguenze positive o distruttive per l’oggetto sessuale.

La tendenza ad usare il potenziale d’eccitazione del corpo del bambino, del preadolescente o dell’adolescente, senza curarsi del fatto che in quel corpo abita una persona, coinvolge sicuramente un numero di individui di gran lunga superiore a quello dei pedofili, intesi in senso specifico come soggetti che hanno una ben precisa preferenza sessuale che li porta a tenersi lontano dalla donna e dell’uomo adulto, per privilegiare come oggetto erotico un soggetto non sviluppato.

In questa componente più ampia di soggetti abusanti, ci stanno persone che hanno rapporti con donne adulte e nel contempo sono capaci, episodicamente o periodicamente, di trasformare in vari modi, in giocattolo erotico il soggetto in età evolutiva. In questa componente ci stanno i genitori, i fratelli, gli zii, i nonni incestuosi, ci stanno gli individui che programmano o decidono improvvisamente di trasformare un viaggio turistico in un paese povero in un’avventura sessuale, ci stanno gli uomini che ricorrono alla prostituzione e non esitano a ricercare e a comprare le prestazioni sessuali di ragazzine che mostrano, spesso chiaramente e nettamente, di essere minorenni. Si tratta di un’area sociale tutt’altro che irrilevante.

Tre rilevanti fattori psico-sociali contribuiscono a far sì che il fenomeno dell’abuso sessuale continui a mantenere caratteristiche endemiche nella comunità sociale, nonostante l’indubbia crescita della coscienza civile e della risposta giuridica al problema. Questi fattori ruotano attorno a tre parole chiave: il piacere, il potere, il furto.

1.        Il piacere. La diffusione dell’abuso rinvia innanzitutto al fatto che la sessualità - soprattutto quella maschile - è un congegno che può garantire un piacere a portata di mano, intenso, trascinante, veloce da consumare. Tale piacere, sganciato dalla dimensione di scambio comunicativo e relazionale, che gli dà senso, valore e limite, può essere immediatamente e perversamente ricercato come risposta impulsiva alla depressione, all’angoscia, alla solitudine, sempre più dilaganti. Oltretutto la ricerca del piacere oggi è meno inibita e colpevolizzata di ieri, essendo entrata in crisi un’etica rigida che considerava tale piacere come peccato. D’altra parte la morale tradizionale non è stata adeguatamente sostituita da un’etica diversa, capace di coniugare la ricerca del piacere con il rispetto della persona: risulta pertanto socialmente diffusa una visione permissiva e acritica dei rapporti sessuali che può portare anche ad esiti perversi: “Si vive una volta sola… con una bambina? Perché no?”.

2.        Il potere. L’abuso sessuale sui bambini si consuma sul piano inclinato di relazioni asimmetriche, dispari, caratterizzate da una posizione dominante e da una posizione subalterna. Il divario di potere eccita e nel contempo rassicura, pur in forme diverse, il genitore incestuoso e il pedofilo. Nonostante il fatto che sul piano ideologico e giuridico l’adultocentrismo nelle sue versioni più rozze e autoritarie sia socialmente meno diffuso nei processi educativi, vaste aree della vita sociale, familiare e delle istituzioni minorili continuano ad essere caratterizzate da rapporti di dominio fra le generazioni. Queste aree restano sottratte al controllo sociale, alla consapevolezza dei diritti dell’infanzia e caratterizzate dall’isolamento comunicativo dei bambini, dal soffocamento dei loro bisogni di confronto e dialogo, dall’imposizione di una doppiezza di regole e principi. Lo stile democratico[8] del rapporto tra le generazioni, caratterizzato dal rispetto reciproco, dal riconoscimento di comuni diritti (oltre che di differenti ruoli), da una certa trasparenza comunicativa, per quanto enfatizzato sul piano ideologico, è ben lungi dall’essere diventato realtà relazionale quotidiana, praticata e diffusa nelle famiglie e nelle istituzioni dell’infanzia. In una cultura dove i rapporti di potere tra le generazioni rimangono ben presenti nel tessuto sociale ed istituzionale rimane forte la tentazione dell’abuso ai danni dei minori.

3.        Il furto. Non si può comprendere la vastità del fenomeno dell’abuso sessuale sui bambini senza riferirsi alla tendenza all’appropriazione distruttiva e predatoria, prevalente nei soggetti perversi, ma certamente non estranea allo psichismo umano. Il desiderio di appropriarsi indebitamente degli oggetti, dei sentimenti, della corporeità altrui è una componente mentale molto diffusa, associata per alcuni autori[9] alle pulsioni pregenitali, presenti nell’evoluzione psichica infantile del soggetto umano. La fantasia di rubare e di depredare è spesso sostenuta dal bisogno di risarcire ferite e privazioni affettive e narcisistiche e si traduce in varie modalità di passaggio all’atto. Oltretutto i significanti per designare, nel linguaggio volgare, i rapporti sessuali sono gli stessi, in molti casi, che vengono utilizzati per designare modalità relazionali basate sul furto, sull’inganno, sulla appropriazione indebita (fregare, ciulare, fottere...).

In conclusione nella nostra comunità sociale l’abuso sessuale sui bambini permane e cresce come tentazione molto diffusa, che può frequentemente venire agita da parte di adulti che inseguono la sessualizzazione perversa, al fine di contrastare il senso di vuoto e la depressione, passando all’atto la fantasia appropriativa del corpo infantile, ovvero rubando ai bambini il piacere sessuale e il controllo sulla loro esperienza, approfittando delle aree di incontrastato potere adultocentrico che rimangono molto presenti nelle istituzioni e nelle famiglie.

 

 

5. L’ascolto presuntuoso

 

La prima e più evidente manifestazione dell’abuso nell’ascolto è la presunzione. Presunzione di saper definire con esattezza la consistenza del fenomeno, spesso riducendolo in termini rassicuranti a quei dati statistici (per es. le denunce all’autorità giudiziaria) che inevitabilmente escludono la rilevazione del sommerso. Presunzione di un mondo ideale senza sadismo e senza perversione, nel quale non varrebbe la pena tenere a mente l’ipotesi della violenza sessuale. Presunzione assoluta di innocenza di un imputato adulto, che si ottiene affermando aprioristicamente l’inattendibilità della testimonianza del bambino e il carattere aspecifico dei suoi sintomi, anche quando ci si trova di fronte ad un insieme significativo di indicatori che rinviano ad un trauma sessuale. Presunzione, infine, nell’ascoltare un bambino a senso unico senza dialogare  mentalmente con ipotesi interpretative diverse prima che una di queste possa prevalere, confortata da una massa di dati, di nessi logici e psicologici, di verifiche emotive.

La presunzione dell’ascoltatore semplifica e banalizza l’impegno mentale dell’ascolto, negando o sottovalutando pesantemente le risorse psichiche indispensabili per ascoltare: una certa quota di energia psico-fisica, una mente sufficientemente libera da conflitti ed ansie e disposta a porsi in posizione di passività/recettività, una certa capacità di riconoscimento/rispetto dell’alterità e dell’essere persona dell’interlocutore, una discreta disponibilità a rapportarsi ai sentimenti propri ed altrui, a mettersi dal punto di vista dell’altro tenendo a bada gli atteggiamenti giudicanti, una sufficiente elasticità nell’aprirsi al nuovo e nel ristrutturare preconcezioni, schemi preesistenti e sistemi d’informazioni acquisite, ecc… [10]

L’idea riduttiva in base a cui l’ascolto non sarebbe un impegno costituito da operazioni mentali complesse ed evolute, bensì un’attività prevalentemente intellettiva, priva di implicazioni relazionali ed emotive; la convinzione di essere in assoluto un buon ascoltatore senza la percezione dei problemi e delle difficoltà che derivano inevitabilmente dal compito di ascoltare il disagio di un altro essere umano; l’incomprensione e il rifiuto a mettersi in discussione, a formarsi in modo specifico, a supervisionare la propria attività sociale di ascolto: sono atteggiamenti di presunzione che accompagnano e generano inevitabilmente abusi rilevanti nell’ascolto di qualsiasi bambino in qualsiasi contesto (a maggior ragione poi se questo bambino è coinvolto in un possibile abuso sessuale).

Non mancano esempi di ascoltatori presuntuosi in questo volume: il giudice che parte dalla convinzione in base a cui una persona socialmente rispettabile non può avere avuto rapporti incestuosi con i suoi figli: a partire da questo assioma l’ascolto di un figlio che denuncia un padre notaio finirà per coincidere con il tentativo di minacciare il bambino, indurlo apertamente alla ritrattazione, costringerlo a giurare sul crocifisso (cfr. C. Foti, L’ascolto dell’abuso e l’abuso nell’ascolto); lo psichiatra, chiamato agli inizi del ‘900 ad una valutazione della vicenda di una minore vittima d’incesto, che si schiera immediatamente dalla parte dell’abusante, sicuro dell’oggettività della sua scienza, senza neppure sentire la necessità di conoscere e di dialogare con la ragazza denunciante (cfr. P. Forno, L’ascolto del minore nel processo penale. Il bambino abusato: vittima due volte?); il giudice che presume di non aver alcun bisogno di aiuto nell’audizione protetta di una bambina fortemente a disagio, dichiarando di avere, in quanto padre, capacità di ascolto e di confidenza con i bambini: una presuntuosa convinzione che non impedisce certo al magistrato di condurre il colloquio in modo pesantemente suggestivo (in senso negativo) e squalificante nei confronti della bambina (cfr. C. Foti e D. Ghiano, L’audizione protetta: la preparazione, il sostegno e l’ascolto del piccolo testimone).

 

 

6. L’ascolto illusorio

 

L’ascolto è un impegno mentale e relazionale tutt’altro che semplice e scontato. Esiste certo un ascolto che può risultare stimolante o rassicurante, e che non pone certo problemi o difficoltà. Si tratta di un ascolto di comunicazioni piacevoli, rilassanti, capaci di confermare le nostre previsioni, i nostri schemi, le nostre immagini del mondo. Ma l’ascolto di cui maggiormente abbiamo bisogno come individui e come comunità sociale è un ascolto che non si fermi sulla soglia della dimensione dolorosa, conflittuale, imprevedibile dell’esistenza. Abbiamo necessità di un ascolto dei contenuti di sofferenza, di impotenza, di confusione: ascolto come disponibilità a fare silenzio, sgombrando il campo mentale da sentimenti e preoccupazioni che possono agire da barriera alla ricezione di comunicazioni provenienti dall’esterno, come disponibilità di attenzione-accoglimento dei messaggi provenienti dall’alterità dell’altro, come disponibilità a dare spazio alla dimensione del non previsto, del non conosciuto, del non desiderato, del non piacevole.

La competenza dell’ascolto in questo senso rappresenta una risorsa preziosa e scarsa nella comunità sociale, presupponendo nel soggetto in grado di ascoltare la capacità di tenere a bada due tendenze molto radicate nella mente umana: l’illusione e l’egocentrismo. In questo paragrafo parleremo della prima tendenza, nel paragrafo successivo affronteremo la seconda.

Nelle psicologie orientali l’illusione è il fattore mentale maggiormente insano che interferisce con la capacità di registrazione, sensoriale (visiva, auditiva, ecc…) e mentale, della realtà. Goleman, studiando la psicologia del buddismo classico afferma: «L’illusione è definita come un’opacità della mente che porta ad una falsa percezione dell’oggetto di consapevolezza. L’illusione è considerata come base dell’ignoranza, radice prima della sofferenza umana. Questa falsa percezione della natura delle cose - l’incapacità, semplicemente, di vedere con chiarezza, senza pregiudizi di alcun genere - è il nucleo di tutti gli stati mentali nocivi»[11].

L’illusione impedisce di riconoscere la realtà degli eventi e dei fenomeni per quello che sono e per come si manifestano, impedisce di registrare in modo corretto le informazioni provenienti dai fatti e dalle persone. L’illusione è nemica dell’ascolto perché nemica della consapevolezza.

Ascoltare l’abuso sessuale sui minori è veramente un impegno ostico. Occorre superare almeno sei forme di illusione:

1.        l’illusione relativa ad una comunità umana globalmente buona ed amorevole nei confronti dei suoi cuccioli o comunque capace di proteggerli dalla sessualizzazione perversa[12] (tale illusione va in frantumi prendendo atto delle estese dinamiche sociali di strumentalizzazione sessuale e di “odio erotizzato” sottese all’abuso);

2.        l’illusione relativa a una mente umana capace, al di là di eccezioni psicopatologiche, di mantenersi estranea a pratiche perverse e distruttive ai danni dell’infanzia (tale illusione viene meno nel constatare che i comportamenti abusanti sono per lo più agiti da soggetti socialmente adattati e privi di patologie conclamate dal punto di vista psichiatrico);

3.        l’illusione che esistano luoghi protetti dallo scatenarsi di azioni abusanti (la famiglia, la Chiesa o altre istituzioni “buone”): in particolare l’illusione relativa alla famiglia come luogo ottimale di protezione dei bambini, “rifugio dai dolori e dai traumi della vita quotidiana… microcosmo pieno di accudimento, nel quale i figli sono educati da genitori attenti, allo scopo di diventare cittadini buoni e responsabili”: tale illusione crolla nel constatare le dimensioni spaventose della violenza domestica (cfr. F. De Zulueta, Cause psicologiche della violenza familiare).

4.        l’illusione relativa all’infanzia (e alla nostra stessa infanzia) come età idealizzata e felice: se la comunità adulta, la famiglia e la stessa mente umana sono tutt’altro che esenti dalla tentazione di distorcere la relazione con il bambino a fini abusanti e strumentali, l’infanzia degli esseri umani non può essere del tutto al riparo da una qualche forma di impatto con mancanze di rispetto, più o meno gravi, degli adulti nei confronti dei bisogni infantili associati alla corporeità e alla sessualità;

5.        l’illusione relativa all’idea che per aiutare il minore abusato possa essere sufficiente una risposta capace di interrompere la violenza senza necessariamente avviare un impegno successivo di ascolto e di cura del suo trauma; l’illusione che il tempo sia il rimedio per tutti i mali (e di conseguenza di tutti i traumi) e pertanto che non sia indispensabile, per garantire un futuro al minore abusato, dargli la possibilità di riattraversare il passato, offrendogli la presenza empatica di un ascoltatore disponibile a rielaborare con lui l’esperienza traumatica: tali illusioni sono smentite dal fatto che a distanza di mesi, anni o decenni dall’interruzione della violenza si possono scatenare gravissimi disagi, sintomi e comportamenti post-traumatici che possono peraltro scaricarsi nella generazione successiva (cfr. E. Welldon, La ripetizione dell’abuso e dei maltrattamenti da una generazione all’altra);

6.        l’illusione che la soggettività di chi si accosta nei diversi ruoli all’abuso non costituisca, a seconda dei casi, problema o risorsa decisiva interagendo con la possibilità della vittima o presunta vittima di esprimere la propria verità: in altri termini l’illusione che sia possibile rilevare, valutare o curare il trauma sessuale di un bambino senza che la soggettività dell’operatore incida in modo rilevante, positivamente o negativamente, sulla comunicazione e sull’attivazione del bambino, l’illusione che ci si possa occupare di abuso senza dover incontrare sentimenti penosi e conflittuali, senza dover elaborare l’ansia, l’incertezza e la tensione, senza dover fare i conti con forti resistenze dentro di sé alla possibilità di accogliere la sofferenza e la confusione dell’interlocutore, senza dover tenere a bada le modalità difensive dell’evitamento o dell’iper-identificazione, senza assumere pertanto un doveroso impegno di formazione, confronto, supervisione (cfr. A. Vassalli, Cosa succede a chi ascolta l’abuso?).

Non mancano esempi di ascolto illusorio in questo volume: nel caso di Linda, una giovane donna che ha passato la propria infanzia e la propria adolescenza in un clima di costante violenza fisica e sessuale, lo psichiatra infantile che aveva conosciuto la bambina a scuola, il medico che aveva visitato spesso la ragazza per le continue infezioni al tratto urinario, le assistenti sociali che si erano occupate del caso non avevano mai percepito l’estrema gravità della situazione, evidentemente vittime del pregiudizio illusorio in base a cui si esclude a priori che la famiglia possa essere un luogo di abuso sistematico e brutale (cfr. F. De Zulueta, Cause psicologiche della violenza familiare); nel caso delle madri con una storia di abusi e deprivazioni alle spalle, l’ascolto illusorio è quello degli operatori che prendono per buoni i propositi di cambiamento di queste donne in relazione al loro impegno genitoriale senza neppure verificare in che misura nella loro funzione di madri sono effettivamente in grado, al di là delle loro intenzioni dichiarate, di evitare la ripetizione delle dinamiche di violenza che hanno inciso nella loro vicenda infantile (cfr. E. Welldon, La ripetizione dell’abuso e dei maltrattamenti da una generazione all’altra); nel caso della bambina abusata di quattro anni che amava cantare una canzoncina con contenuti sessuali molto espliciti (quali per esempio “ciucciami il pisello, baciami i capezzoli”), gli psicologi di un servizio pubblico, chiamati al compito di effettuare la psicodiagnosi della bambina, registrano il testo di tali canzoncine nella cartella clinica e altri dati significativi, ma scartano con nettezza l’ipotesi dell’abuso sessuale, non riuscendo evidentemente a formulare tale ipotesi all’interno della loro illusoria rappresentazione della realtà (cfr. C. Roccia e G. Guasto, Ti chiedo di parlare ma faccio in modo che tu taccia. La “suggestione negativa” nei casi di presunto abuso sessuale); nel caso di numerosi minori oggetto di valutazione in ambito giudiziario, l’ascolto illusorio è quello dei periti e dei consulenti del Tribunale che con la loro osservazione supposta come neutrale, distaccata ed obiettiva, ma in realtà fredda e disumana, pretenderebbero di registrare comunicazioni assolutamente non contaminate da parte dei bambini, non rendendosi conto così di danneggiare e contaminare pesantemente la capacità comunicativa dei soggetti esaminati, dato che qualsiasi bambino presuntamente abusato, in ogni caso, gravemente sofferente e disorientato, ha assoluta necessità per poter comunicare di ripristinare legami di fiducia con le figure adulte in un clima di accoglienza benevola ed empatica (cfr. C. Foti, Intelligenza emotiva e suggestione nella valutazione psicologica del bambino).

 

 

7. L’ascolto autocentrato

 

Come l’illusione anche l’egocentrismo è antitetico all’ascolto. Il soggetto chiamato all’ascolto (singolo, gruppo o istituzione che sia), ripiegato su se stesso e sui propri bisogni particolari non può aprirsi all’altro. E l’ascolto è apertura all’altro, non solo alle sue parole, ma più profondamente ai suoi bisogni, alla sua identità, alla sua stessa esistenza. In quest’ottica l’ascolto si colloca in una posizione mentale e relazionale diametralmente opposta alla perversione: questa intende usare e distorcere la soggettività dell’altro al servizio dell’equilibrio/squilibrio del Sé; l’ascolto invece tende a mettere l’equilibrio del Sé al servizio della soggettività dell’altro, non operando distorsioni o manipolazioni né nella soggettività di chi ascolta né in quella di chi comunica (cfr. C. Foti, L’ascolto dell’abuso e l’abuso nell’ascolto).

L’ascolto, in quanto consistente e dispendioso impegno, di tipo prevalentemente emotivo ed affettivo, è sempre stato una risorsa scarsa nella comunità umana. L’attuale cultura del narcisismo, che “non soltanto innalza i narcisisti a posizioni di prestigio, ma suscita e rafforza in ciascuno i tratti narcisisti”[13] non contribuisce certo ad incrementare le capacità individuali e sociali di ascolto. Si assiste addirittura ad un rovesciamento semantico e psicologico del concetto di ascolto, che non viene più inteso come disponibilità e servizio all’interno di una relazione interpersonale, come conoscimento/riconoscimento dell’altro, bensì come potere, come capacità di farsi ascoltare e di aumentare la propria audience, i propri indici di gradimento e di influenza sugli altri: nella cultura del narcisismo un individuo gode di stima sociale tanto più riesce non già a dare ascolto, bensì ad ottenere ascolto (sul piano mass-mediologico, nel proprio ambiente di lavoro o relazionale…).

Non mancano esempi, in questo volume, di forme di ascolto incapaci di autentica apertura all’altro, centrate sulle esigenze del singolo ascoltatore o sulle esigenze dell’istituzione, piuttosto che sull’attenzione e sul rispetto nei confronti delle comunicazioni del bambino o del suo bisogno di esprimersi: un ascolto di comodo centrato sul mondo degli adulti e non certo sul mondo dell’infanzia, a tutela degli interessi della generazione e della comunità adulta e non certo a tutela dei bambini, soggetti più deboli e meno garantiti socialmente e politicamente.

È l’ascolto adultocentrico e medicocentrico dei sanitari che visitano la piccola Sara: un ascolto che nega completamente i bisogni emotivi della bambina, sacrificandoli sull’altare dell’efficientismo e della volontà di sapere dell’istituzione ospedaliera (cfr. S. Farci, Adultocentrismo dell’istituzione e ascolto emotivo); è l’ascolto narcisistico del giudice che decide di condurre l’audizione protetta senza instaurare alcuna relazione interpersonale con la bambina, senza neppure presentarsi e familiarizzare con lei, al contrario scegliendo di condurre il colloquio utilizzando una televisione a circuito chiuso e parlando alla bambina come un personaggio televisivo da uno schermo, (cfr. L. De Rui, Le resistenze istituzionali e giuridiche al riconoscimento dell’abuso); è l’ascolto adultocentrico della psicologa che, nell’ambito di un colloquio peritale, sottopone una bambina, Annalisa, ad un’escalation di assurde richieste di prestazioni comunicative, espressive, grafiche senza minimamente calarsi nei panni della sua piccola interlocutrice e senza tener conto della sua età e delle sue esigenze, fino a suscitare comprensibilmente la rabbia e il rifiuto della bambina (cfr. C. Roccia, G. Guasto, Ti chiedo di parlare ma faccio in modo che tu taccia. La “suggestione negativa” nei casi di presunto abuso sessuale); è l’ascolto carente delle assistenti sociali che risulta pesantemente condizionato, prima ancora che da carenze professionali, da un’organizzazione del lavoro autoreferenziale, centrata su se stessa piuttosto che sulle esigenze degli utenti, una organizzazione dove le linee guida e le modalità gestionali ed operative non consentono di valorizzare e rispettare le risorse umane degli operatori, i quali di conseguenza non sono assolutamente messi nelle condizioni di ascoltare (cfr. M. Dellavalle, Autotutela delle istituzioni e ascolto del bambino).

 

 

8. Tre tipi di resistenze all’ascolto dell’abuso

 

Mi è capitato in alcune occasioni di proporre all’interno di incontri di formazione con équipe di operatori psico-sociali che intervengono sull’abuso un’attivazione basata sull’intelligenza emotiva che iniziava con la seguente consegna: «Esplicitate un problema che vi sta a cuore o che vi pesa relativo alla questione di cui vi occupate e comunicate un sentimento significativo associato a questo problema». Mi è capitato di verificare che tanto più il gruppo ha accumulato esperienza clinica e sociale sull’abuso sessuale sui bambini e ha maturato una capacità di espressione in termini di autenticità, concretezza e consapevolezza, tanto più le risposte alla consegna mettono a fuoco in prevalenza problematiche inerenti alla difficoltà ad ascoltare l’abuso.

Emergono tre tipi di resistenza all’ascolto dell’abuso, che risultano spesso associate tra loro:

1.        resistenze della vittima a porsi in posizione di ascolto del proprio trauma, dei fatti, dei pensieri e dei sentimenti associati all’abuso patito;

2.        resistenze della comunità adulta e delle istituzioni ad aprirsi al riconoscimento dell’abuso sessuale all’infanzia, spesso sbattendo la porta in faccia di fronte alle piccole vittime e ai loro familiari e calpestando le loro necessità di solidarietà, aiuto, giustizia e cura;

3.        resistenze soggettive degli stessi operatori, anche di quelli più sensibili, ad avvicinarsi all’abuso sessuale, per diagnosticarlo, contrastarlo, curarlo, resistenze in genere tanto maggiori quanto più forte è l’impatto, richiesto dai casi, con l’impotenza, con il dolore, con la confusione e con la prospettiva ansiogena di andare incontro a conflitti e rischi personali.

Gli psicologi impegnati in compiti di psicodiagnosi o trattamento dell’abuso segnalano per esempio di frequente la grande difficoltà delle stesse vittime ad avvicinarsi al trauma, ad ascoltare se stesse, ritornando mentalmente e verbalmente sulla propria storia. Contestualmente riconoscono spesso la propria difficoltà soggettiva ad aiutare il paziente, piccolo o grande che sia, a riprendere contatto mentale con l’abuso.

Dice Amelia, psicoterapeuta: «Come superare le resistenze a ricordare? La mia paziente ventenne mi dice: “È passato del tempo, non ne voglio più parlare”. Io ovviamente cerco di fare collegamenti tra i problemi della sua vita e la sua vicenda di abuso, ma sento un forte dispiacere, un’impotenza perché mi pare che le sue resistenze permangano».

Giovanna, psicologa, afferma: «Seguo una ragazza che forse è stata abusata dal vicino di casa. È una vicenda penosa, confusa. Il vicino aveva una relazione con la madre della ragazza… Il mio sentimento è di fatica, di impazienza. Non riesco a tollerare i silenzi, i lunghi silenzi della ragazza… prima pensavo che avrei dovuto aver più pazienza, accettare di più i suoi silenzi… in supervisione ho capito che forse anch’io ho paura a fare domande, a rompere questo silenzio: anch’io ho paura di ascoltare una storia così meschina, così pesante…».

La collega Manuela insiste sul tema: «Sto male, mi sento impotente di fronte alla grande difficoltà di Kevin, un bambino che seguo, a parlare dell’abuso. Anche se l’abuso è conclamato, non riesco a superare il timore di approfondire le cose che mi dice, di fare le domande… Quando Kevin mi dice: “Ma adesso basta lasciami giocare”, non so più cosa fare… Ho paura di farlo star male».

La resistenza dello psicologo ad ascoltare e metabolizzare il contenuto “indigesto” dell’abuso talvolta si somma e si confonde con la resistenza del paziente a fare altrettanto.

Un gruppo di interventi di varie figure professionali si concentrano invece sulle resistenze familiari, istituzionali e sociali ad ascoltare e a riconoscere l’abuso. «Nel mio servizio psichiatrico - dice Floriana, assistente sociale - compare in cartella in un passaggio quasi insignificante, poco approfondito che la paziente ha subito abuso sessuale da parte del nonno… non viene specificato se e come questo abuso è stato affrontato, denunciato, elaborato… poi si viene a sapere che la paziente ha tentato il suicidio, ma questo fatto non viene neppure per ipotesi messo in collegamento con la storia della paziente…».

Il grave deficit di ascolto nei confronti dell’abuso da parte della comunità adulta è tale che non solo viene rimosso il fenomeno, ma vengono pure negati i suoi effetti, anche quando questi si manifestano in modo eclatante davanti agli occhi dell’osservatore: si perdono completamente i nessi tra la sofferenza della vita adulta e la vicenda infantile, tra i sintomi più drammatici e il trauma che ha contribuito a determinarli.

Talvolta il ricorso alla negazione risulta massiccio proprio in quegli ambiti (per es. nei servizi psichiatrici o nei servizi per le tossicodipendenze) dove in teoria potrebbero essere meglio osservate le conseguenze rovinose di medio e di lungo periodo delle violenze (sessuali e di altro genere) patite dagli utenti nella loro infanzia ed adolescenza. In queste situazioni la necessaria alleanza che gli operatori tentano di costruire con i loro utenti adulti porta spesso ad un’identificazione collusiva e adultocentrica: vengono così negate le carenze genitoriali di questi utenti, non affrontati gli antichi abusi infantili da cui tali carenze hanno preso le mosse ed esclusi interventi di allontanamento e di protezione dei loro figli, anche quando coinvolti in situazioni di violenza intrafamiliare.

Le resistenze istituzionali all’ascolto dell’abuso portano non di rado a situazioni paradossali di palese negazione dei più fondamentali diritti dei bambini. «Io lavoro come psicologa in un consultorio - afferma Nicoletta - mi sono sentita impotente quando sono stata nominata ausiliario del giudice per un’audizione protetta: non solo il magistrato rifiuta qualsiasi incontro finalizzato ad una conoscenza preliminare della bambina, ma mi ha anche specificato che non devo neppure informare la bambina del giorno dell’audizione protetta… incredibile, ma vero… secondo lui dovrei farla venire con una scusa per garantire che la testimonianza non risulti in alcun modo preparata… non si potrebbe neppure immaginare di coinvolgere un adulto in un atto giudiziario tenendolo all’oscuro fino all’ultimo del suo svolgimento».

Spesso l’impatto con le forti resistenze sociali e istituzionali a rifiutare l’abuso produce effetti di pena, di insofferenza, di rifiuto: queste reazioni emotive di rigetto, queste resistenze ad accettare la resistenze, ancorché pienamente comprensibili, rendono difficile l’elaborazione dei problemi.

«Talvolta - dice Adele, psicologa - sono del tutto scoraggiata nello scontrarmi nel lavoro di formazione con le resistenze degli operatori. Due medici mi hanno detto che nella loro città gli abusi sessuali sono poco rilevanti numericamente e quindi non rappresentano un problema. Mi sono cascate le braccia e mi ha preso lo sconforto».

«Mi sono trovata - dice Fiorella, formatrice - in un gruppo di formazione di fronte a degli insegnanti che avevano avuto lo scorso anno un’allieva che dopo una forte crisi non era più venuta a scuola. Avevano saputo che il padre era stato processato per rapporti incestuosi con la figlia… quest’anno la storia si ripete con la sorella, che comincia ad avere una caduta del rendimento scolastico e altri segnali di sessualizzazione e di malessere che avevano già osservato nella sorella… mi dicono : “Noi abbiamo capito subito di cosa si trattava, ma per il buon nome della scuola non abbiamo potuto fare nulla”… cioè, pur sapendo che la loro allieva con ogni probabilità era vittima di violenza, hanno deciso di lasciare la ragazza nel suo inferno… il mio sentimento è di indignazione a dir poco, e anche di grande rabbia… Adesso non ce la faccio più a proseguire la formazione con questo gruppo di insegnanti: il mio è un disgusto che non so gestire».

Talvolta invece l’impatto con le resistenze sociali ed istituzionali al riconoscimento dell’abuso e la denuncia dell’incapacità altrui di ascoltare l’abuso si accompagnano in molti operatori all’ammissione di analoghe resistenze e analoghe difficoltà di ascolto.

«Il mio problema - dice Davide, coordinatore di un servizio - è quando mi scontro nel rapporto con altre istituzioni con la mancanza di disponibilità ad ascoltare il problema… ma a ben vedere il mio problema è l’abuso sessuale in quanto tale… mi turba, mi fa star male, mi pone questioni che mi sembrano sempre faticosissime, per esempio nel rapporto con l’autorità giudiziaria… il mio sentimento è… mi sento inadeguato all’abuso».

«Mi è stata assegnata una nuova paziente - dice Nicoletta che lavora in una comunità psichiatrica - è stata inserita da poco, quando l’hanno presentata l’abuso sessuale che ha subito dal padre è stato nominato, appena accennato, ma assurdamente il fatto non compare in cartella… eppure molti suoi sintomi potrebbero essere collegati ad un trauma sessuale… il mio sentimento è di ansia: non so come avvicinarla alla sua storia, come avvicinarmi… non so come affrontare il suo trauma… speravo sinceramente che non mi assegnassero il suo caso».

 

 

9. Gli ostacoli intrapsichici all’ascolto dell’abuso

 

La mente umana tende a scappare via dalla sofferenza e a scappare a gambe levate dalla sofferenza traumatica. Le psicologie orientali più profonde e le psicologie occidentali più analitiche concordano nel sottolineare come la mente umana sia tentata abitualmente di seguire le strade dell’illusione piuttosto che quelle dell’ascolto e dell’elaborazione della verità, di seguire le strade dell’autoinganno piuttosto che quelle della consapevolezza e del principio di realtà. Il riconoscimento della sofferenza in generale ed il riconoscimento della sofferenza, prodotta dalla violenza sessuale all’infanzia, in particolare sono operazioni mentali intensamente sofferte e conflittuali in quanto si oppongono al bisogno di illusione della mente umana. Il trauma in quanto esperienza di fragilità mette a dura prova la tendenza illusoria del soggetto umano a controllare in modo onnipotente la realtà, a negare la sofferenza e il cambiamento che invece sono elementi costitutivi dell’esistenza.  Si potrebbe anche affermare che la comunità sociale fugge illusoriamente dall’ascolto e dall’elaborazione della verità in quanto la stessa vita umana si gioca, in maggiore o minore misura, in un registro traumatico, avendo comunque sempre qualcosa a che vedere con la violenza e con la morte.

Il trauma comporta sempre per la vittima un danno cognitivo, un’alterazione della capacità di registrare adeguatamente le informazioni sia quelle relative all’evento traumatico, sia, in maggiore o minore misura,  quelle relative a tutte le situazioni successive associabili all’evento traumatico. Il trauma incentiva sempre la difficoltà mentale del soggetto umano a porsi in posizione di ascolto di sé stesso, della propria storia e della propria realtà, a maggior ragione il trauma sessuale ai danni di un bambino. Le reazioni difensive al trauma quali il distacco emotivo, l’estraniazione da sé, l’amnesia, la dissociazione, proteggendo il soggetto dal contatto con un’esperienza troppo penosa per essere integralmente pensata, frammentano il flusso di consapevolezza che normalmente consente di associare nella mente i pensieri, i sentimenti, i ricordi, il comportamento.

La difficoltà della piccola vittima di abuso a mantenere il contatto con la propria esperienza e con la propria memoria rinforza le difficoltà di ascolto, di registrazione e di ricostruzione di quanto successo da parte di un ascoltatore adulto: «Ci sono importanti differenze tra un abuso sessuale dell’infanzia e il coinvolgimento in un disastro: anzitutto quest’ultimo avviene in un contesto di normalità; la minaccia si realizza improvvisamente e in un contesto pubblico. Quindi, il terapeuta o il ricercatore possono velocemente acquisire uno scenario, ragionevolmente chiaro di ciò che ogni superstite ha passato durante l’evento, aiutandolo a ricordare ciò che è accaduto. Al contrario, l’abuso sessuale avviene in un contesto di segretezza e di vergogna, spesso accompagnato da minacce di violenza nel caso in cui il bambino si confidi con qualcuno; dettagli fondamentali riguardanti gli abusi sono privati e pertanto difficilmente accessibili da parte del ricercatore»[14].

L’impreparazione nella fase precedente all’evento traumatico; l’impetuosità dei sentimenti di “paura intensa” “impotenza” ed “orrore”[15] vissuti dalla vittima nel contesto dell’evento traumatico, l’impossibilità in questo contesto di utilizzare adattivamente tali sentimenti con una reazione efficace di lotta o di fuga; l’enorme difficoltà ad esprimere e ad elaborare i vissuti emotivi traumatici, nella situazione successiva all’evento, per la solitudine e l’incomprensione a cui la vittima va incontro e soprattutto per la negazione attraverso cui l’autore della violenza e l’ambiente circostante cercano di cancellare o rimuovere le tracce della violenza stessa: questi elementi fanno sì che il trauma contrasti inevitabilmente la capacità del soggetto di registrare in modo adeguato l’esperienza, di immagazzinarla, di simbolizzarla correttamente, di poterla ascoltare dentro di sé e di poterla recuperare e comunicare in modo integro.

La mente umana è un contenitore che, nell’impatto con il sadismo, con la perversione, con la follia, tende ad essere invaso ed allagato da una debordante dimensione di sofferenza, impotenza, tensione e conflitto che finiscono per travalicare la pensabilità, cioè la capacità di contenimento (dal lat. cum-tenere, tenere insieme) e di elaborazione mentale.

Questo dato non può portare ad affermare una visione pessimistica della mente umana: adeguatamente allenata all’impegno della consapevolezza e soprattutto adeguatamente sostenuta da una rete di ascolto, solidarietà e sostegno psicologico la mente umana ha le risorse per affrontare e metabolizzare i contenuti mentali più penosi ed indigesti, per riciclare e smaltire le esperienze più negative e rifiutabili.

Se questa potenzialità spesso non si traduce in atto non è per un deficit strutturale della mente. L’abuso sessuale infantile potrà incontrare risposte di ascolto, di riparazione e di cura sempre più efficaci con lo sviluppo della conoscenze scientifiche sul trauma e dell’intelligenza emotiva sociale.

Sintetizzando categorie della psicologia occidentale e della psicologia orientale (specie quella buddista)[16] si può definire il trauma in questi termini: un’esperienza che la mente umana in relazione alla propria opacità tende ad evacuare ed in relazione alla propria lucidità può elaborare. La lucidità è conseguenza dell’impegno di consapevolezza del soggetto precedente e successivo al trauma e del sostegno chiarificatore dell’ambiente, di cui la vittima può disporre. L’opacità d’altro canto è conseguenza dell’assenza di consapevolezza del soggetto, favorita dalle carenze psicologiche e personologiche precedenti al trauma e nel contempo è funzione degli atteggiamenti di diniego e di espropriazione della verità che hanno preceduto, accompagnato e seguito il trauma.

Il pessimismo antropologico sulla mente umana non può che essere una copertura della mancanza di responsabilità della comunità sociale che tende a lasciare isolate le vittime dei traumi (soprattutto quelle più deboli e senza voce, tra cui i bambini), non garantendo risposte di supporto sociale e vicinanza emotiva: una comunità che, peraltro, scoraggia negli individui le risposte di sensibilità e solidarietà nei confronti della sofferenza, favorendo invece comportamenti ed atteggiamenti mentali di indifferenza e di fuga dalla consapevolezza.

Analogamente il pessimismo antropologico per cui viene affermata nella mente umana l’esistenza di un istinto di morte, come espressione di un impulso autodistruttivo innato[17] non è nient’altro che una straordinaria mistificazione ideologica per evitare di prendere atto dei nessi storici e psicologici tra l’azione traumatica, la mancata protezione e la mancata assistenza delle vittime da parte dell’ambiente e gli impulsi autodistruttivi reattivi ed interiorizzati nelle vittime stesse[18] (impulsi particolarmente presenti nelle vittime di abuso sessuale, in misura direttamente proporzionale alle carenze di ascolto incontrate, sotto forma di tendenza alla rivittimizzazione, sotto forma di comportamenti autolesionisti e anticonservativi, di agiti sessuali rischiosi, di disturbi alimentari compulsivi, ecc.).

 

 

10. Gli ostacoli sociali all’ascolto dell’abuso

 

Pamela è una bambina di nove anni: per un terzo della sua vita (cioè per tre anni) è stata abusata dal padre con la complicità della madre. I suoi sintomi sono stati devastanti fino a che la sua mente non ha potuto gradualmente svuotarsi dalle proiezioni paterne (definite da lei “mostri”) che le occupavano e le riempivano la mente. Per tanto tempo la mente di Pamela è stata “piena di papà”, territorio dove scorazzavano pensieri seduttivi, minacciosi, ricattatori, non riuscendo a pensare, ad apprendere, a dormire serena, a sviluppare interessi sani.

Il trauma è qualsiasi situazione psichica che genera l’impossibilità dell’apparato psichico a fare fronte a stimoli eccessivi, è qualsiasi evento esterno che provoca un’intrusione di materiale che non è elaborabile all’interno dell’apparato psichico, determinando la costituzione di una zona estranea, proveniente dall’esterno, all’interno della mente[19].

Il trauma sessuale (e il trauma in generale) minaccia dunque l’integrità della mente. Le difese nei confronti del riconoscimento e dell’elaborazione del trauma coinvolgono innanzitutto la vittima che ha subito l’abuso e ovviamente il suo autore che è interessato a negarla. Tali difese si estendono all’eventuale testimone, che potrebbe dare informazioni sui fatti e sulla vittimizzazione del bambino (cfr. F. Borgogno, Originalità e creatività del concetto di trauma nel pensiero e nell’opera di Sándor Ferençzi) e, a maggior ragione, si ritrovano nella comunità scientifica e nella comunità sociale, che non ha assistito direttamente alla violenza e che pertanto può facilmente metterla in dubbio, minimizzando o, addirittura, negando in particolare tre aspetti: a) l’esistenza e la consistenza delle esperienze traumatiche; b) gli effetti distruttivi che il trauma potrà generare nell’evoluzione individuale della vittima, nei suoi comportamenti sociali e nella trasmissione intergenerazionale della violenza; c) le proprie responsabilità indirette nella genesi della violenza e le proprie responsabilità dirette nell’indispensabile attivazione di un intervento di supporto alla vittima e di riparazione del danno.

Come la vittima e come l’autore anche la comunità scientifica e la comunità sociale tendono a rifiutare il trauma come materiale inelaborabile e impensabile. Se le difficoltà e le resistenze della vittima all’ascolto e alla metabolizzazione mentale del trauma sono massicce, le difficoltà e le resistenze della comunità e delle sue stesse istituzioni preposte alla cura e alla tutela lo sono ancora più intensamente. Se il soggetto traumatizzato, anche quando si difende strenuamente dal ricordo del trauma, conserva un interesse anche inconsapevole a riprendere contatto con la verità del suo passato per poterla elaborare (e lo fa per es., seppure non intenzionalmente, ritornando sui trascorsi eventi traumatici attraverso i suoi sintomi intrusivi), la comunità sociale sembra spesso interessata a seppellire la verità della sofferenza delle vittime.

Le radici di questo atteggiamento difensivo si prestano a tre interpretazioni.

1. Lettura psicologico-sociale: il soggetto traumatizzato rappresenta, personifica ed evoca la fragilità e la debolezza della condizione umana; ricorda quanto questa condizione sia strutturalmente esposta al cambiamento brusco ed imprevedibile, ad eventi violenti di natura sociale ed ambientale e al confronto con la morte. Il trauma attiva meccanismi difensivi primariamente di rimozione, distacco emotivo, razionalizzazione, scissione[20], secondariamente di identificazione proiettiva. Il trauma sollecita nella comunità sociale atteggiamenti e risposte da un lato di disidentificazione, di evitamento e di insensibilità, dall’altro di curiosità sensazionalistica e non partecipe.

     La resistenza sociale e culturale alla consapevolezza del fenomeno dell’abuso all’infanzia evolve attraverso diverse fasi temporali e attraverso il superamento di successivi sbarramenti di negazione: abbiamo socialmente raggiunto un certo livello di consapevolezza, anche se non pienamente soddisfacente, sul fenomeno della violenza fisica; stiamo affrontando le forti resistenze legate alla rimozione del fenomeno della pedofilia  e dell’abuso sessuale; evidentemente ci vorrà ancora parecchio tempo prima che la comunità adulta sia in grado di prendere coscienza  e di responsabilizzarsi in modo adeguato sul fenomeno della violenza psicologica o su alcune manifestazioni della violenza sessuale all’infanzia, che risultano tuttora mentalmente intollerabili, pertanto impensabili e inaffrontabili dalle istituzioni sociali (ci riferiamo a certe forme di sfruttamento organizzato della sessualità minorile e del commercio di materiale pedo-pornografico[21], alle sette sataniche[22], ecc.). 

2. Lettura antropologica: l’origine della comunità umana prende avvio per René Girard[23] dal sacrificio rituale della vittima innocente, che consente al gruppo sociale di salvaguardare la propria unità e di fermare le dinamiche di violenza che rischierebbero di autodistruggere il gruppo stesso. I bambini sessualmente vittimizzati, moderne vittime sacrificali, rischiano di essere tabuizzati e dimenticati, in quanto ricordano alla comunità sociale l’incesto e la violazione delle regole sessuali, da cui essa desidera tenersi distante. La comunità sociale in quest’ottica ha un qualche interesse a trovare una mediazione tra adulti tutelanti e adulti perpetratori, a non prendere posizione pro o contro una piccola vittima per restare al di fuori dalla spirale di violenza che il coinvolgimento in un conflitto potrebbe generare. Il sacrificio della vittima di abuso e il silenzio che la circonda risparmiano così alla comunità sociale il costo di enormi tensioni e conflitti, ovviamente con pesantissimi danni per il futuro individuale e sociale della vittima, danni che potranno tuttavia essere facilmente misconosciuti.

3. Lettura sociologica: dato che l’abuso sessuale sui minori comincia ad uscire dalla dimensione di silenzio e di omertà nella quale per secoli o millenni è stato avvolto, dato che il fenomeno è stato messo al centro di una qualche attenzione dai mass-media ed è stato appuntato nell’agenda della comunità sociale, dato che iniziative culturali, legislative, istituzionali cominciano, pur limitatamente, a garantire risposte efficaci di contrasto alla violenza sessuale sui minori, inizia ad essere messa in discussione l’impunità quasi totale e generalizzata di cui la figura del perpetratore ha storicamente goduto. Tale figura d’altra parte ha una sua consistenza sociale, comprendendo individui e gruppi, dotati di forti abilità mimetiche delle proprie componenti perverse e distruttive, capaci di rilevante negoziazione economica, politica mediatica.

Tali soggetti sono in grado di disporre di vaste complicità sociali e di una lobby trasversale, a cui appartengono una schiera di esperti, avvocati, consulenti, giornalisti e uomini politici. Sono in grado di appoggiarsi ad una diffusa “cultura pedofila”, che affonda le sue radici nell’immaginario erotico maschile da sempre pronto ad esaltare la conquista sessuale di oggetti più giovani e più attraenti in un’ottica sganciata da qualsiasi dimensione di comunicazione interpersonale ed affettiva. Sono in grado di contare su estese, più o meno consapevoli, simpatie ideologiche e culturali, proponendo un modello culturale ed etico che si pone come permissivo, pseudo-libertario e pseudo-edonistico. Ce n’è abbastanza per intuire la forza delle resistenze sociali all’estensione coerente dello svelamento dell’abuso sessuale sui bambini e per comprendere l’enfatizzazione strumentale del fenomeno, pur reale, dei falsi negativi (cfr. C. Foti e N. Bolognini, Quando i bambini dicono bugie…).

Proprio all’inizio del suo libro su trauma e guarigione, Judith Herman afferma: «La storia del trauma psicologico soffre di amnesia ricorrente. Il conflitto intrapsichico della vittima di un trauma tra tentativo di dimenticare e il non poterlo fare, si riflette nella comunità scientifica. Si sono alternate fasi di attiva investigazione a fasi di oblio»[24].

Nella comunità scientifica viene a riflettersi il conflitto tra il perpetratore e la vittima. Nell’epoca attuale si contrappongono duramente tendenze e controtendenze, spinte al riconoscimento dei diritti della vittime e spinte alla difesa degli abusanti. Per la Herman il dibattito nella comunità scientifica è centrato sul fatto se questi fenomeni siano credibili e reali. Periodicamente la questione diventa interdetta, relegata nel regno dell’impensabile. Il perpetratore promuove silenzio e oblio e se fallisce tenta di attaccare la credibilità della vittima: “Sono tutte falsità che infangano un innocente, occorre mettere una pietra sopra e dimenticare”. La vittima chiede invece di dividere il peso del dolore, ma se la vittima, in quanto donna, in quanto bambino è già svalutata socialmente e non dispone affatto di uno status riconosciuto, la mancanza di validazione sociale rende l’esperienza indicibile: vengono a mancare le parole. Se la vittima non trova un ambiente sociale che la supporti, soccombe.

Poiché il trauma è tendenzialmente impensabile ed indicibile, poiché la vittima è tendenzialmente perdente, emarginata ed inascoltata nel suo dolore, nella sua impotenza e nella sua domanda di giustizia e riparazione e poiché infine l’autore della violenza gode spesso di credibilità e sa influenzare le sedi del potere sociale, per prevenire, riconoscere e curare il trauma occorre una crescita sociale e politica della comunità, una maturazione delle sue risorse di ascolto e di attenzione ai gruppi sociali emarginati.

Gli sviluppi dell’attenzione clinica e scientifica alle problematiche dei soggetti traumatizzati sono stati storicamente sollecitati dai movimenti per i diritti umani capaci di esprimere valori democratici e solidaristici: l’interesse al tema dell’isteria femminile, dei reduci di guerra affetti da nevrosi traumatica, delle donne vittime di stupro, dei bambini vittime di violenze si sono sviluppati in modo particolare, rispettivamente, all’interno del movimento anticlericale e repubblicano francese della fine dell’800, all’interno del movimento pacifista sviluppatosi negli USA durante e dopo la guerra in Vietnam, all’interno del movimento femminista e del movimento per i diritti dell’infanzia[25].

Esistono dunque fattori sociali e politici che possono ostacolare e fattori sociali e politici che possono favorire l’ascolto dei soggetti traumatizzati, così come esistono condizioni istituzionali e organizzative che possono mettere in difficoltà oppure, all’opposto, aiutare gli operatori nel difficile compito dell’ascolto dei bambini abusati (cfr. M. Dellavalle, Autotutela delle istituzioni e ascolto del bambino).

 

 

11. Ascolto del trauma e psicoanalisi

 

Vera, una donna di 35 anni, che ha iniziato l’analisi dopo la separazione dal marito, recupera un ricordo infantile molto confuso e sgradevole di un abuso sessuale perpetrato dallo zio. Ne parla qualche volta con il suo psicoanalista, che tenta in ogni modo di leggere il ricordo come espressione di fantasie edipiche e come modalità di evitamento nei confronti di problematiche, ritenute più profonde, emergenti in analisi. Vera è molto confusa: confrontandosi con un’amica, il suo ricordo diventa più preciso, ma parlandone con il suo analista aumenta l’angoscia e addirittura la sensazione di diventare matta. Da questa situazione esce soltanto con l’interruzione dell’analisi e con la ricerca di un altro percorso psicoterapeutico.

Lunghi anni di analisi personale e didattica, di formazione teorica e seminariale non hanno consentito allo psicoanalista di Vera, di ascoltare il trauma della sua paziente, che s’è così trovata a risperimentare la situazione gravemente stressante, già vissuta nell’infanzia, di mancato riconoscimento da parte dell’ambiente della violenza subita.

Appaiono fondamentali le riflessioni di quei teorici della psicoanalisi che hanno cercato di scoraggiare un modello terapeutico più interessato alla sapienza interpretativa che non all’impegno empatico ed interattivo dell’analista ed in particolare il contributo di Sandor Ferençzi che ha sottolineato il rischio da parte dello psicoanalista di un ascolto inconsapevolmente ripetitivo, invece che curativo, della situazione traumatica.

Dal pensiero straordinariamente anticipatore di Sandor Ferençzi e dalla importantissima riflessione su questo autore, approfondita da anni da Franco Borgogno (cfr. in questo libro, Originalità e creatività del concetto di trauma nel pensiero e nell’opera di Sándor Ferençzi) possono essere estrapolati i seguenti elementi cardine per una teoria psicoanalitica dell’ascolto del trauma infantile.

1. Ascolto come assunzione di un atteggiamento non colpevolizzante nei confronti del bambino. L’ascolto rispettoso presuppone innanzitutto la consapevolezza che il trauma non è di responsabilità del bambino traumatizzato,  bensì di un evento sovrastante che rinvia alla responsabilità di adulti che hanno tradito il loro mandato educativo ed affettivo. L’ascolto psicoanalitico deve inoltre disporre di una teoria in base a cui la sofferenza mentale possa essere ricondotta più che ad ingorghi della libido del soggetto, a risposte più o meno inadeguate o distorcenti dell’ambiente, una teoria in base a cui la violenza non sia vista come il risultato di un desiderio masochistico della vittima ma di una logica di dominio che si impone alla vittima stessa e alla quale quest’ultima è costretta ad adattarsi in ragione della propria solitudine, della propria impotenza e della mancanza di sostegni e di alternative[26]: una logica di dominio con la quale la vittima può magari difensivamente colludere, ma da cui può e deve essere protetta ed emancipata.

2. Ascolto del trauma come capacità di identificazione con la piccola vittima. Ascolto come tentativo di ricostruire la vicenda relazionale e mentale del soggetto prima, durante e dopo il trauma, tentando di assumere il punto di vista del bambino abusato. Nella storia della psicoanalisi il condizionamento della cultura adultocentrica ha sollecitato ad inquadrare la comprensione dei sintomi e dei problemi del soggetto traumatizzato con l’ottica colpevolizzante dell’ambiente indifferente e insensibile che circonda la vittima o addirittura con le categorie dell’abusante. La psicologia e la psicoanalisi, nel momento in cui si pongono come neutrali di fronte al conflitto tra adulti e bambini, tra i più forti e i più deboli, tra coloro che hanno voce e coloro che non ce l’hanno, diventano rinforzo ideologico dell’abusante. Occorre invece che psicologia e psicoanalisi si prestino a comprendere i sintomi e ad impostare diagnosi e cura guardando il mondo, ed in particolare il mondo della sofferenza psichica, attraverso gli occhi dei bambini e dei soggetti deboli e vittimizzati.

3. Ascolto come interesse partecipe alla storia del soggetto. Ascolto come capacità di prendere sul serio la storia traumatica del bambino, superando quell’indifferenza irresponsabile al contenuto di realtà delle comunicazioni del paziente che caratterizza molti atteggiamenti psicoanalitici e psicoterapeutici. Ascolto del trauma come capacità di riconoscere e di testimoniare innanzitutto al paziente, ma se necessario non solo a lui, l’origine extrapsichica ed ambientale del trauma, per sorreggere e non già disconfermare la capacità del paziente di distinguere il falso dal vero, per sostenere e non già affossare la sua sanità psichica. «Pare che i pazienti - scriveva Ferençzi - non possano credere, o almeno non completamente, alla realtà di un avvenimento se l’analista, unico testimone del fatto, mantiene un atteggiamento freddo, anaffettivo e, come i pazienti lo definiscono, puramente intellettuale, mentre gli avvenimenti sono di natura tale da suscitare in qualsiasi spettatore sentimenti e reazioni di rivolta, di angoscia, di terrore, di vendetta, di lutto, e propositi di un aiuto sollecito onde rimuovere o distruggere la causa o il responsabile; e poiché si tratta generalmente di un bambino, di un bambino ferito (ma anche indipendentemente da ciò), vi è il sentimento di volerlo confortare affettuosamente ecc., ecc. Si può dunque decidere di prendere veramente sul serio il ruolo di osservatore benevolo e soccorrevole, vale a dire di lasciarsi effettivamente trasportare con il paziente in quel dato momento del suo passato»[27].

4. Ascolto come capacità di dare voce all’autonomia del bambino. Il trauma è un attacco alla capacità espressiva e comunicativa del bambino, alla sua soggettività, invasa dalle proiezioni dell’adulto abusante e dalla nebbia confusiva prodotta dalle sue negazioni. Il furto di verità accompagna sempre l’appropriazione indebita del corpo del bambino sin dalla fase preliminare della seduzione da parte dell’adulto perverso con l’imbroglio e la manipolazione che preparano e consentono l’abuso. La negazione è costitutiva del trauma in quanto sempre accompagna e segue l’azione abusante, sia in quanto negazione della percezione del bambino (“erano solo coccole…”, “te lo sei sognato…”), sia in quanto negazione della consapevolezza (“non me ne sono reso conto…”, “ero fuori di me…”), della responsabilità dell’abusante (“era la bambina che me lo chiedeva”) e delle conseguenze della sua azione (“in fondo non è successo niente di grave”)[28], sia infine in quanto negazione della negazione, ovvero negazione da parte dell’abusante del proprio tentativo di cancellare le tracce e di nascondere la verità (“non devi accorgerti che questo è un abuso e non devi accorgerti di tutto quello che ho fatto per fare silenzio attorno a questo abuso”). L’ascolto del trauma deve essere dunque capace di contrastare la confusione e il fraintendimento delle espressioni e dei bisogni infantili, che ha caratterizzato l’abuso[29], rispettando l’originalità del linguaggio e del codice infantile e aiutando il bambino a differenziarsi dal punto di vista dell’adulto, in particolare dalle parole, dai pensieri e dai sentimenti che l’abusante ha immesso nella mente del bambino.

5. Ascolto come capacità di decodifica dei segnali diversificati della sofferenza dei bambini derivante da relazioni mal/trattanti e abusanti di varia natura. L’ascolto deve saper riconoscere con atteggiamento accogliente e non giudicante le intrusioni e le espropriazioni degli adulti che hanno lasciato un’impronta nell’emergente vita psichica del bambino (cfr. N. Bolognini e C. Foti, Rimozione non fa rima con prevenzione, né con protezione); deve sapere individuare le forme di deprivazione per eccesso o per difetto che le interazioni violente e strumentali gestite dall’adulto hanno potuto produrre in varia maniera nell’evoluzione del bambino. L’ascolto del trauma presuppone una sensibilità alle diverse ferite alla vita affettiva e mentale della piccola vittima, ferite rintracciabili in una varietà di indicatori, che, con attenzione emotiva e competenza clinica, senza atteggiamenti anticipatori o ancora una volta proiettivi, possono essere colti e raccolti nella comunicazione, nel comportamento, nell’atteggiamento emotivo del bambino e nella stessa dimensione del suo corpo, una dimensione dove i bisogni e i sentimenti infantili non espressi e non rispettati possono tradursi in sintomo.

Una parte dei suddetti contenuti sono stati riproposti e divulgati da Alice Miller[30], le cui opere, peraltro, sono state al centro della riflessione e dell’elaborazione che ha dato vita al Centro Studi Hänsel e Gretel.

 

 

12. Aiutare i bambini ad esprimere la propria verità

 

Il bambino che sta subendo un abuso sessuale intrafamiliare vive un’esperienza, che lo allontana dal dialogo familiare e sociale e lo getta in una dimensione esistenziale diversa da quella dei suoi coetanei. In questa dimensione, caratterizzata dalla strumentalizzazione psicologica e fisica da parte dell’adulto, è del tutto assente una comunicazione piena e autentica fra il bambino e altre figure di riferimento. La piccola vittima vive in un clima dove l’eccitazione sessuale si alterna all’angoscia, alla colpa, all’ingiunzione a tacere, all’imbroglio e, dunque, alla confusione. Tutti questi elementi accompagnano la messa in atto dell’abuso e tendono a garantirne la perpetuazione, contrastando il bisogno e la possibilità del bambino di rivelare l’abuso. Sono sempre molto significativi e mai casuali sia il momento che l’interlocutore scelti dal bambino per la sua rivelazione. Colui che raccoglie le prime sofferte confidenze del bambino è una figura investita di aspettative importanti.

Se facciamo riferimento alla teoria dei bisogni di Heinz Kohut[31] possiamo ipotizzare che la rivelazione dei minori abusati tende a rivolgersi a figure che agli occhi della piccola vittima si mostrano come capaci di supportare i bisogni fondamentali di sostegno del proprio Sé: a) persone che gli sembrano garantire risposte di accettazione e valorizzazione, che lo rassicurino circa il rischio di andare incontro a risposte di abbandono, rifiuto, colpevolizzazione (transfert di rispecchiamento); b) persone che gli sembrano sufficientemente forti per garantirgli un appoggio autorevole, dalle quali  si aspetta una qualche iniziativa in grado di fermare l’abuso e che paiono capaci di proteggerlo dalle minacce e dalle reazioni dell’abusante (tranfert di idealizzazione); c) persone vissute come alter ego che gli sembrano in grado di fornirgli conforto e comprensione in quanto simili a lui e diverse dalle figure adulte verso cui ha accumulato diffidenza e frustrazione (transfert gemellare).

Le tipologie più consistenti sono le prime due: si tratta di figure che sembrano prospettare alla piccola vittima, coinvolta nel conflitto tra il parlare ed il tacere, vuoi risposte di rassicurazione e di amore vuoi risposte che fanno sperare al bambino una ripresa di controllo sulla propria vita[32]. La terza tipologia è quella del coetaneo che viene scelto in una situazione di forte carenza da parte della piccola vittima di legami di comunicazione e fiducia con la generazione adulta. Ovviamente in molti casi le figure scelte dai bambini possono condensare qualità appartenenti a diverse tipologie.

Quando la madre, pur non risultando direttamente collusiva con l’abuso, non viene individuata dal figlio come interlocutrice del suo svelamento attivo, ci troviamo di fronte ad una relazione madre-bambino condizionata da carenze ed ipoteche dal punto di vista affettivo e comunicativo. È sicuramente vero che quando la figura abusante vive nell’ambiente familiare può esercitare un pesante condizionamento sulla capacità di ascolto della madre, sia direttamente attraverso un sabotaggio della relazione tra la madre e la piccola vittima, sia indirettamente attraverso un’oppressione sulla partner che danneggia la disponibilità emotiva di quest’ultima nei confronti dei figli. È altrettanto vero d’altra parte che la sottomissione della madre ad una figura di partner con tratti perversi e sadici, tanto più si rivela intensa e prolungata, tanto più rinvia ad una responsabilità mentale della madre stessa, lasciando ipotizzare carenze personologiche e psicologiche, senza le quali la donna non avrebbe strutturato una relazione stabile con un partner violento con il conseguente venir meno della propria disponibilità all’ascolto e alla protezione dei figli. Un bambino che non può percepire la propria figura materna come interlocutrice ottimale per avviare il processo di rivelazione è un bambino che spesso si porta dietro dalla relazione primaria un qualche importante deficit di sostegno e di strutturazione.

Le ragioni per cui la piccola vittima non riesce a trovare un confidente nell’ambito familiare, possono essere varie: può essere che l’abusante appartenga alla famiglia e detenga forme di controllo che spaventano e inibiscono il bambino; può essere che la vittima tema comunque di andare incontro a reazioni di incomprensione, di squalifica e di rifiuto. L’unica via di uscita in queste situazioni sta nella possibilità di rompere la congiura familiare del silenzio, parlando di quello che accade con un altro adulto, estraneo al contesto familiare: un insegnante, un operatore sociale, un educatore, uno psicologo…

 

 

13. I due impegni per l’ascolto dell’abuso

 

Ogni bambino abusato che avvia un processo di rivelazione compie un passo tanto decisivo, quanto rischioso per la propria protezione: egli cerca di rilanciare la residua fiducia e speranza nei confronti del mondo adulto e nei confronti della stessa esistenza con una scelta che lo espone al pericolo di non essere capito, di non essere creduto o, peggio ancora, di essere duramente colpevolizzato.

Possiamo facilmente dedurre da quanto affermato l’importanza decisiva di saper incoraggiare e di saper affrontare la delicatissima fase della rivelazione, fase da cui può dipendere il futuro di un bambino abusato. La comunicazione del bambino presuppone la capacità d’ascolto dell’adulto. La sua possibilità di rivelare dipende dalla disponibilità degli ascoltatori adulti.

Pertanto i compiti fondamentali degli adulti in rapporto alla fase della rivelazione sono due.

Occorre innanzitutto sviluppare la consapevolezza delle barriere all’ascolto che come adulti frapponiamo nei confronti dei bambini a disagio, riconoscendo la nostra difficoltà a dare il via libera ai bisogni comunicativi dei bambini[33]. È la tendenza degli adulti a rimuovere pesantemente pensieri e sentimenti legati alle aree conflittuali e problematiche della vita quali la sessualità, la morte, la violenza che espropria i bambini della possibilità di crescere mentalmente su tali aree e impedisce loro l’accesso al dialogo emotivo e alla richiesta di aiuto su tematiche fondamentali della loro esistenza (cfr. N. Bolognini e C. Foti, Rimozione non fa rima con prevenzione, né con protezione).

La messa in discussione da parte degli adulti di un’immagine idealizzata di buoni ascoltatori, il superamento della tendenza ad attribuire unilateralmente ai minori la responsabilità del mancato dialogo in famiglia e nelle istituzioni, il riconoscimento delle barriere alla comunicazione nei confronti dei soggetti in età evolutiva, costruite dagli adulti stessi consciamente e inconsciamente, porterà genitori, educatori, professionisti ad assumere nella quotidianità un atteggiamento tale da non scoraggiare nel bambino il bisogno di comunicare, dialogare, aprirsi per esprimere la verità del proprio disagio.

In secondo luogo, una volta che il minore comincia a parlare, occorre mettere il bambino a proprio agio, ovvero nelle condizioni di confidarsi e di esprimersi pienamente, contrastando gli ostacoli emotivi e comunicativi che gli impediscono di farlo. È necessario sviluppare un ascolto attento alle comunicazioni del bambino, rispettoso dei suoi sentimenti: solo così è possibile aiutare la piccola vittima a portare avanti il processo della rivelazione, senza alterare tale processo con interventi induttivi suggestivi e senza neppure bloccarlo per la mancanza di vicinanza e sostegno emotivo dell’ascoltatore.

Ricerche sperimentali, studi sulla comunicazione interpersonale e resoconti clinici concordano nell’affermare che lo scambio comunicativo tra adulti e minori migliora sensibilmente e produce sequenze dialogiche più lunghe ed efficaci, se gli adulti assumono un atteggiamento gentile, disponibile e comprensivo nei confronti delle difficoltà emotive del bambino, se sono capaci di non interromperlo, di ascoltarlo mantenendolo in argomento ma senza disconfermarlo con atteggiamenti giudicanti o svalutanti, senza pressarlo con domande insistenti e intrusive e senza interromperlo con interventi prematuri di consolazione, distrazione, interpretazione…[34]

Ci occuperemo nel prossimo paragrafo del primo impegno, ovvero della necessità di sottrarre all’inconsapevolezza e alla negazione degli individui e della comunità sociale il riconoscimento delle barriere all’ascolto dell’abuso sessuale sui bambini. Nel paragrafo ancora successivo ci soffermeremo sul secondo impegno ed in particolare su alcune tecniche particolarmente utili a favorire l’ascolto empatico, non suggestivo e non abusante, delle comunicazioni del bambino.

 

 

14. La “normalità” della negazione dell’ascolto

 

In un recente fatto di cronaca, dove un genitore è stato imputato e condannato per l’assassinio del figlio, un medico del pronto soccorso, esaminando il cadavere del bambino subito dopo la scoperta del decesso ha immediatamente escluso l’ipotesi di una violenza umana, affermando: «Queste ferite le conosco. È il morso di un cane!»

La mente umana si volta dall’altra parte di fronte al riconoscimento della violenza tanto più questa assume forme di efferatezza, distruttività e manipolazione come avviene, in maggiore o minore misura, nel maltrattamento e nell’abuso sessuale sui minori. In questi casi la violenza viene designata spesso come disumana, per negarne difensivamente l’indubbia e radicata appartenenza alla nostra specie.

Non ascoltare la violenza è normale. Negli interventi di sensibilizzazione con i genitori, nei corsi di formazione e di aggiornamento con gli operatori e con i professionisti abbiamo spesso incontrato persone che hanno dichiarato onestamente di essersi accorti con molto ritardo di situazioni di abuso in seguito divenute eclatanti, di aver lasciato cadere, magari per molto tempo, indicatori molto significativi, di non essere riusciti o di non riuscire ad avvicinarsi ai bambini che segnalano elementi che possono far ipotizzare un abuso sessuale, di non essere stati capaci o di non sentirsi capaci a porre quelle domande che sarebbero necessarie a farlo emergere.

Di fronte all’impatto percettivo e mentale con l’abuso sessuale sui bambini la reazione più diffusa e normale si traduce nel pensiero “Non è possibile!”. La reazione fisiologica nelle madri delle piccole vittime di abuso, anche di quelle più responsabili e disponibili all’ascolto dei figli è una profonda risposta d’incredulità e di sconcerto di fronte alla mentalizzazione dell’ipotesi dell’abuso, una risposta che in molti casi finisce per ritardare nella madre il riconoscimento della violenza ai danni del figlio e la conseguente protezione.

Il mancato ascolto è un elemento strutturalmente indispensabile alla consumazione dell’abuso sessuale su un bambino (e non a caso dedichiamo al mancato ascolto la prima sezione di questo libro). La commissione di qualsiasi violenza di tipo sistematico e prolungato, qual è, sul piano interetnico, la violenza di un lager o, sul piano intergenerazionale, la violenza del maltrattamento o dell’abuso richiede non solo il sadismo o la perversione di pochi ma l’incredulità e l’indifferenza dei molti. La violenza di una minoranza ha bisogno di giocare di sponda sul rifiuto all’ascolto della maggioranza, sull’indisponibilità socialmente diffusa a riconoscere la realtà dell’orrore e a porvi rimedio.

Nessun miglioramento della capacità di ascolto, nessuna crescita della capacità di rilevare il fenomeno, nessuna formazione efficace sono ipotizzabili se, paradossalmente, non si parte da questa consapevolezza: l’abuso sessuale sui minori è tendenzialmente inascoltabile perché associato a dimensioni di perversione, di dominio, di atrocità, di confusione, che tendono a travolgere la capacità di tolleranza e di simbolizzazione della mente umana. Ovviamente ci riferiamo ad un’inascoltabilità dell’abuso come dato difensivo che appartiene all’opacità della mente che può e deve essere superato e non già ad un’inascoltabilità/indimostrabilità dell’abuso come dato ideologico, assunto da quegli esperti che, per difendere gli imputati di reati sessuali, tendono in molti casi ad asserire che l’abuso sessuale su un bambino, anche qualora sia avvenuto, in ogni caso non è stato ascoltato in modo corretto, né potrà essere dimostrato attraverso procedure psicologiche e giudiziarie rigorose.

Tanto maggiore è la consapevolezza delle inevitabili resistenze psicologiche, sociali e culturali all’ascolto dell’abuso, tanto maggiore sarà la capacità di contrastarle. Ogni operatore e professionista che lavora in istituzioni o agenzie minorili nell’area sociale, scolastica, educativa, giudiziaria ha incontrato situazioni di abuso sessuale che non ha saputo riconoscere e che non ha saputo ascoltare. Ammettere questo limite aiuta a ridurre, non certo ad eliminare, il rischio sempre presente di fronte a situazioni in atto di abuso sessuale sui bambini di essere sordi, ciechi e stupidi nei confronti di rilevanti indicatori, il rischio sempre presente di escludere in modo aprioristico l’ipotesi della violenza.

Ascoltare bambini che hanno subito abusi, registrare gli indicatori delle violenze da loro subite è sconvolgente perché implica l’avvicinarsi a emozioni che destrutturano i nostri più sicuri e rassicuranti pensieri, a fatti che destano orrore e destabilizzano il nostro modo di vedere la comunità adulta e, più in generale, l’intera esistenza.

I costi emotivi nel raccogliere una rivelazione di abuso sono mediamente molto alti e possono spesso produrre forti resistenze: è molto più confortevole soffermarsi sull’ipotesi che certe parole, certi disegni, certi comportamenti sessualizzati, certi racconti sono frutto di invenzioni, o di fantasie edipiche, o di induzione di qualche adulto, o che il bambino non sa compiere un adeguato esame di realtà.

 L’abuso ricorda non solo alla vittima, ma anche a chi si candida al suo ascolto, verità spiacevoli e mentalmente indigeste: la possibilità sconfortante del tradimento e dell’abbandono da parte di coloro ai quali ci si affida, l’irriducibile precarietà della condizione umana e l’incombente evenienza di eventi sovrastanti capaci d’imporre una disarmante condizione di debolezza o di impotenza, la ricorrente possibilità di relazioni umane violente e strumentali molto più diffuse di quanto si vorrebbe…

Ascoltare lo svelamento passivo od attivo di un abuso, ascoltare i messaggi extraverbali o verbali che invia un bambino traumatizzato costituisce un impegno mentale che ci impone di andare contro corrente rispetto a tendenze mentali abituali e consolidate, presenti nella nostra mente, in base a cui eventi come l’abuso ai danni di un bambino non dovrebbero verificarsi. Il trauma è strutturalmente difficile da ascoltarsi, perché è difficile da pensare, da metabolizzare mentalmente. Il trauma e soprattutto il trauma sessuale tende a diventare per la vittima una cisti, un corpo estraneo[35] che la mente non assorbe, non riconosce come appartenente all’esperienza già immagazzinata, perché il materiale di cui è costituito è fatto di impotenza, eccitazione non padroneggiabile, vergogna, dolore e odio che la mente fa di tutto per respingere, per isolare, per allontanare. Un processo analogo si riscontra nel soggetto chiamato ad ascoltare.

 

 

15. L’emersione dell’abuso e le influenze suggestive

 

In un corso di formazione alla conduzione di gruppo Silvia, una giovane assistente sociale, è molto tesa: racconta di aver dormito la notte precedente da alcuni parenti e di aver subito un approccio sessuale da un familiare molto anziano. Dopo aver ricevuto risposte di grande partecipazione e di comprensione empatica nei confronti della propria vicenda, Silvia comunica con intenso disagio l’idea più penosa: «Forse sono io che faccio qualcosa… perché mi succedono queste cose?… non è la prima volta che mi capita…». Nello sviluppo del lavoro di gruppo, che si orienta sulle tematiche della sessualità e della perversione, Silvia accenna penosamente alla vicenda di un abuso subito nell’infanzia: ora si comprende meglio il profondo vissuto di colpa e di stigmatizzazione di Silvia… Nell’elaborazione successiva altre tre partecipanti fanno riferimento ad esperienze analoghe di abuso. Il gruppo è composto da undici persone (educatori, psicologi, insegnanti, assistenti sociali), tra cui nove donne. Deve essere certamente significativo il fatto che quattro donne su nove in un gruppo di operatori e professionisti siano state vittime di abuso infantile: evidentemente nella comunità sociale si tende a mettere il silenziatore al fenomeno della violenza sessuale sull’infanzia! Nella fase del congedo, in cui i partecipanti sono chiamati a dire qualcosa a se stessi e al gruppo, la psicologa Donatella si rivolge a Silvia e le dice commossa: «Non devi sentirti diversa dalle altre… l’abuso è proprio un fenomeno sociale…e poi volevo dirti che in questo gruppo siamo cinque e non quattro su nove ad essere state abusate: anch’io lo sono stata…».

Nelle nostre attività di formazione con varie figure professionali, quando proponiamo coerentemente un metodo basato sull’intelligenza emotiva e creiamo di conseguenza nel gruppo uno spazio sufficientemente stabile e autentico di ascolto reciproco come ambito di verifica e di crescita formativa, si determina spesso un buon clima relazionale ed emotivo che consente ad alcuni partecipanti di comunicare esperienze più o meno gravi di violenze personalmente subite nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza. Frequentemente si tratta di esperienze che non furono adeguatamente ascoltate e che sono rimaste per molto tempo indicibili.

Anche nel contesto terapeutico vengono raccontate non di rado storie infantili e adolescenziali di abusi e spesso di abusi che non sono stati ascoltati. Molti pazienti comunicano di non aver trovato nei familiari o nell’ambiente l’atteggiamento favorevole alla rivelazione.

Certamente la psicoterapia può essere un luogo di ascolto, ma anche un luogo di mancato ascolto, un luogo di rielaborazione del trauma, ma anche un luogo di ripetizione del trauma. Per esempio può succedere che il paziente adulto percepisca un’indisponibilità mentale e relazionale del terapeuta ad accogliere contenuti attinenti al proprio trauma sessuale infantile o adolescenziale. Un tale paziente potrà evitare, magari per anni, di confrontare se stesso e il proprio terapeuta con le esperienze di violenza sessuale patita, che resteranno rimosse o scisse. Può succedere addirittura che un bambino, mentre è in corso di svolgimento un abuso sessuale ai suoi danni, abbia dei colloqui regolari con uno psicologo o con uno psicoterapeuta, senza essere messo in grado di rivelare la violenza in atto e senza riuscire pertanto a chiedere aiuto: tutto ciò per un periodo di mesi o magari per anni, come è successo in diversi casi, che abbiamo ricostruito, nei quali il terapeuta ha inconsapevolmente chiuso le porte mentali alla rivelazione dell’abuso in atto e d’altra parte il piccolo paziente non è riuscito a stabilire un rapporto di fiducia e di confidenza sufficiente per aprirsi.

L’origine della resistenza dello psicoterapeuta all’ascolto dell’abuso consiste prevalentemente nel rifiuto della condivisione emotiva, un rifiuto che può facilmente essere occultato a se stesso e agli altri, grazie magari al ricorso a varie razionalizzazioni teoriche ed interpretative di contenuto psicologico. Tra queste razionalizzazioni la teoria freudiana delle pulsioni si presta in modo particolare ad una funzione mistificante, consentendo di ricondurre, in modo rassicurante per lo psicoanalista, nell’alveo delle vicissitudini della libido del paziente sentimenti, tensioni e sintomi di natura post-traumatica. Vengono così interpretate come espressione di conflitti intrapsichici narrazioni e comportamenti del paziente attribuibili, a ben vedere, alla drammatica vicenda relazionale vissuta da quest’ultimo e alle interazioni tra la sua storia e la sua mente.

Non intendiamo certo negare che esistono tendenze mentali e culturali che possono portare al pericolo opposto a quello che abbiamo sottolineato ovvero al pericolo di un ascolto suggestivo, tendente a dimostrare a tutti i costi un abuso sessuale dubbio o inesistente. Non a caso ci siamo soffermati in questo volume sullo specifico problema delle bugie dei bambini, distinguendo tuttavia nella complessa questione delle false accuse la realtà del fenomeno dal suo uso ideologico (cfr. C. Foti e N. Bolognini: Quando i bambini dicono bugie…).

Non possiamo comunque ignorare la consistenza dei condizionamenti che portano al vastissimo fenomeno dei falsi negativi.

«Se occorre credere al fatto - scrivono Malacrea e Lorenzini - che un’esperienza realmente vissuta debba superare notevoli ostacoli sul piano personale e relazionale prima di poter essere rivelata e se occorre ugualmente credere che, anche al giorno d’oggi, nonostante il crescere dell’attenzione, la maggioranza degli abusi infantili resta non rivelata per tutta la vita, come ci dice la sproporzione tra casi denunciati e la prevalenza constatata attraverso le ricerche retrospettive, dovremo attenderci una grande fioritura di studi sperimentali o clinici, che ci informino sulle variabili esterne (“le influenze suggestive”) che possono inserirsi come rinforzi nella fortissima tendenza al mantenimento del segreto, totale o parziale, per aiutare i professionisti a temerle o evitarle. (…) Viceversa, tutta l’attenzione e l’energia sembrano essere catturate dal problema opposto, cioè dalla probabilità che influenze esterne conducano il bambino a credersi abusato quando non lo è stato o ad amplificare in termini negativi il significato delle proprie esperienze (innocenti contatti trasformati in contatti a valenza sgradevole e sessuale) »[36].

All’interno della committenza sociale che ha sollecitato e sollecita la ricerca scientifica sulla testimonianza dei bambini presuntamente abusati sembra che sia stata e che sia politicamente e culturalmente molto più influente e pressante la componente interessata alla difesa degli adulti piuttosto che quella che sostiene le ragioni mute dei soggetti vittimizzati. Molti studi e ricerche hanno concentrato in effetti la loro attenzione sui rischi della suggestione positiva (cfr. G. Gulotta, La diagnosi abusante. Le domande che non sono domande).

La scuola di pensiero a cui questo autore appartiene e che egli stesso ha contribuito a sviluppare con rigore e coerenza, è al centro di riflessioni fortemente critiche in questo libro. Va comunque riconosciuto a questa corrente culturale il merito di segnalare, pur in modo unilaterale, il rischio di interventi distorcenti o induttivi nell’approccio ai minori presuntamene abusati, una preoccupazione che non può essere estranea a chi ha cuore le esigenze dei bambini: se costoro non sono abusati, le domande induttive a loro rivolte rischieranno di contrastare il loro irrinunciabile bisogno di poter esprimere la specifica verità della propria vicenda, che non è quella dell’abuso; se invece sono bambini effettivamente violentati, hanno comunque interesse che non vengano loro rivolte domande induttive, perché nella prosecuzione dell’iter giudiziario l’individuazione successiva di tali interventi potrebbe invalidare la loro testimonianza.

Ciò che invece in ogni caso non possiamo condividere nella suddetta scuola di pensiero è il bisogno di svalutare in modo generalizzato le vittime, soprattutto se lo scopo è quello di difendere gli imputati. «Per un bambino - afferma Gulotta - il fastidio dato da una supposta piuttosto che da un dito nel sedere  è difficile da decodificare nell’un caso come fatto di tipo terapeutico, nell’altro di altro significato»[37]. Sostenere che un bambino non sappia differenziare i due atti e soprattutto i due diversi contesti in cui gli atti avvengono, rappresenta un’aprioristica e pesantissima squalifica delle capacità percettive, intellettive e testimoniali dei bambini: una squalifica del tutto inaccettabile dal momento che la valorizzazione delle competenze infantili è un elemento fondamentale di una cultura rispettosa dell’infanzia[38]!

 

 

16. L’ascolto e gli interventi di riformulazione

 

1. La riformulazione del linguaggio extraverbale dell’interlocutore

Una ragazzina quindicenne, Lucia, che ha espresso da anni una grave sofferenza, attraverso comportamenti violenti e sessualizzati, instabilità emotiva ed enuresi, racconta ad un’educatrice di un centro d’incontro per adolescenti, di essere stata abusata dal padre.

Una psicologa viene incaricata dal giudice delle indagini preliminari di compiere una valutazione psicodiagnostica di Lucia. Al primo incontro, quando la psicologa chiede alla ragazza se le sia chiaro il significato del colloquio, Lucia arrossisce, si rosicchia le unghie con evidente ansia e non proferisce parola.

Allora chiarisce che il giudice le ha chiesto di parlare con lei, per avere delle informazioni su quello che le è successo, ma Lucia non dice una parola, tirando su il maglione come a coprirsi il volto. Anche le domande «come ti trovi in comunità? Vuoi raccontarmi qualcosa di te?», producono lo stesso risultato: la ragazza tace, la schiena curva, gli occhi a terra. La psicologa allora chiede: «Ti senti di dirmi perché non ti riesce di parlare?», e osserva che la minore, che tiene sempre gli occhi abbassati, ha assunto un aspetto impaurito e trema leggermente.

A questo punto la psicologa ha di fronte a sé almeno tre strade. La prima strada (tra le più frequentate dagli intervistatori) è quella dell’evitamento difensivo dei sentimenti negativi della sua interlocutrice, sentimenti associati al tema che la ragazza stessa intuisce essere al centro dell’incontro. La psicologa potrebbe cercare di scantonare da quei vissuti spiacevoli, mettendosi a parlare d’altro e cercando argomenti tranquillizzanti (per es. la musica che si sente sullo sfondo, la scuola, le vacanze, ecc…), al fine di stabilire un ponte comunicativo con Lucia, allontanandosi così dalle difficoltà e dalle resistenze della ragazza a parlare delle esperienze oggetto dell’indagine peritale. La seconda strada è quella degli interventi anticipatori o suggestivi. La psicologa potrebbe tentare di contrastare l’atteggiamento chiuso e difensivo di Lucia con interpretazioni del tipo: «Vedo che fai fatica a parlare delle violenze o delle ingiustizie hai subito…». L’intervento, ancorché fondato, è certamente scorretto, perché introduce nel colloquio un tema, quello delle violenze o delle ingiustizie, che non è stato posto dalla ragazza e che sarebbe opportuno semmai che emergesse dalle comunicazioni della ragazza stessa.

La psicologa segue una terza strada e dice a Lucia pacatamente e benevolmente: «Mi sembra che tu abbia molta difficoltà, forse paura o vergogna, a parlarmi di te. Mi sbaglio?». Per la prima volta Lucia alza lo sguardo verso la psicologa e accenna di sì con il capo. Ora sembra più sollevata. A partire da questo momento, sia pure con molta fatica, la minore inizia a comunicare.

L’elemento che stabilisce un ponte comunicativo non evitante è nella capacità della psicologa di cogliere da tutto l’atteggiamento di Lucia la sua difficoltà, la sua paura e la sua vergogna. Ciò che risulta efficace è la capacità di tradurre il linguaggio extraverbale e corporeo in linguaggio delle emozioni, mettendo in parola gli stati emotivi e mentali della sua interlocutrice senza sovrapposizioni e senza fughe difensive da parte dell’intervistatrice.

Sentendo rispecchiato il suo sentimento, Lucia può quindi uscire dall’isolamento che la costringeva ad esprimere la sofferenza attraverso comportamenti rabbiosi, disturbati o all’opposto inibiti. Gli interventi precedenti, che miravano a definire il colloquio («ti è chiaro il significato del colloquio?», «come ti trovi in Comunità?», «vuoi raccontarmi qualcosa di te?») sono senza dubbio adeguati per aprire un incontro, ma non riescono certo a rompere il muro della paura e della sfiducia nei confronti del mondo adulto, perché non affrontano le componenti emotive che in quel momento agitano Lucia e interferiscono pesantemente con la sua capacità razionale.

Quando l’accesso alla parola di un soggetto è stato ed è inibito e colpevolizzato, il suo comportamento extraverbale diventa inevitabilmente un veicolo di comunicazione a cui è indispensabile prestare attenzione. L’intervento della psicologa non è induttivo perché la paura e la vergogna di Lucia hanno già insistentemente parlato. Sarebbe semmai suggestione negativa essere sordi al linguaggio della paura e della vergogna!

Mettere in parola nel ruolo di ascoltatori le emozioni che leggiamo insistentemente nel corpo, nello sguardo, negli atteggiamenti del bambino non significa suggestionare, ma al contrario contrastare le suggestioni che possono agire nell’interlocutore e dare voce al bambino che sta palesemente provando quei sentimenti, senza ancora riuscire ad esplicitarli o addirittura a pensarli, perché troppo dolorosi, sconvolgenti, confusi.

 

2. La riformulazione del linguaggio verbale

Davide è un bambino di 6 anni che viene esaminato da uno psicologo per incarico del Giudice delle indagini preliminari che indaga su un’ipotesi di abuso sessuale perpetrato dal nonno. Davide ha raccontato l’abuso ad un’educatrice, mentre in famiglia la sua rivelazione ha creato molto disagio: è possibile che il bambino sia stato aspramente rimproverato dai genitori. Davide è stato provvisoriamente allontanato dalla famiglia ed inserito nel nucleo della sorella maggiore sposata. Davide mostra nel colloquio un atteggiamento carico di tensione, irrequietezza e aggressività. Rovescia una cesta di giochi, cercando qualcosa con cui giocare e ogni tanto buttando via di tanto in tanto gli oggetti che scarta.

Lo psicologo tenta ripetutamente ed empaticamente di rinviare al bambino la rabbia con cui gioca, cercando di chiedergli come mai e con chi è arrabbiato. Ma senza alcun esito: il bambino continua nel suo gioco agitato, ignorando le domande dello psicologo. L’intervistatore in forte difficoltà chiede: «Come mai è così difficile parlare?» Il bambino risponde sbuffando con irritazione. Lo psicologo commenta con calma e dolcezza: «Ti dà veramente molto fastidio parlare, eh…». Davide prende a calci una macchinina e chiede poi con insistenza ed allarme di chi siano le voci che avverte nel corridoio. Poi dice: «Parlare è peggio, peggio…».

Anche in questo caso lo psicologo ha di fronte almeno tre strade. La prima è quella dell’evitamento difensivo, in base a cui egli può decidere di allontanarsi dagli aspetti più difficili del colloquio, lasciando cadere l’inquietante comunicazione di Davide «Parlare è peggio, peggio…» e affrontando altri argomenti. La seconda strada è quella della scorciatoia interpretativa. Forse Davide è stato sgridato, forse è vittima di una congiura del silenzio. Lo psicologo potrebbe dire: «Forse qualcuno ti ha sgridato perché hai parlato». L’interpretazione potrebbe magari cogliere nel segno, ma l’intervento è comunque anticipatorio, perché il contenuto («qualcuno ti ha sgridato») non è stato introdotto dal bambino. A maggior ragione risulterebbe suggestivo l’intervento: «Forse i tuoi genitori ti hanno sgridato perché hai parlato».

Lo psicologo sceglie una terza strada: fa un ulteriore intervento di riformulazione per testimoniare al suo piccolo interlocutore il tentativo che egli fa di comprendere e di rispettare i messaggi ascoltati. Con un tono di partecipazione emotiva lo psicologo dice: «Sento che per te parlare è proprio un problema…oltrettutto forse sei preoccupato che qualcuno possa sentire…». Il tema della preoccupazione non è suggestivo, perché è stato portato dal bambino con le sue domande ansiose sulle voci che si sentono nel corridoio.

Il bambino rimane in silenzio, poi sbotta: «Che pizza…». Lo psicologo insiste con l’ascolto attivo[39] ed empatico: «Ti capisco: deve essere proprio spiacevole la situazione che vivi…». I suoi interventi, che nella prosecuzione del colloquio si riveleranno fruttuosi, evitano sempre il rischio della suggestione positiva, essendo radicalmente rispettosi di ciò che esprime e comunica il bambino ed evitano sempre il rischio della suggestione negativa attraverso un atteggiamento di ascolto basato sulla comprensione emotiva e l’attenzione partecipe.

3. La riformulazione empatica e il contesto giudiziario

Non solo il contenuto, ma anche il tono degli interventi dello psicologo risulta efficace. «I pazienti - afferma a questo riguardo Ferençzi - non sono toccati dalle frasi teatrali di compassione, ma soltanto - devo dire - dalle manifestazioni di reale simpatia. Su quale base essi riconoscano questa simpatia - dal suono della voce, dalle parole che scegliamo o da cos’altro ancora - non saprei dirlo, sta di fatto che dimostrano di possedere una curiosa conoscenza, direi quasi una forma di chiaroveggenza, per ciò che riguarda i pensieri e le emozioni dell’analista. Sotto questo aspetto è praticamente impossibile che il malato si sbagli»[40]. L’autore conclude dicendo che è stato proprio questo rapporto che lui chiama “più intimo”, dove l’analista non si limita ad interpretare ma spende se stesso, si commuove, partecipa emozionalmente, che gli ha permesso di accedere all’ascolto dei traumi infantili di origine sessuale.

Riformulare significa ripetere con altre parole (che possono essere più semplici o più pregnanti o semplicemente diverse) ciò che si è udito dall’interlocutore, allo scopo di evidenziare alcuni aspetti significativi della comunicazione ascoltata. Questa modalità ha l’obiettivo di far sentire all’interlocutore di aver di fronte una persona che cerca di ascoltare attentamente, di seguire con sollecitudine le sue comunicazioni: permette all’intervistatore di trasmettere il messaggio: «Ti sono vicino, mi impegno a comprendere ciò che mi stai dicendo, a ricordarmi di ciò che hai detto in precedenza, ad accogliere i tuoi sentimenti».

La riformulazione dei sentimenti agiti dall’interlocutore (vedi il caso di Luisa) e la riformulazione delle sue espressioni verbali (vedi il caso di Davide) rappresentano tecniche efficaci che richiedono intelligenza emotiva, addestramento e supervisione. Più rischiosa e delicata è la tecnica dell’interpretazione in quanto richiede la capacità di riconoscere aspetti del mondo interno del bambino e la capacità di dare un senso a espressioni, atteggiamenti e comportamenti non chiariti dal bambino stesso. Gli operatori dell’area sociale, sanitaria ed educativa nella fase della rilevazione dell’abuso e nella fase dell’indagine sul danno (e gli stessi psicologi soprattutto nei colloqui in contesto giudiziario e per una lunga fase del percorso diagnostico) dovrebbero maneggiare con estrema cautela il ricorso all’interpretazione per privilegiare nell’ascolto interventi di comprensione empatica delle eventuali difficoltà del bambino a comunicare e interventi di riformulazione delle espressioni verbali, comportamentali ed emotive del bambino, con un atteggiamento di accoglienza e disponibilità a tradurre in parola ciò che emerge chiaramente dalla soggettività del bambino sul piano verbale, comportamentale ed emotivo.

Debitamente alternati agli interventi di comprensione e di riformulazione sono ovviamente opportuni e talvolta indispensabili interventi di confronto con la realtà («ho visto che oggi sei arrivato da me accompagnato dall’educatrice…», «ho saputo che a scuola è successo che…», «la mamma mi ha detto che…») e interventi di interrogazione per avvicinarsi con interesse genuino e vicinanza emotiva alle aree della storia e della vita del bambino che meritano di essere indagate.

Piero Forno nel suo intervento (L’ascolto del minore nel processo penale. Il bambino abusato: vittima due volte?) mette lucidamente in evidenza la specificità del setting d’ascolto giudiziario, una specificità che non va intesa tuttavia come pretesa in questo ambito di eludere in modo aprioristico ed assoluto il riferimento ai sentimenti nel corso di un colloquio con il bambino presuntamene abusato. Se il bambino si esprime in modo reiterato e leggibile attraverso comportamenti ed atteggiamenti emotivi, tali reazioni devono essere ritradotte e restituite al bambino in termini di sentimenti espliciti. Ciò che è suggestivo semmai può essere anticipare sentimenti non espressi insistentemente dal bambino o leggerli in modo distorto. Ma anche il non dare un nome ai sentimenti, quando questi vengono manifestati intensamente dal bambino, rappresenta una forte azione suggestiva (di tipo negativo).

Occorre una battaglia culturale per lo sviluppo dell’intelligenza emotiva nel contesto giudiziario (cfr. C. Foti, Intelligenza emotiva e suggestione nella valutazione psicologica del bambino), per chiarire fra l’altro che la più ferma intenzione del giudice o del perito di essere imparziali non li garantisce assolutamente dalle interferenze emotive disturbanti che la vicenda su cui pronunciarsi suscita in loro, che il vero controllo emotivo passa attraverso lo sviluppo dell’allenamento a riconoscere le emozioni, che è assurdo pretendere dal bambino una prestazione testimoniale estremamente impegnativa, se poi non gli si fornisce un sostegno emotivo, un sostegno che presuppone una capacità dell’ascoltatore di riconoscere e, se necessario, di esplicitare i sentimenti propri e quelli del bambino.

 

 

17. La fuga dal dialogo, la fuga dall’ascolto

 

In un brano tratto da un romanzo di Leroy le tre figure dello scenario del maltrattamento all’infanzia (il bambino, l’autore della violenza, il testimone) interagiscono evidenziando l’impasse di una comunicazione mancata. Il romanziere, tentando di riappropriarsi del punto di vista del proprio passato di bambino, ricorda e narra la propria vicenda infantile, segnata da diverse forme di violenza, tra cui l’abuso sessuale.

L’incontro si svolge all’uscita di un supermercato, scenario particolarmente adeguato ad una società consumistica: c’è una madre, che soffre di disturbi psichici e che s’è recata a fare acquisti senza alcun indumento sotto l’impermeabile che indossa, c’è un bambino che la madre porta con sé (l’io narrante) e c’è un guardiano del supermercato che ferma la madre all’uscita.

 

«Devo chiederle di aprirsi l’impermeabile… o di rientrare nel negozio…». L’uomo si schiarisce la voce, si guarda intorno evitando di guardare lei.

«Credi che abbia rubato della roba, cazzo? Credi che sia una cazzo di ladra?!».

Ad ogni parola la sua mano mi stringe il polso ancora di più, come un laccio emostatico. «Ehm… signorina?». «Ti assicuro, ti assicuro che te ne pentirai…», comincia e senza lasciarmi il braccio si sbottona l’impermeabile. Io mi volto e guardo dei bambini dentro una station wagon che mi fanno la linguaccia.

«Ok, Ok, ok, signora. Grazie, grazie…»

«Vuoi controllarmi la fica?». Mi rigiro e vedo mia madre che si tiene aperto l’impermeabile, mettendo in bella vista il corpo nudo e coperto di sudore. (…)

«Si sente bene?», chiede con delicatezza. Un uomo che passa a bordo di un pick up fa un fischio, e io seguo il sguardo fino al ciuffo ispido di peli biondi tra le gambe di mia madre. Lei respira a fondo prima di rispondere. Ha il viso rosso scuro. Io alzo le braccia e afferro i bordi dell’impermeabile nel punto dove se lo stava tenendo aperto, stringendolo con il pugno. Tiro delicatamente ma con fermezza e le sue mani seguono le mie, chiudendo l’impermeabile come un sipario.

«Andiamo», bisbiglio, provando un sensazione di forza che mi sembra preziosa e terrificante. «Sta bene?», chiede l’uomo, rivolgendosi a me per la prima volta. «È solo stanca», dico contro l’impermeabile di mia madre, che tengo ben chiuso sopra quel cespuglio ricciuto giallo scuro.

Lo sento prendere fiato come per parlare, ma gli esce di bocca soltanto un sospiro. Alzo gli occhi verso la faccia di mia madre, temendo che stia per dire o fare qualcosa, ma vedo solo la punta del mento. (…) «Adesso le passa», dico all’uomo dietro di me. «Sicuro?», dice lui, e lo sento fare un altro passo indietro.

È sempre facile convincere la gente che va tutto bene, perché se così non fosse sarebbero costretti a diventare parte in causa.

«Sì», annuisco guardando verso di lei e chiudo ancora più stretto l’impermeabile.

«Ok…, ehm… grazie», dice lui allontanandosi in fretta[41].

 

L’atteggiamento dell’addetto alla sicurezza del supermercato può simbolizzare la posizione di indisponibilità all’ascolto della comunità adulta di fronte ad indicatori evidenti di una possibile situazione di maltrattamento e di abuso sessuale ai danni di un bambino. L’addetto alla sicurezza si trova spiazzato, carico d’ansia e d’imbarazzo di fronte all’inatteso e spiacevole evento a cui ha assistito. Non fa domande, non mostra al bambino alcuna forma di vicinanza emotiva, non gli comunica interesse partecipe, non lo invita ad un incontro amichevole nei giorni successivi, si fa tranquillizzare in fretta dalle bugie difensive del bambino. Il suo obiettivo è quello di ritirarsi quanto prima dal quadro familiare di sofferenza e di violenza, su cui inopinatamente s’è affacciato. Capiamo e comprendiamo bene questa figura, perché ci rappresenta.

L’addetto alla sicurezza non vede l’ora di ritornare alla normalità, alle proprie sicurezze ed abitudini, non vuole affrontare l’impatto con una realtà sconosciuta ed ansiogena che lo costringerebbe per di più ad assumersi responsabilità che intende fuggire e per cui si sente inadeguato. La natura difensiva di questa posizione di chiusura all’ascolto è ben colta da Leroy: «È sempre facile convincere la gente che va tutto bene perché se così non fosse sarebbero costretti a diventare parte in causa». Questo atteggiamento non riguarda soltanto la gente comune, ma anche i professionisti dell’infanzia e dell’adolescenza: i medici, gli educatori, gli insegnanti, gli operatori sociali, gli psicologi, i consulenti del giudice, ecc…

Non facciamo domande di avvicinamento al disagio dei bambini perché il rischio di formulare delle domande è quello di ottenere delle risposte. Non ascoltiamo perché non siamo disponibili ad aprirci alla dimensione dell’incertezza e del dolore. Preferiamo autoconsolarci ed autorassicurarci piuttosto che entrare in contatto con la sofferenza e caricarci per di più di responsabilità che si prospettano come ansiogene e conflittuali[42].

Infatti, se l’abuso sui bambini risulta impensabile ed inascoltabile, lo è per quattro ordini di ragioni: a) l’esigenza di difendersi dal dolore e dall’impotenza vissute dalle vittime; b) l’evitamento della confusione connaturata al maltrattamento e all’abuso; c) il bisogno di mantenere il ricorso all’idealizzazione della famiglia e dei genitori; d) l’ansia associata all’inevitabità dei conflitti sociali che seguono e ad una responsabile rilevazione del maltrattamento[43].

 

 

18. L’abuso sessuale come espressione di un blocco della comunicazione

 

Molte forme di sofferenza minorile sono l’espressione di un deficit di comunicazione all’interno della famiglia e dell’ambiente sociale: ci sono bambini, che fanno fatica ad esprimersi verbalmente con chiarezza e ci sono adulti che non riescono a decodificare ed accogliere le comunicazioni spesso implicite dei bambini.

Nello scenario dell’abuso i protagonisti di questo dramma della incomunicabilità diventano tre: c’è un autore della violenza che attraverso la minaccia, la manipolazione e il diniego punta a isolare la vittima dalle comunicazioni con il contesto sociale; c’è poi un bambino che non può parlare, che non riesce a porsi come emittente efficace della comunicazione per la presenza di pesantissimi ostacoli esterni ed interni alla rivelazione (per es. l’ingiunzione a tacere dell’abusante, i vissuti di impotenza, di tradimento, di abbandono e di stigmatizzazione interiorizzati dalla vittima); c’è infine un adulto, potenziale ricevente delle comunicazioni del bambino che spesso fa barriera all’ascolto delle emozioni e quindi lascia cadere di fatto le richieste di soccorso del bambino e i suoi tentativi di individuare e mettere alla prova un interlocutore adulto meritevole di fiducia.

L’abuso sessuale rinvia ad un problema di comunicazione. La violenza sessuale sui bambini non avrebbe modo di prodursi in modo continuativo se non ci fossero adulti perversi interessati a costruire un cordone di silenzio attorno alle loro prede, se non ci fossero piccole vittime, incapaci di esplicitare con chiarezza il proprio malessere, e se non ci fosse un ambiente circostante tendente all’insensibilità e all’indifferenza e scarsamente disponibile all’ascolto dei bambini.

Quando ogni comunicazione attorno all’abuso è bloccata, quando è impedito ogni tentativo di rivelare e chiedere aiuto da parte della vittima o è sabotato ogni tentativo di prendere sul serio le richieste di protezione e di giustizia della vittima, l’abuso sessuale su un bambino diventa “un delitto perfetto”[44]: viene messa una pesante pietra sopra la verità dell’accaduto e sopra il futuro della vittima. In base alle ricerche retrospettive sull’abuso non si può non affermare che la maggioranza degli abusi sessuali che si consumano risultano “delitti perfetti”, il cui autore resta impunito e nell’ombra.

Se i bambini fossero in grado di comunicare i disagi piccoli e grandi da cui sono appesantiti, la qual cosa presuppone adulti disponibili sul piano emotivo e mentale ad ascoltare, tollerando gli aspetti inattesi, problematici, dolorosi delle comunicazioni dei bambini, l’abuso sessuale all’infanzia potrebbe essere un fenomeno rapidamente e radicalmente strappato al silenzio e pertanto affrontabile e contrastabile in modo efficace.

Il periodo ipotetico dell’affermazione precedente può essere visto come un periodo ipotetico dell’irrealtà: evidentemente la comunità adulta attualmente non è capace di attivare diffusamente efficaci competenze all’ascolto delle comunicazioni sofferte e conflittuali dei bambini e questi ultimi, di conseguenza, non possono essere sempre in grado di segnalare in modo forte e chiaro le proprie richieste di tutela nei momenti di necessità.

Tuttavia la prospettiva utopica di una comunità adulta capace di una posizione di ascolto costante, disponibile, responsabile e protettiva è indispensabile per chiarire la direzione verso cui orientare l’impegno per la prevenzione e per il contrasto alla violenza sessuale (e non solo sessuale) sui bambini.

Delle tre figure fondamentali del dramma del maltrattamento, quella che primariamente può e deve mettersi in discussione è quella del potenziale ricevente delle comunicazioni di malessere del bambino, cioè dell’adulto che può diventare testimone soccorrevole e non più testimone cieco, sordo e muto di fronte alle svariate forme di svelamento passivo ed attivo dell’abuso.

Il primo passo non lo può fare il bambino abusato che si trova in grave situazione di difficoltà, fin tanto che non trova qualcuno che lo aiuti a sbloccare la comunicazione dei propri sentimenti e della propria storia. Non possiamo colpevolizzare la vittima, fragile e indifesa, di un gioco pericoloso, violento e confusivo, pretendendo che sia lei, senza sostegno adeguato, a diventare capace di comunicazioni più chiare.  Né il primo passo lo può compiere l’adulto perverso che non ha alcun interesse al cambiamento, almeno fin tanto che la sua onnipotenza non impatta con la forza della legge. Non possiamo illuderci che il cambiamento possa iniziare da un soggetto che, pesantemente condizionato da aspetti mentali, malati e nel contempo criminali, trae evidentemente un vantaggio dal mantenimento del silenzio e del diniego della violenza.

È l’adulto responsabile, potenziale ricevente delle comunicazioni del bambino,  che deve attivare il processo di cambiamento, aumentando la propria capacità di ascoltare a tutto campo (ogni forma di disagio e non solo l’abuso!) e creando così le condizioni che possano consentire ai bambini di esprimere tutte le informazioni in loro possesso circa l’origine del proprio malessere, qualsiasi sia la sua origine. Sono coloro che si dichiarano intenzionati a difendere i diritti dei bambini o, a maggior ragione, coloro che ricevono un mandato sociale e istituzionale per l’educazione, la cura e l’assistenza dei bambini che devono fare il primo passo nell’attivare il circuito positivo della comunicazione attorno al disagio.

Se è vero che esiste una responsabilità mentale a comunicare, a cui la vittima va empaticamente sollecitata, è anche e soprattutto vero che tocca primariamente agli adulti, chiamati al sostegno e alla cura, nelle condizioni di avviare e sviluppare una comunicazione della propria esperienza.

Occorre in conclusione aumentare la capacità di ascolto sociale della comunità, adulta, contrastando l’indifferenza, l’insensibilità, l’indisponibilità emotiva, ovvero le principali interferenze che si oppongono alla ricezione delle informazioni e delle comunicazioni provenienti dai bambini.

 

 

19. Il mancato ascolto e i suoi effetti

 

La negazione dell’ascolto è grandemente tossica per la vittima. La mancanza di vicinanza e di condivisione emotiva nei confronti del bambino e la solitudine che ne consegue vengono a rappresentare un elemento costitutivo dell’esperienza traumatica. Una violenza traumatica, quando può tempestivamente essere comunicata da una vittima ed ascoltata in modo benevolo ed empatico da un testimone soccorrevole, perde una gran parte dei propri effetti nocivi e destrutturanti, sia perché - sul piano della realtà esterna - la comunicazione facilita l’intervento di protezione, sia perché - sul piano della realtà interna - la condivisione associata all’ascolto attenua il peso corrosivo dei vissuti traumatici e post-traumatici, lenisce la sfiducia nella relazione interpersonale, acquisita nel corso dell’abuso, rilancia un salutare legame di attaccamento, favorendo valide strategie di coping ovvero atteggiamenti utili a reagire al trauma.

La diffusa cecità circa i segnali dell’abuso sessuale che portano spesso gli operatori minorili a non accorgersi di quanto accade sotto i loro occhi, il rifiuto aprioristico che si manifesta ancora in molti casi a prendere in considerazione l’attendibilità delle denuncie di abuso sessuale, la non disponibilità nella cura ad avvicinarsi alla realtà storica del trauma per ricostruirne la dinamica e i conseguenti vissuti, le logiche familiari, sociali e talvolta psicoterapeutiche in base a cui ricordare è inutile e controproducente: questi sono tutti atteggiamenti che contribuiscono a lasciare drammaticamente sola la vittima ed esercitano su di lei effetti patogeni. «L’effetto di questi atteggiamenti sarà ancora più distruttivo se il minore, com’è inevitabile, ha subito, accanto alla violenza fisica, una violenza psicologica consistente nel fatto che gli è stata sottratta la verità di quanto accaduto attraverso messaggi impliciti od espliciti del tipo: “Non devi dire a nessuno cosa facciamo insieme e, anche se lo dirai, nessuno ti crederà!”, “Penseranno che sei una bugiarda e ti sei inventata tutto!”, “Non è vero che sono io a deciderlo e a obbligarti, sei tu a desiderarlo!”, “Non devi accorgerti di quanta violenza ti sto facendo!”, “Tutti i bambini fanno quello che stai facendo tu, è normale, sei tu che sei strana se non ti piace!”, ecc. Talvolta tali messaggi possono produrre nella vittima un’immagine di incapacità soggettiva a distinguere il falso dal vero, con effetti di interiorizzazione della colpa, di incertezza sulla propria percezione esterna o interna, e una conseguente confusione mentale»[45].

Non è l’azione violenta in quanto tale a costituire l’essenza più profonda e rovinosa del trauma infantile, non sono le prestazioni sessuali a cui la vittima è sottoposta nel caso dell’abuso sessuale o le percosse nel caso dell’abuso fisico o la privazione materiale nel caso della trascuratezza a costituire la componente più dannosa del maltrattamento all’infanzia. È il contesto di solitudine, che impedisce alla piccola vittima di esprimere i propri sentimenti, l’agente traumatico più rischioso e patogeno[46].

Alice Miller sottolinea la necessità del bambino che subisce una situazione traumatica di trovare accanto a sé un familiare, un amico, un educatore capace di ascoltare i sentimenti di dolore, di collera e di impotenza prodotti nel bambino da quella situazione e di condividerli con lui come un testimone soccorrevole, come un avvocato difensore. Il terapeuta dovrebbe riuscire a garantire questi ruoli soprattutto quando nessuno li ha saputi svolgere nel passato, quando il paziente era bambino, aiutandolo nel presente, con la comprensione empatica e con l’interpretazione ricostruttiva, a trasformare la sua vaga consapevolezza del trauma in ricordo vivo, impregnato di sentimenti intensi da esprimere e da rielaborare.

Scrive Alice Miller ne Il bambino inascoltato: «Prendere coscienza consapevolmente della propria condizione di vittime significa anche avvertire la sconfinata impotenza in cui si trova il bambino che sia stato direttamente esposto agli scoppi di collera e alle manipolazioni sessuali di un individuo amato che gli diventa improvvisamente estraneo. (…) Se i terapeuti, invece che funzionari della società si porranno come avvocati difensori del paziente, non avranno più bisogno di occultare il fatto che la sessualità può essere impiegata per usare violenza contro chi è più debole»[47]. Non solo i terapeuti, ma anche gli operatori dell’area sociale, sanitaria, giudiziaria, scolastica rischiano spesso di porsi come funzionari di una comunità adultocentrica, tutt’altro che interessata a fare emergere un fenomeno scomodo come l’abuso, sia dal punto di vista psicologico che dal punto di vista sociale.

 

 

20. L’ascolto come cura

 

Realizzare un coerente impegno di ascolto emotivo dei bambini non è solo la più grande strategia di prevenzione dell’abuso, ma rappresenta anche la più efficace direzione di lavoro terapeutico. La capacità di ascolto da parte di coloro che intendono prendersi cura del bambino è l’atteggiamento più utile a favorire l’elaborazione dei sentimenti afflittivi e confusivi che pesano sulla vittima o, in ogni caso, sul bambino al centro di una segnalazione d’abuso.

L’esigenza di mettere in parola la sofferenza in generale e la sofferenza post-traumatica in particolare è universale, in quanto modalità adattativa con cui la specie umana affronta ed elabora socialmente la sofferenza. Il bisogno dell’essere umano di narrare se stesso e di dare significato e ordine al proprio disagio e alla propria vicenda esistenziale ha una base psicobiologica e, pertanto, la soddisfazione di tale bisogno ha effetti psicobiologici di tipo salutare (cfr. le ricerche citate da P. Di Blasio: L’abuso sessuale: caratteristiche del racconto di eventi traumatici).

Il rapporto tra autonarrazione e sofferenza psichica è stato paragonato al rapporto fra febbre e malattia [48] e la febbre oltre che sintomo ha indubbiamente valore di espressione fisiologica e di rimedio.

L’autenticità emotiva e la ricaduta benefica con cui un bambino abusato comunica la propria storia variano in base a diversi fattori: a) l’intimità da lui raggiunta nel rapporto con l’ascoltatore; b) la qualità della sua valutazione e della sua elaborazione dell’evento traumatico; c) l’apprensione circa la reazione dell’ascoltatore al racconto; d) eventuali messaggi di scoraggiamento della comunicazione o vere e proprie reazioni negative dell’interlocutore al racconto.

Diventa in altri termini fondamentale la qualità del contesto relazionale e ambientale dove si svolge la comunicazione: il racconto di un bambino abusato che va incontro a risposte di disconferma e di colpevolizzazione può generare evidentemente effetti tutt’altro che migliorativi della salute del narratore.

Se è vero che la parola ha potenzialmente una straordinaria funzione espressiva, è anche vero che occorre essere interessati prima alla persona e poi alla parola dei bambini. Nel contesto giudiziario, dove i tempi e gli obiettivi degli adulti portano ad accantonare i tempi e gli obiettivi dei bambini (cfr. L. De Rui: Le resistenze istituzionali e giuridiche al riconoscimento dell’abuso), l’interesse per la prestazione testimoniale dei bambini rischia spesso di lasciare in secondo piano la preoccupazione per la cura e per la salute dei bambini (cfr. P. Di Blasio, L’abuso sessuale: caratteristiche del racconto di eventi traumatici). In questo contesto istituzionale gli schemi adultocentrici impediscono di armonizzare l’ascolto inteso come impegno istituzionale necessariamente regolato da norme e procedure con l’ascolto inteso come accoglimento del più piccolo e del più debole, come rispetto/riconoscimento della specificità di una condizione infantile di fragilità e di sofferenza che è violenza ignorare (cfr. C. Foti, D. Ghiano, L’audizione protetta: la preparazione, il sostegno e l’ascolto del piccolo testimone).

Ricevere ascolto risulta indispensabile per le vittime, affinché queste possano riattraversare mentalmente e verbalmente il trauma, obiettivo che risulta per loro fondamentale almeno per cinque ragioni di grande rilievo: a) attenuare o eliminare il sovraccarico emotivo; b) contrastare i sintomi di intrusione e di evitamento conseguenti al trauma; c) passare dalla posizione passiva che ha caratterizzato l’abuso alla posizione attiva che caratterizza la narrazione, migliorando così l’autostima; d) riacquistare fiducia nella comunicazione e nella relazione interpersonale dopo le profonde delusioni subite; e) contribuire in modo determinante a poter essere creduta e a poter ottenere una riparazione giudiziaria e sociale.

Gli effetti di prevenzione e di cura che l’ascolto produce sui bambini, soprattutto su quelli più sofferenti e vittimizzati sono così importanti che vale la pena investire il massimo di energie per sviluppare, come persone e come operatori, l’impegno dell’ascolto, con approcci e sforzi integrati sul piano teorico, clinico e formativo.


 


[1] Torino 22-23-24-25 febbraio 2001.

[2] Cfr. M. Krull, Padre e figlio, vita familiare di Freud, Boringheri Torino, 1982; G. Prandi, L’eredità del trauma, Armando, Roma, 2001; J.M. Masson, Assalto alla verità: la rinuncia di Freud alla teoria della seduzione, Mondatori, Milano, 1984.

[3] Cfr. C. Foti, “L’impatto di un assassinio: dalla rimozione della sofferenza infantile alla proiezione della colpa (e ritorno)”, Minorigiustizia, n. 2, 1997

[4] Compaiono resoconti narrativi e giornalistici di vittime che parlano della loro esperienza senza atteggiamenti di protagonismo e di vittimismo e un complesso musicale (Gemelli Diversi) porta al successo una bellissima canzone su una ragazza abusata, “Mary” («Oh Mary, camminando su sentieri più sicuri sul diario segreto scrivevi: “Quella bestia non è mio papà”»).

[5] D. Filkenhor, “Current information on the scope and nature of sexual abuse”, Future of Children, 4 (2), 1994, pp. 31-53.

[6] Cfr. su http://users.libero.it/hansel.e.gretel, la sezione “Movimento per l’Infanzia”.

[7] Cfr. C. Foti, “La pedofilia e il partito degli abusanti”, Minorigiustizia, 2, 2002.

[8] Cfr. G. Lo Cascio (a cura di), Apprendere la violenza, Guerini, Milano, 1989.

[9] Cfr. F. Fornari, Genitalità e cultura, Feltrinelli, Milano, 1975.

[10] Cfr. C. Foti (a cura di), C’era un bambino che non era ascoltato, Centro Studi Hänsel e Gretel, 1992 (in corso di nuova edizione ampliata).

[11] D. Goleman (1988), La forza della meditazione, Rizzoli, Milano, 1997, p. 146.

[12] Cfr. C. Foti, “Etica e infanzia”, Bambino incompiuto, n. 3, 1990, pp. 5-19.

[13] C. Lasch, La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive, Bompiani, Milano, 1981, p. 257.

[14] In W. Yull, S. Perrin, P. Smith, Il disturbo post-traumatico da stress nei bambini e negli adolescenti, in W. Yull, Disturbo post-traumatico da stress, McGraw-Hill, Milano, p.31.

[15] Cfr. American psychiatric association, DSM IV, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Masson, Milano, 1994, p. 468 e ss.

[16] Cfr. T. Bennett-Goleman, Alchimia emotiva, Rizzoli, Milano, 2001.

[17] E. Welldon nello scritto pubblicato in questo libro difende la teoria freudiana dell’istinto di morte non tanto per sostenere la concezione biologistica ed innatista implicata nel concetto stesso, quanto per avvalersi di uno strumento descrittivo dei comportamenti masochistici delle vittime.

[18] Cfr. F. De Zulueta, Dal dolore alla violenza, Cortina, Milano, 1999.

[19] Cfr. A.A. Semi, Psiconevrosi e trauma, in A.A. Semi (a cura di) Trattato di psicoanalisi, Cortina, Milano, pp. 63-122.

[20] C. Roccia, C. Foti, Occhio non vede, cuore non duole. Operatori minorili e meccanismi di difesa nella gestione dei casi di abuso sessuale, in C. Roccia, C. Foti (a cura di), L’abuso sessuale sui minori. Educazione sessuale, prevenzione e trattamento, Unicopli, Milano, 1994.

[21] Secondo dati della Fondazione Terre des Hommes, l’offerta del mercato é varia, con prezzi di listino adeguati: si va dai semplici abusi sessuali, fino alla tortura e all’uccisione della piccola vittima. In questo caso si parla di videocassette snuff (che in inglese significa anche “spegnere”).

[22] Cfr. C. Roccia, Bambini vittime di abusi sessuali ritualistici e sette sataniche: trauma e meccanismi di difesa dalla sofferenza, in C. Roccia (a cura di) Riconoscere ed ascoltare il trauma. Maltrattamento e abuso sessuale ai danni dei minori, Angeli, Milano, 2001.

[23] R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano, 1980.

[24] J. L. Herman, Trauma and recovery, The aftermath of violence, Basic Book, New York, 1992.

[25] Cfr. J. L. Herman, op. cit.

[26] R. Summit, “The child sexual abuse accomodation syndrome”, Child Abuse and Neglect, (7), 1983, 177-193.

[27] S. Ferençzi (31 gennaio 1932), Diario clinico, Cortina, Milano, 1988, p.75.

[28] T.S. Trepper, M.J. Barrett, Systemic Treatment of Incest, Brunner- Mazel, New York, 1989.

[29] S. Ferençzi (1932), Confusione di lingue tra gli adulti e il bambino. Il linguaggio della tenerezza e il linguaggio della passione, in Opere, vol. IV, Cortina, Milano, 2002, pp. 91-100.

[30] Cfr. A. Miller, Il dramma del bambino dotato, Boringhieri, Torino, 1982; La persecuzione del bambino, Boringhieri, Torino, 1987; Il bambino inascoltato, Boringhieri, Torino, 1989; L’infanzia rimossa, Garzanti, Milano, 1990.

[31] Cfr. R. Siani, La psicologia del Sé, Boringhieri, Torino, 1993; cfr.inoltre C. Foti, Maltrattamento delle emozioni ed emozioni del maltrattamento, in Linee guida per l’intervento nei casi di maltrattamento fisico, psicologico e sessuale ai danni dei bambini e degli adolescenti, Centro Studi Hänsel e Gretel, Torino, 2000.

[32] S. Petronio, L.A. Flores, M. L. Hecht, “Locating the voice of logic: disclosure of sexual abuse”, Western Journal of Communication, 61, (1), 1997, pp.101-113.

[33] Cfr. C. Foti, “Dare voce al disagio”, Famiglia oggi, 12, pp.12-19.

[34] Cfr. J. Gottmann, L’intelligenza emotiva per un figlio, Rizzoli, Milano, 1997; B. Fagot, K. Luks, J. Poe, Parental influence on children’s willingness to disclose, in K.J. Rotemberg, (a cura di) Disclosure Process in Children and Adolescents, Cambridge University Press, New York, 1995.

[35] G. Guasto, Abuso e mondo interno: trauma, difese, devastazione, mentalizzazione, in C. Roccia (a cura di) Riconoscere ed ascoltare il trauma. Maltrattamento e abuso sessuale ai danni dei minori, Angeli, Milano, 2001.

[36] M. Malacrea, S. Lorenzini, Bambini abusati. Linee-guida nel dibattito internazionale, Cortina, Milano, pp. 211-212.

[37] Intervento verbale di G. Gulotta al Convegno “Ascolto dell’abuso e abuso nell’ascolto” nella giornata del 24 febbraio 2001.

[38] Cfr.J. Juul, Il bambino è competente, Feltrinelli, Milano, 2001.

[39] Cfr. T. Gordon, Genitori efficaci, La Meridiana, Molfetta, 1994.

[40] S. Ferençzi (1932), Confusione di lingue tra gli adulti e il bambino. Il linguaggio della tenerezza e il linguaggio della passione, in Opere vol. IV, Cortina, Milano, 2002, p 95.

[41] J.T. Leroy, Ingannevole il cuore più di ogni cosa, Fazi, Roma, 2002, pp. 152-153.

[42] T. Gordon, Genitori efficaci, La Meridiana, Molfetta, 1994.

[43] C. Foti, “La valutazione psicologica dell’attendibilità del minore presunta vittima di abuso sessuale”, Minorigiustizia, n. 2, 1998.

[44] Cfr. F. Gruyer, M. Fadier-Nisse, P. Sabourin, La violence impensable, Nathan, Paris, 1991.

[45] C. Foti, C. Roccia, Introduzione. La sessualità dei minori tra educazione ed abuso, in C. Roccia, C. Foti (a cura di), L’abuso sessuale sui minori. Educazione sessuale, prevenzione, trattamento, Unicopli, Milano, 1994, pp. 46-47.

[46] Cfr. J. Haesevoets, “Abus sexuels: pas de calme après la tempète”, Journal du droit des jeunes, 194, 2000.

[47] A. Miller, op. cit., Boringhieri, Torino,1989, p. 165.

[48] Cfr. Stiles, Shuster e Harrigan, cit. in S. Joseph, Dopo il trauma: supporto sociale e salute mentale, in W. Yull, Disturbo post-traumatico da stress, McGraw-Hill, Milano, p.59.