Il silenzio vale di piu' di tante parole...
 
 
Leòn, ore 5,15.
Viaggiamo veloci per raggiungere la coda della lunga fila di bananeros.
Sappiamo che sono partiti alle 3 di mattina di questo quarto giorno di marcia e dopo poco cominciamo a scorgere le prime persone rimaste un po' indietro rispetto al grosso del gruppo.
Non c'è protezione della Polizia ed alcuni bananeros camminano fuori dalla corsia d'emergenza, nel buio più totale e con macchine e camion che passano fin troppo vicini.
Scendiamo dalla macchina. Saluti. Qualche risata e gente che si ricorda perfettamente di noi, "degli italiani" che da anni accompagnano la loro lotta.
La marcia prosegue a un passo sorprendentemente veloce e si fa fatica a stargli dietro.
probabilmente se ne accorgono. A tratti ridono o commentano a bassa voce.
Sembra non pesare i 60 chilometri già percorsi e la lunga tappa di ieri di circa venti chilometri per recuperare terreno e rispettare i piani dell'entrata a Managua il 2 marzo prossimo.
C'è silenzio, solo un leggero brulicare, qualche battuta, qualche risata, il morale alto, lo si vede, lo si sente. Non c'è bisogno di parole perché, a volte, il silenzio è più forte di tante parole.
Marciamo con loro per qualche chilometro, mentre rapidamente l'alba prende il posto del buio e il cielo dell'occidente nicaraguense si colora di quel rosa tipico dell'estate tropicale.
 
Camminando
Mi affianco a Josè Calderon Castro, Merlo Antonio Urrutia Silva e Guillermo Antonio Lòpez, con i quali scambio una sigaretta che viene prontamente messa in tasca per fumarla una volta giunti al luogo dove accamperanno.
"Ieri, durante la giornata, siamo andati a trovare due compagni che stanno morendo. Gli manca poco. Sono persone che lavoravano nell'irrigazione delle bananeras ed erano in costante contatto con il Nemagòn. A uno gli hanno già tagliato una gamba ed ora è alla fine.
Io ho lavorato cinque anni, dal 1965 al 1970. Io invece dal 1965 al 1978, l'anno che hanno ucciso Pedro Joacquìn Chamorro. Poi è scoppiata l'offensiva contro la dittatura e  ho abbandonato il lavoro e mi sono integrato nella guerriglia.
Ho lavorato fin da piccolo. Eravamo una famiglia molto povera e non c'era tempo per studiare o giocare, si doveva lavorare per sopravvivere. Porto ancora con me il mio machete ed è come se fosse la mia origine, le mie radici.
Nelle piantagioni era costante il contatto con il Nemagòn perché cadeva dalle piante di banane e ti copriva il corpo.
Quando arriviamo a Managua andiamo diretti davanti alla Casa Presidencial perché devono rispondere delle promesse che ci ha fatto.
Il governo e i deputati ci devono aiutare e rispettare le promesse fatte e darci quello ci spetta per poterci curare e per poter sopravvivere. Se non ci daranno risposte, moriremo lì.
L'altra volta siamo tornati a casa pensando che la firma del presidente e dei deputati fosse sufficiente, ma non è così. Ora vogliamo i fatti e non le firme. Sono 13 anni che stiamo lottando e siamo stanchi di tutto questo.
Non abbiamo lavoro e dobbiamo arrangiarci come possiamo. Appena un'impresa sa che abbiamo lavorato nelle bananeras non ci accetta perché pensa che siamo contagiosi e che possiamo passare qualche malattia agli altri lavoratori. Inoltre abbiamo già superato i 35 anni e nessuno dà da lavorare a gente della nostra età.
Per questo abbiamo bisogno di una Pensione e dei fondi per le visite mediche, le medicine e le operazioni.
Io ho seri problemi al fegato e ai reni. Soffro di pressione alta e devo costantemente prendere delle medicine se no non ce la faccio..."
 
Gli racconto del premio Ethic Award dato alla Chiquita "per i cambiamenti strutturali apportati per superare il passato...".
La reazione è forte.
"E' assurdo. Sapevano benissimo quello che stavano facendo. Sapevano che il Nemagòn ci avrebbe ucciso e nonostante questo l'hanno portato qui in Nicaragua perché negli Stati Uniti non lo potevano più usare. Mio padre è morto con il corpo completamente rinsecchito e io sto male. Come si fa a cancellare il passato? Non si può. Va benissimo che abbiano cambiato modo di fare, ma devono risolvere il problema che vive la gente a causa di quello che hanno fatto nel passato. Vogliono cancellare il passato, ma noi siamo il presente perché abbiamo lavorato in quegli anni e la realtà che oggi siamo ammalati. Noi stiamo chiedendo che si rispettino i nostri diritti".
 
L'unione delle lotte
Si arriva al punto predisposto per l'accampamento, dove i bananeros si fermeranno fino a domani mattina per riprendere la marcia.
Un punto fondamentale di questa marcia è la presenza di vari settori che si sono aggregati alla marcia dei bananeros per far sentire la propria voce.
E' il caso dei lavoratori di TRABANIC, che sono stati beneficiati all'inizio degli anni 90 dagli Accordi di Transizione con il governo della presidentessa Violeta Barrios de Chamorro e ai quali spetterebbe il 25 per cento degli utili delle imprese bananeras. Molti di loro, secondo la versione di Ilario Calero, sono stati ingannati, truffati da imprenditori senza scrupoli che hanno rubato i loro diritti o che gli danno una miseria invece delle somme che gli spettano.
Hanno iniziato un processo contro un deputato di Chinandega e marciano affinché gli si permetta di avere ciò che gli spetta.
E' il caso anche degli ex lavoratori della canna da zucchero e dalle centinaia di vedove di ex lavoratori morti.
Come racconta Gustavo Martìnez, erano circa duemila le persone che, a causa dei pesticidi usati nell'Ingenio San Antonio, proprietà della potente famiglia Pellas, hanno cominciato a soffrire di insufficienza renale cronica. Una vera epidemia nella regione dell'occidente nicaraguense.
Di questi duemila, mille sono già morti ed ora, nonostante la legge 456 gli garantisca il diritto a una pensione vitalizia in quanto riconosce il lavoro del taglio della canna da zucchero come lavoro a rischio professionale, il Presidente della Repubblica ha prima vetato la legge e poi, una volta pubblicata, si rifiuta di applicarla.
Chiedono anche all'Ingenio San Antonio che li indennizzi per le morti e le malattie causate.
 
La sosta
La gente si ferma e si disperde subito per attaccare le proprie amache agli alberi. Amache che saranno i loro letti anche per questa notte.
Il morale è alto e si sente che la gente è cosciente di quello che sta facendo, anche se il corpo non risponde più come vorrebbero
Ci disperdiamo tra la gente. Molti sono stanchi e una persona anziana, a cui avevano sconsigliato venire ma che non ha voluto sentire ragioni, sta vomitando per lo sforzo fatto.
Poco più in là un altra persona si accascia vicino ad un albero, con le gambe tremanti, quasi svenendo. Gli portano acqua e si riprende lentamente.
C'è la corsa a prendere un po' di caffè ed ognuno tira fuori il poco cibo che si è portato. Fino a questo momento solo alcune organizzazioni hanno portato del cibo da poter cucinare per tutti, per cui ognuno si arrangia come può.
"Speriamo che avvicinandoci a Managua, la società civile cominci ad aiutarci con il cibo", dice Victorino Espinales.
 
La storia di Paula Olivia
 
 
Paula Olivia Zuniga Lòpez è stesa su un'amaca, vicino a suo marito. Stanca, sfinita dalla lunga camminata.
Sul suo corpo, ma soprattutto su suoi piedi, gli effetti del Nemagòn dopo 8 anni passati nelle bananeras.
Parla con calma e si scopre la pancia per far vedere il corpo coperto di macchie, tipiche di molte persone che hanno subito i danni del pesticida.
"Ho lavorato dal 1972 al 1980 facendo ogni tipo di lavoro, tra cui il lavaggio delle banane coperte di pesticida. L'acqua inquinata ci cadeva sul corpo e soprattutto sui piedi.
Dopo otto anni me ne sono andata perché non sopportavo più la pesantezza di quel lavoro. Guadagnavo 1,15 cordobas l'ora e alla fine della giornata interminabile di lavoro guadagnavo una miseria.
A un certo punto non ce l'ho fatta più, ma ben presto sono arrivati i problemi fisici.
Ho problemi molto seri alla vista, ci vedo pochissimo. Ho dolori continui ai reni, a pancia e un seno coperti di macchie. Sono stata operata di cancro all'utero e i piedi si sono deformati e mi si spacca la pelle...guarda come sono....
L'anno scorso non sono potuta venire alla marcia perché avevo i piedi pieni di piaghe, ma quest'anno sopporterò il dolore, ma sono voluta venire. Dobbiamo andare davanti al governo e ai deputati perché ci diano quello che ci hanno promesso e che poi non hanno rispettato.
Negli ospedali non danno nulla, ti danno la ricetta e poi non ci sono medicine o sono carissime..."
 
Verso le 11.30 c'è fermento per la chiamata in diretta con radio CittàFujico di Bologna.
La gente si assiepa vicino al telefono e intorno a Victorino Espinales.
C'è coscienza che sia importante che le informazioni sulla loro marcia e sulla loro lotta escano dai confini del Nicaragua e giungano dall'altra parte dell'oceano affinché, anche da quel posto chiamato Italia e che probabilmente fanno fatica a realizzare dove si trovi, giungano pressioni sul governo e sui deputati.
La diretta viene fatta, anche se con qualche problema di comunicazione telefonica e ci apprestiamo ad andarcene.
Qualcuno chiede quando ci vedremo ancora e in quel momento ti rendi conto di quanto sia importante continuare a mantenere il nostro appoggio, la nostra mobilitazione in Italia, i nostri sforzi per far conoscere questa storia.
 
 
(Foto e testo Giorgio Trucchi)