Sono arrivati
 
 
Managua 2 marzo 2005
 
Verso le 7.30 del mattino tutto è pronto per l'entrata a Managua.
Poco prima dell'avvio arriva la notizia che un altro compagno è morto in un ospedale di Managua. E' la vittima numero 842 e la gente si guarda rassegnata. Forse lo porteranno nella bara all'interno dell'accampamento a Managua per un ultimo saluto.
C'è un'aria diversa rispetto alle scorse marce.
Le migliaia di persone ferme, in fila ordinata, silenziose, pronte a iniziare la discesa dalla Cuesta de Plomo (che ha preso questo nome in quanto, durante la dittatura somozista, veniva utilizzato come luogo in cui venivano portati i prigionieri politici, uccisi e buttati nelle scarpate sottostanti), si vedono molto stanche, segnate da undici giorni di cammino, di scarsa alimentazione.
Molte di loro sono già arrivate alla quarta marcia e gli anni che passano e le malattie che peggiorano giorno dopo giorno, hanno evidentemente influito sulla loro resistenza.
Quello che non cambia è la determinazione che traspare da ogni parola. La mente, l'obiettivo finale stanno ormai supportando il corpo.
 
Que pasò Julio?
 
 
Julio Rivera ha 73 anni, molti dei quali passati nelle bananeras.
Un viso sfigurato dalla malattia e le mani che hanno ormai  perso la maggior parte del proprio colore originario.
E' alla quarta marcia e parla a fatica mentre camminiamo verso Managua.
"Ho lavorato durante gli anni 70. Il Nemagòn mi ha colpito il fegato, i reni, il pancreas e il sistema nervoso. Posso mangiare molto poco perché mi gonfio subito.
Durante il lavoro tiravano il pesticida con le pompe di irrigazione e quando andavamo a lavorare, ci bagnavamo tutti con questo liquido che cadeva dalla piante di banane.
Me ne sono dovuto andare via perché stavo male. Sono iniziate a comparire varie macchie che si sono estese in tutto il corpo e adesso guarda in che condizioni sono...
Non lavoro e ogni tanto qualcuno mi aiuta, ma chi ha i soldi per comprare le medicine di cui ho bisogno?
E' la quarta volta che vengo a marciare. E' stato orribile, pesante, abbiamo mangiato poco, ma siamo ancora qui. Il governo ha firmato un accordo che non ha rispettato ed ora torniamo per costringerlo a darci quello che ci spetta. Resteremo fino alla fine".
"Resteremo fino alla fine". E' la frase che si sente dire da tutti. Tutti ne sono coscienti. Tutti sanno che si stanno mettendo in un vicolo cieco e che, questa volta, sarà l'ultima, fino alle ultime conseguenze.
 
Le più di 4 mila persone che scendono verso Managua bloccano tutto il traffico. Molte sono già a predisporre il luogo dove accamperanno e molte altre arriveranno in bus, quelle che stanno peggio e che, probabilmente, faranno avanti e indietro dipendendo dal loro stato di salute. La stima è che da questa notte siano circa in 7 mila a Managua.
Il cielo è per fortuna nuvoloso e quindi il calore un po' meno intenso dei giorni scorsi.
Verso le 10 si arriva davanti alla Procura per la Difesa dei Diritti Umani, dove il Procuratore Omar Cabezas, ex leader guerrigliero ed ex deputato del Frente Sandinista, riceve una delegazione dei bananeros, dei cañeros e degli altri settori che si sono sommati alla marcia.
Concordano una riunione per il prossimo sabato per conformare una commissione amplia che appoggi i bananeros nella loro lotta.
Ci si prepara e il presidente della Asotraexdan, Victorino Espinales, parla già di iniziative forti che costringano deputati e governo ad accettare le loro richieste: marciare nudi, crocifiggersi, interrarsi fino al collo, resistenza civile.
Il potere della disperazione di fronte a una classe politica più volte apparsa insensibile e inetta.
Il degrado umano per poter essere ascoltati. Ma i bananeros sanno che è una lotta titanica, contro il potere politico e contro i mostri delle multinazionali.
Ma cos'hanno da perdere? La vita l'hanno già persa. Quanti di questi volti rivedrò la prossima volta? Quanti andranno a far parte delle statistiche dei deceduti per il Nemagòn?
 
 
La marcia continua e intanto, si avvicina come sempre Virginia Cruz, sempre presente in ogni marcia e davanti ai mezzi di comunicazione per denunciare le atrocità commesse dalle multinazionali.
"Questa ferite che vedi nella pancia sono dovute a un'operazione urgente che mi hanno fatto 25 anni fa per far nascere mio figlio. La mia pancia era piena di liquido giallo che puzzava, secondo i dottori mescolato con il veleno che avevo assorbito nella bananera dove ho lavorato per 30 anni e da quando avevo 15 anni. Il liquido ha distrutto mio figlio che ora non può camminare, non può alzare le braccia, non può fare niente. E' completamente aguado.
Quattro giorni fa mi hanno ricoverato e sono rimasta in ospedale un giorno, ma oggi sono ancora qui con gli altri compagni e compagne.
Mio marito è morto tre anni dopo la nascita di mio figlio e dopo anni di duro lavoro nelle bananeras.
Se solo avessimo saputo che ci stavano facendo usare questo pesticida avremmo immediatamente lasciato il lavoro, ma nessuno ci ha mai detto niente.
Noi siamo contadini, non moriamo mai di fame perché sappiamo lavorare e il Presidente della Repubblica sa perfettamente che senza i contadini lui non è niente. Ha bisogno di noi perché noi siamo quelli che coltiviamo e diamo da mangiare a questo paese.
Ci chiedono il voto e poi, quando sono al potere, le vale verga di come stiamo.
Non si vergognano per quello che stanno facendo? Ci dicono che dobbiamo rimboccarci le maniche, ma oggi siamo qui per rimboccarle ai politici, perché noi abbiamo già lavorato duro per anni e questi sono i risultati che ci ha lasciato il lavoro".
Poco distante, una donna si accascia, svenuta, sfinita. Arriva l'ambulanza e la porta all'ospedale. Un uomo vicino a me scuote la testa e dice...."da là non esce più, aveva forti dolori al petto..."
 
 
Finalmente, verso le 12, si arriva alla destinazione finale.
La gente accelera il passo per arrivare il prima possibile e trovare posti decenti dove poter piazzare le proprie amache, i cartoni come tetto e i propri umili bagagli.
Sugli alberi di eucalipto, che l'hanno scorso erano totalmente spogli, sono cresciuti un po' di rami e di foglie che daranno un po' di ombra per rendere meno pesante la permanenza di fronte alla Asamblea Presidencial.
E' ora di pranzo e con i primi aiuti, i bananeros hanno organizzato riso e fagioli per tutti.
La gente si accalca e si mette in fila per ricevere il proprio piatto che divorano in pochi secondi.
Altri incominciano a cucinare del riso o a stendersi in amaca per riposarsi dopo tanto camminare e lentamente, quella che l'anno scorso era stata denominata la "Ciudadela del Nemagòn" riprende forma e consistenza.
Inizia ora la vera sfida e il braccio di ferro con governo e parlamento nella quale si cercherà di coinvolgere le organizzazioni della società civile, dei diritti umani, la società in generale e travalicare i confini del Nicaragua affinché la lotta dei bananeros sia un esempio anche a livello internazionale. Hanno bisogno di sostegno e appoggio perché la loro lotta è anche la lotta di centinaia di migliaia di persone che, in America Latina, muoiono di fame, di stenti e di miseria ogni giorno. Lavoratori delle bananeras, della canna da zucchero, delle miniere, del tabacco, del caffè, delle zone franche, comunità indigene, organizzazioni popolari, sfruttati all'inverosimile da un sistema che arricchisce pochi a scapito di milioni di diseredati.
L'attenzione del mondo ha abbandonato questi posti.
Bisogna ridare voce a queste lotte, c'è bisogno che il mondo torni a guardare.
La "Marcia senza ritorno" è finita. Ora inizia la lotta per la vita, per la sopravvivenza e per la giustizia.
 
(Foto e testo Giorgio Trucchi)