Verso le 7.30 del mattino tutto è pronto per l'entrata a Managua.
Poco prima dell'avvio arriva la notizia che un altro compagno
è morto in un ospedale di Managua. E' la vittima numero 842 e la gente si guarda
rassegnata. Forse lo porteranno nella bara all'interno dell'accampamento a
Managua per un ultimo saluto.
C'è un'aria diversa rispetto alle scorse marce.
Le migliaia di persone ferme, in fila ordinata, silenziose,
pronte a iniziare la discesa dalla Cuesta de Plomo (che ha preso questo nome in
quanto, durante la dittatura somozista, veniva utilizzato come luogo in cui
venivano portati i prigionieri politici, uccisi e buttati nelle scarpate
sottostanti), si vedono molto stanche, segnate da undici giorni di cammino, di
scarsa alimentazione.
Molte di loro sono già arrivate alla quarta marcia e gli anni
che passano e le malattie che peggiorano giorno dopo giorno, hanno evidentemente
influito sulla loro resistenza.
Quello che non cambia è la determinazione che traspare da
ogni parola. La mente, l'obiettivo finale stanno ormai supportando il
corpo.
Que pasò Julio?
Julio Rivera ha 73 anni, molti dei quali passati nelle
bananeras.
Un viso sfigurato dalla malattia e le mani che hanno
ormai perso la maggior parte del proprio colore originario.
E' alla quarta marcia e parla a fatica mentre camminiamo
verso Managua.
"Ho lavorato durante gli anni 70. Il Nemagòn mi ha colpito il
fegato, i reni, il pancreas e il sistema nervoso. Posso mangiare molto poco
perché mi gonfio subito.
Durante il lavoro tiravano il pesticida con le pompe di
irrigazione e quando andavamo a lavorare, ci bagnavamo tutti con questo liquido
che cadeva dalla piante di banane.
Me ne sono dovuto andare via perché stavo male. Sono iniziate
a comparire varie macchie che si sono estese in tutto il corpo e adesso guarda
in che condizioni sono...
Non lavoro e ogni tanto qualcuno mi aiuta, ma chi ha i soldi
per comprare le medicine di cui ho bisogno?
E' la quarta volta che vengo a marciare. E' stato orribile,
pesante, abbiamo mangiato poco, ma siamo ancora qui. Il governo ha firmato un
accordo che non ha rispettato ed ora torniamo per costringerlo a darci quello
che ci spetta. Resteremo fino alla fine".
"Resteremo fino alla fine". E' la frase che si sente dire da
tutti. Tutti ne sono coscienti. Tutti sanno che si stanno mettendo in un vicolo
cieco e che, questa volta, sarà l'ultima, fino alle ultime conseguenze.
Le più di 4 mila persone che scendono verso Managua bloccano
tutto il traffico. Molte sono già a predisporre il luogo dove accamperanno e
molte altre arriveranno in bus, quelle che stanno peggio e che, probabilmente,
faranno avanti e indietro dipendendo dal loro stato di salute. La stima è che da
questa notte siano circa in 7 mila a Managua.
Il cielo è per fortuna nuvoloso e quindi il calore un
po' meno intenso dei giorni scorsi.
Verso le 10 si arriva davanti alla Procura per la Difesa dei
Diritti Umani, dove il Procuratore Omar Cabezas, ex leader guerrigliero ed ex
deputato del Frente Sandinista, riceve una delegazione dei bananeros, dei
cañeros e degli altri settori che si sono sommati alla marcia.
Concordano una riunione per il prossimo sabato per conformare
una commissione amplia che appoggi i bananeros nella loro lotta.
Ci si prepara e il presidente della Asotraexdan, Victorino
Espinales, parla già di iniziative forti che costringano deputati e governo ad
accettare le loro richieste: marciare nudi, crocifiggersi, interrarsi fino al
collo, resistenza civile.
Il potere della disperazione di fronte a una classe politica
più volte apparsa insensibile e inetta.
Il degrado umano per poter essere ascoltati. Ma i bananeros
sanno che è una lotta titanica, contro il potere politico e contro i mostri
delle multinazionali.
Ma cos'hanno da perdere? La vita l'hanno già persa. Quanti di
questi volti rivedrò la prossima volta? Quanti andranno a far parte delle
statistiche dei deceduti per il Nemagòn?
La marcia continua e intanto, si avvicina come sempre
Virginia Cruz, sempre presente in ogni marcia e davanti ai mezzi di
comunicazione per denunciare le atrocità commesse dalle multinazionali.
"Questa ferite che vedi nella pancia sono dovute a
un'operazione urgente che mi hanno fatto 25 anni fa per far nascere mio figlio.
La mia pancia era piena di liquido giallo che puzzava, secondo i dottori
mescolato con il veleno che avevo assorbito nella bananera dove ho lavorato per
30 anni e da quando avevo 15 anni. Il liquido ha distrutto mio figlio che ora
non può camminare, non può alzare le braccia, non può fare niente. E'
completamente aguado.
Quattro giorni fa mi hanno ricoverato e sono rimasta in
ospedale un giorno, ma oggi sono ancora qui con gli altri compagni e
compagne.
Mio marito è morto tre anni dopo la nascita di mio
figlio e dopo anni di duro lavoro nelle bananeras.
Se solo avessimo saputo che ci stavano facendo usare
questo pesticida avremmo immediatamente lasciato il lavoro, ma nessuno ci ha mai
detto niente.
Noi siamo contadini, non moriamo mai di fame perché sappiamo
lavorare e il Presidente della Repubblica sa perfettamente che senza i contadini
lui non è niente. Ha bisogno di noi perché noi siamo quelli che coltiviamo
e diamo da mangiare a questo paese.
Ci chiedono il voto e poi, quando sono al potere, le vale
verga di come stiamo.
Non si vergognano per quello che stanno facendo? Ci dicono
che dobbiamo rimboccarci le maniche, ma oggi siamo qui per rimboccarle ai
politici, perché noi abbiamo già lavorato duro per anni e questi sono i
risultati che ci ha lasciato il lavoro".
Poco distante, una donna si accascia, svenuta, sfinita.
Arriva l'ambulanza e la porta all'ospedale. Un uomo vicino a me scuote la
testa e dice...."da là non esce più, aveva forti dolori al petto..."
Finalmente, verso le 12, si arriva alla destinazione
finale.
La gente accelera il passo per arrivare il prima possibile e
trovare posti decenti dove poter piazzare le proprie amache, i cartoni come
tetto e i propri umili bagagli.
Sugli alberi di eucalipto, che l'hanno scorso erano
totalmente spogli, sono cresciuti un po' di rami e di foglie che daranno un po'
di ombra per rendere meno pesante la permanenza di fronte alla Asamblea
Presidencial.
E' ora di pranzo e con i primi aiuti, i bananeros hanno
organizzato riso e fagioli per tutti.
La gente si accalca e si mette in fila per ricevere il
proprio piatto che divorano in pochi secondi.
Altri incominciano a cucinare del riso o a stendersi in amaca
per riposarsi dopo tanto camminare e lentamente, quella che l'anno scorso era
stata denominata la "Ciudadela del Nemagòn" riprende forma e consistenza.
Inizia ora la vera sfida e il braccio di ferro con governo e
parlamento nella quale si cercherà di coinvolgere le organizzazioni della
società civile, dei diritti umani, la società in generale e travalicare i
confini del Nicaragua affinché la lotta dei bananeros sia un esempio anche a
livello internazionale. Hanno bisogno di sostegno e appoggio perché la loro
lotta è anche la lotta di centinaia di migliaia di persone che, in America
Latina, muoiono di fame, di stenti e di miseria ogni giorno. Lavoratori delle
bananeras, della canna da zucchero, delle miniere, del tabacco, del caffè, delle
zone franche, comunità indigene, organizzazioni popolari, sfruttati
all'inverosimile da un sistema che arricchisce pochi a scapito di milioni di
diseredati.
L'attenzione del mondo ha abbandonato questi posti.
Bisogna ridare voce a queste lotte, c'è bisogno che il mondo
torni a guardare.
La "Marcia senza ritorno" è finita. Ora inizia la lotta per
la vita, per la sopravvivenza e per la giustizia.