A un passo dall'arrivo...o dall'inizio
 
 
Sono a dieci chilometri da Managua e il 2 marzo entreranno nella capitale e s'istalleranno davanti alla Asamblea Nacional fino a che governo e deputati non diano loro risposte concrete alle loro richieste.
Sono quasi alla fine del loro viaggio, ma all'inizio di un'avventura dagli esiti incerti che hanno denominato la "Marcia senza ritorno".
Il gruppo di bananeros ammalati a causa del pesticida Nemagòn sono ormai in marcia da nove giorni e se ne vedono chiaramente i segni.
Mal nutriti, in parte disidratati, piedi pieni di vesciche, alla disperata ricerca di ombra sotto la quale stendere le proprie amache.
Sono molti di più, circa 2 mila. Il grosso arriverà tra oggi e domani, prima dell'entrata a Managua e alla fine il numero dovrebbe stabilizzarsi sui 7 mila, più qualche migliaio che farà avanti e indietro perché non è nelle condizioni di resistere in un accampamento improvvisato e per un tempo indefinito.
Non manca però il buon umore. Nonostante la stanchezza sono sempre pronti a parlare, a comunicare, a offrirti qualcosa di quel poco o niente che hanno. Ridono e scherzano anche sulle condizioni dei loro piedi. Un misto di disperazione, tenacia e senso dell'autoironia che lascia sempre sconcertato chi giunge per parlare con loro.
Uno dei leader delle varie organizzazioni, che si sono sommate a questa ennesima tappa della lotta per un giusto indennizzo per i danni subiti e per costringere governo e deputati a concedergli quello che gli spetta, sta dormendo profondamente sull'amaca.
Lo sveglio e da parte sua c'è l'immediata disponibilità a parlare.
Ormai tra la gente è fin troppo chiaro che la pressione che verrà dall'estero è fondamentale, è un'arma in più che alza il loro potere di negoziazione.
"Sta arrivando sempre più gente e oggi ne dovrebbero arrivare circa mille. C'è un buon clima, la gente è attiva e con voglia di portare questa lotta fino alle ultime conseguenze.
Per il momento è andato tutto bene e non ci sono stati grossi problemi. Molta stanchezza ma, al contrario dell'anno scorso dove in molti sono dovuti tornare a casa perché non ce la facevano, svenivano o addirittura abbiamo dovuto ricoverarli in ospedale, quest'anno abbiamo diluito maggiormente le tappe ed abbiamo evitato le camminate sotto il sole e quindi stiamo tutti abbastanza bene a parte gli ovvi problemi ai piedi, allo stomaco per la scarsa alimentazione e la scarsità di liquidi.
Abbiamo invece ricevuto la dolorosa notizia che durante questi nove giorni di marcia sono morte altre tre persone che non erano venute perché stavano molto male.
Con questi tre morti, il numero di questo massacro di cui le multinazionali sono responsabili sale a 841 e sappiamo che un altro compagno di La Paz Centro è in fin di vita.
Stiamo ormai marciando a una media di 100 morti all'anno e la percentuale non può che aumentare perché queste malattie non si fermano e nessuno ha i mezzi economici per curarsi.
Il 2 entriamo a Managua. Passeremo dalla Procura per la difesa dei diritti umani e chiederemo, insieme ad altri gruppi della società civile, di formare un'alleanza che ci appoggi per tutto il tempo che resteremo nella capitale.
Il Centro Nicaraguense de Derechos Humanos (Cenidh) ha già predisposto la realizzazione di cinque corsi per i bananeros sui diritti umani affinché siano sempre più coscienti dei loro diritti che costantemente vengono violati.
Alla Procura abbiamo già presentato le denunce contro il Presidente della Repubblica, la Asamblea Nacional e la Commissione Interistituzionale che si era formato a seguito degli accordi dello scorso anno.
Già non c'interessano discorsi e firme, vogliamo i fatti perché, per molti, il tempo sta finendo".
 
La storia di Maria de los Angeles
 
 
Maria de los Angeles Hernandez l'ho vista tante volte durante le marce dei bananeros.
L'ultima volta era a Chinandega durante la protesta contro le multinazionali perché non volevano riconoscere che le donne si erano ammalate per il contatto continuo con il Nemagòn. Secondo "i padroni delle banane" non potevano essere malate perché non avevano lavorato direttamente nei campi, ma nel lavaggio delle banane.
Non tenevano conto che le banane arrivavano al lavaggio inzuppate di pesticida e che le donne si bagnavano costantemente con acqua inquinata.
Aveva partecipato anche alla marcia dello scorso anno, insieme al marito Pedro Lezama di 65 anni ed erano dovuti tornare a Chinandega perché stavano molto male, soprattutto lui.
La ritrovo oggi stesa sulla sua amaca insieme ad un altro gruppo di donne.
Tutte intorno al fuoco su cui è posta una pentola a bollire.
"Stiamo facendo una sopa. E' appena passata un'amica che mi ha regalato un osso e con questo ci facciamo una sopa de res".
Hanno tutti visi stanchi, ma determinati.
Maria de los Angeles è sola, suo marito è morto sette mesi fa.
Ha comunque deciso di partecipare alla marcia anche per lui. Tira fuori una foto e me la mostra.
La ritrae vicino alla bara del marito. La porta sempre con sé e la farà vedere come testimonianza di quello che hanno fatto il Nemagòn e le multinazionali che gliel'hanno fatto usare.
Le donne vicino a lei le si stringono vicino e ascoltano.
"Pedro ha lavorato nelle bananeras da quando aveva quindici anni e ci è rimasto per trent'anni. Ha fatto di tutto. Nel 1985 ha abbandonato il lavoro perché era molto malato. Aveva il corpo coperto di macchie, anche nella parte genitale, non vedeva quasi più ed aveva perso i capelli.
Aveva continui giramenti di testa e alla fine faceva fatica anche a camminare.
Durante l'ultima marcia siamo dovuti tornare a casa perché ha cominciato a non trattenere più l'urina e si vergognava del fatto che si bagnava costantemente e noi non avevamo cambi sufficienti.
E' morto lentamente, giorno dopo giorno.
Io ho lavorato per otto anni e sono ammalata. Non me la sento di dirti che malattia ho perché mi vergogno e perché c'è altra gente che ascolta, ma - indicandomi la parte genitale - sono cose gravi.
Non abbiamo mai avuto nessun aiuto da parte del governo e ancora meno da parte delle multinazionali. Al contrario adesso ho dovuto fare dei debiti per poter fare il funerale a mio marito e non so come pagarlo. La nostra associazione mi ha aiutato per fare la veglia funebre con il pane e il caffè da dare ai partecipanti, ma per il resto ho dovuto pensarci da sola.
L'unica cosa che riesco a fare è vendere pomodori e con questo mi mantengo.
La situazione è difficile, ma dopo tanti anni di lotta, di marce, di proteste è venuto il momento di esigere quello che ci spetta.
Io non so perché questa gente ha il cuore così duro. Perché non vogliono vedere i sacrifici che stiamo facendo e quello che stiamo soffrendo? Perché, se abbiamo ragione? Non è morto solo mio marito, ma centinaia di persone e siamo disposti a rimanere in qualsiasi condizioni, sotto il sole, soffrendo la fame fino a che non ci daranno una risposta concreta.
Guarda come sono conciati i miei piedi. Abbiamo patito il sole e la sete perché non sempre abbiamo trovato acqua, i piedi sono pieni di vesciche, non sappiamo dove andare a fare i nostri bisogni ed è imbarazzante inoltrarsi nei campi per nascondersi e fare le nostre cose.
Abbiamo mangiato poco e i pochi soldi che avevamo sono già finiti. Per fortuna sono arrivate persone di buon cuore che ci hanno portato un po' da mangiare.
Sono grossi sacrifici, ma dobbiamo andare avanti fino alla fine, non ci pieghiamo, andiamo avanti con o senza mangiare perché abbiamo fede e fiducia in questo popolo che sempre ci ha aiutato".
 
Intorno a Maria de los Angeles si stringe il gruppo di donne. Maria Amparo Mèndez racconta anche la sua storia e quella di suo marito, lavoratore delle bananeras per vent'anni e morto nel 2001 dopo essere praticamente rimasto in sedie a rotelle.
Anche lei mi fa vedere la foto e alla discussione si aggiungono le altre donne, tutte malate, tutte con storie agghiaccianti, ma reali. Tutte vittime del Nemagòn e di quelle multinazionali che hanno inquinato l'intero Centroamerica pagando i propri lavoratori due dollari al giorno .
Alla fine mi invitano a restare a pranzare con loro, a condividere il poco che hanno come è normale  nella cultura campesina, tra la gente povera, dove se si mangia in cinque si può mangiare anche in sei, cultura così lontana dai luccichii e dai centri commerciali di Managua.
Mi allontano con la promessa di rivederci all'entrata a Managua e spiego loro a che cosa serviranno queste interviste, queste foto.
Dare, per quello che si può, voce a chi non l'ha. Unire volti alle parole scritte, alle storie.
Rompere l'abitudine a sentire parlare di migliaia di morti come se si parlasse di noccioline e non di persone, ognuna con la propria vita, i propri problemi, la propria vita e famiglia.
Inchiodare multinazionali, governi, deputati alle proprie responsabilità.
Far sentire che non sono soli e sole e sembra che questo l'abbiano ben capito.
 
(Testo e foto Giorgio Trucchi)