DANIELA LEUZZI

Giacomo Leopardi: Epistolario

 

Storia di un'anima era il titolo di un'opera progettata dal Leopardi ma mai scritta, della quale troviamo cenno in una lettera del marzo 1829 indirizzata a Pietro Colletta: "Storia di un'anima: Romanzoche racconterebbe le vicende interne di un animo nato nobile e tenero, dal tempo delle sue prime ricordanze fino alla morte"

Il ritratto interiore del poeta può essere colto attraverso l'epistolario che compone un'ideale autobiografia del Leopardi: ne testimonia il pensiero ed i sentimenti in tutti i "nodi" fondamentali dell'esistenza. Si realizza un perfetto intreccio fra vita e letteratura che ci consente di cogliere "a tuttotondo" l'uomo ed il poeta.

Il Leopardi diciannovenne, che ha trascorso l'intera adolescenza a Recanati, avverte l'arretratezza dell'ambiente, l'isolamento del "natio borgo selvaggio" .L'amicizia con il letterato piacentino Pietro Giordani è il primo contatto con un interlocutore esterno, una potenziale via di fuga da un luogo dove tutto è "morte, insensataggine e stupidità".

"Unico divertimento è quello che mi ammazza": afferma con decisione il poeta che confessa poi al Giordani di essersi rovinato con " sette anni di studio matto e disperatissimo".

Il Leopardi ha la chiara consapevolezza della propria futura infelicità ma si prepara ad affrontarla senza viltà, con animo fiero e sprezzante, mostrando impulsi di titanismo che convivono nel suo animo con momenti di vittimismo e cupa disperazione. Sofferenza fisica e travaglio interiore sono collegate alla permanenza in Recanati vissuta come prigionia. Le lettere inerenti il tentativo di fuga sono ricche di spunti utili per comprendere le pulsioni del poeta che, rivolgendosi al fratello Carlo, confessa di essere stanco della "prudenza" : ecco ,in un solo termine, la sintesi del modo di vita della famiglia, di Recanati, dello stato Pontificio.

La lettera al padre è una severa requisitoria nella quale è messa in luce la volontà di Monaldo di far rientrare i figli nel rigido piano di famiglia. Giacomo si oppone con orgoglio al padre, accusandolo di averlo avviato ad una cultura reazionaria; ribellandosi alla meschinità nella quale sente di essere vissuto afferma: "Voglio piuttosto essere infelice che piccolo e soffrire piuttosto che annoiarmi". Nella casa paterna Giacomo è segregato nel ruolo di "figlio di famiglia", non ha la possibilità diventare uomo.(deve essere ricordata a questo proposito l'interpretazione in chiave psicoanalitica di G. Amoretti).

La fuga, scoperta e sventata, il fallimento, le precarie condizioni di salute sollecitano dolorose meditazioni sulla propria esistenza e sull'uomo in generale: le lettere al Giordani ed a Pietro Brighenti scritte tra il 1819 ed il 1821 sono pervase dalla convinzione del "Nulla dell'esistenza, della vanità di ogni cosa" .é interessante notare come in un primo momento il poeta affermi di non scorgere alcun divario tra la morte e la vita da lui condotta e, dopo l'invito del Giordani ad accettare la morte come un bene, si senta invece legato all'esistenza. Il Leopardi fornisce le motivazioni di tale apparente contraddizione e manifesta il suo ardente desiderio di atti eroici. Se la morte è presentata come un sollievo e privata della propria austera grandezza, non è più desiderabile. La vita anche se infelice, a causa della natura "matrigna" e della fortuna, trova conforto nell' immaginazione e nelle illusioni, che lentamente diventeranno l'unica paradossale "realtà" da vivere.

Egli afferma di "Non voler vivere" poiché la fortuna lo ha condannato ad un'esistenza "priva di gioventù", tuttavia si appresta a sopportare tutte le sofferenze che la natura vorrà infliggergli, dopo averlo fatto nascere per vederlo soffrire. Il lettore può comprendere dalle epistole il carattere mutevole e complesso del pessimismo leopardiano che, legato strettamente al divenire esistenziale, sfugge a rigide classificazioni.

Nel 1822 si colloca il primo viaggio a Roma: la grande città si rivela più meschina rispetto alle fantasie del giovane Giacomo: Nelle lettere ai Carlo e Paolina il poeta denuncia la frivolezza romana, unico piacere è la visita al sepolcro del Tasso ,vissuta con tutta l'intensità di un pellegrinaggio.

Nelle lettere a Giampietro Vieusseux, Leopardi confessa il proprio "vizio di absence", tendenza incorreggibile e disperata, maturata nel tempo, a non manifestare agli altri le sensazioni e le emozioni che trovano voce sublime nelle composizioni poetiche…. Come un eremita "dimora quasi sempre solo con se stesso", così il poeta vive distaccato dalla società e dalle credenze "progressive" del suo tempo: accetta dunque l'appellativo di "Eremita degli Appennini" attribuitogli dal Vieusseux ma afferma di non essere adatto al ruolo di flagellatore dei costumi.

Dopo il ritorno a Recanati il pensiero ricorrente nelle lettere è quello della fuga: La lontananza dalla casa paterna provoca dei miglioramenti di salute, il ritorno nell ' "orribile e detestata dimora" è invece motivo di disperazione ed accentua il desiderio di "cercar salute o morire e a Recanati non tornare più".

Il soggiorno a Recanati è una "notte orribile" che si protrae per sedici lunghi mesi.

Nella lettera "agli amici di Toscana" (1830) la sofferenza induce il Leopardi ad affermare: "Ho perduto tutto: sono un tronco che sente e pena". Il dolore diventa più intenso, le lettere sempre più brevi: La morte è invocata "non per eroismo, ma per il rigore delle pene che provo"

La morte, prima vagheggiata come un atto eroico, diventa riposo agognato, unico rimedio a "mali immedicabili".

La "grande anima del Leopardi" che conclude la sua storia con la lettera scritta diciotto giorni prima del trapasso è stremata dal dolore: non solo personale, interiore e fisico, ma universale.